L’Italia è un paese antigravitazionale
Questo testo è uscito sul numero 7 della rivista Mono, edita da Tunué, ed è stato trasformato in un’istallazione durante il Festival di Arte e Cultura Contemporanea tenutosi a Prato dall’1 al 4 ottobre. Qui i dettagli.
La scorsa estate, in giro per i quartieri di Palermo, mi sono imbattuto in una festa di piazza. Una specie di processione che mobilitava tanta gente. Tra i penitenti, il carro con il Cristo, i dolci e le famiglie ho notato un bambino di tre quattro anni che stringeva nel pugno un filo di nylon semi-invisibile. Ho seguito il filo con lo sguardo e in cima, barcollante sopra le teste della folla, c’era Berlusconi. Un palloncino a forma di Berlusconi. Il suo viso, il suo sorriso, la stempiatura, il naso a patata un po’ pronunciato, un rosso clownesco intorno alle labbra. Gli occhi neri con un lampo bianco al centro della pupilla. Ce n’era solo uno, di questi palloncini, ed è stato sufficiente perché nel giro di qualche minuto, continuando a vagare per la festa senza mai perdere d’occhio Berlusconi gonfio d’elio – il suo impulso verso l’alto contrastato dalla presa ferrea del bambino che stringeva il filo – mi sono reso conto di qualcosa.
Mi sono reso conto che l’Italia è un paese antigravitazionale. Una capsula spaziale all’interno della quale nulla, mai, mai più, ha facoltà di cadere. Di ac-cadere.
Le leggi della gravitazione universale ci insegnano che se prendiamo in mano un oggetto e poi distendiamo il braccio e apriamo le dita, quell’oggetto non resterà sospeso nell’aria ma cadrà subito al suolo (unica eccezione, appunto, i palloncini pieni d’elio). Di volta in volta, secondo le caratteristiche fisiche dell’oggetto e la violenza dell’impatto, si produrranno conseguenze diverse, dalla frattura minima alla disintegrazione alla completa invulnerabilità. La prima conseguenza, però, quella che sempre e necessariamente si produce, è proprio la caduta dell’oggetto. Per il modo in cui è fatto il mondo, a partire dalla logica ferrea dei suoi meccanismi, alla causa «oggetto lasciato sospeso in aria» corrisponde l’effetto «oggetto che precipita al suolo».
Tutto ciò è, nella sua inevitabilità, ragione di conforto, il segnale manifesto dell’esistenza di un meccanismo condiviso.
Se immaginiamo un meccanismo analogo in ambito morale e nello specifico della realtà italiana contemporanea, scopriamo che le cose stanno diversamente. La legge morale alla quale ci siamo ogni giorno addestrati, alla quale ci siamo assuefatti e che abbiamo per intero introiettato, ci dice che un fatto teoricamente pesante, un fatto grave, nel momento in cui viene lasciato sospeso non cade, resta sospeso, gonfiato dall’elio del nostro cosiddetto carattere nazionale: la tendenza all’indistinzione, la riduzione al farsesco, l’incapacità storica di fare i conti con la responsabilità. In altri termini, al prodursi delle cause non corrisponde il prodursi degli effetti. Il fatto grave non genera conseguenze, e se le conseguenze – le responsabilità connesse all’analisi delle conseguenze – sono ciò che misura la dimensione dei fatti, è come se questi fatti non ac-cadessero.
La scorsa estate, osservando la testa di Berlusconi fluttuare nel cielo – e con la sua anche le nostre – ho pensato che la scomparsa della gravità, o meglio la violazione sistematica di questo meccanismo in ambito morale, è uno dei modi in cui l’Italia dimostra di essere un paese non leggero ma inconsistente. Osservando la testa di Berlusconi ondeggiare impalpabile e delicata sulla gente mi sono reso conto che adesso – un adesso che perdura da almeno una quarantina d’anni e che è riuscito ad accelerare vertiginosamente negli ultimi quindici – l’Italia è un paese nel quale, ad altezze diverse, dappertutto galleggiano palloncini, fatti inconseguenti, cause senza effetti, come nella parata di una festa infinita.
Osservando la testa di Berlusconi tremolare indistruttibile all’orizzonte, chinarsi un attimo per un colpo di vento e risollevarsi subito come un coltello a molla, ancora con lo sguardo radioso fisso nel futuro, ho provato una struggente nostalgia della gravità. E ho sentito che mi manca l’aria.
Giorgio Vasta (Palermo, 1970) ha pubblicato il romanzo Il tempo materiale (minimum fax 2008, Premio Città di Viagrande 2010, Prix Ulysse du Premier Roman 2011, pubblicato in Francia, Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Inghilterra e Grecia, selezionato al Premio Strega 2009, finalista al Premio Dessì, al Premio Berto e al Premio Dedalus), Spaesamento (Laterza 2010, finalista Premio Bergamo, pubblicato in Francia), Presente (Einaudi 2012, con Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori). Con Emma Dante, e con la collaborazione di Licia Eminenti, ha scritto la sceneggiatura del film Via Castellana Bandiera (2013), in concorso alla 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Collabora con la Repubblica, Il Venerdì, il Sole 24 ore e il manifesto, e scrive sul blog letterario minima&moralia. Nel 2010 ha vinto il premio Lo Straniero e il premio Dal testo allo schermo del Salina Doc Festival, nel 2014 è stato Italian Affiliated Fellow in Letteratura presso l’American Academy in Rome. Il suo ultimo libro è Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Humboldt/Quodlibet 2016).
Molto bello, davvero.
e aggiungerei che a forza di respirare l’elio, agl’italiani è venuta la voce minuta minuta… complimenti per il pezzo, che è una nitida istantanea di quello che è oggi (da un po’) questo paese…
Sì, grande pezzo; bellissimo.
Però è come se tutta la forza di gravità fosse dentro di noi; come se tutti gli organi interni fossero spinti a terra, verso i piedi, intrascinabili. Come se ci facessero zavorra.
I fatti ondeggiano lassù, gonfiati d’elio, e nell’atmosfera non succede niente, non c’è conseguenza.
E noi abbiamo corpi e cuori pesanti e zavorrati.
tra il pallone gonfiato e il cittadino esanime, ecco il cristo piantato a terra. Quanto più abbrutisce il paese tanto più si solleva, sublime, la lamentela e lo spirto si acquieta nell’autocompiacimento. C’è bisogno di un paese profondamente irresponsabile e avvelenato per generare analisi così lucide e compassionevoli. Pasolini, del segno dei Pesci, si adagiava docile nel proprio dramma della responsabilità, mentre festanti gli inchiodavano le mani e i piedi e infine il cuore.
Il palloncino è molto più appetitoso e digeribile e porta in vita memorie sopite. Come per esempio quando arrivavo alle feste, anche un pochino prima perchè ero e sono una bambina ansiosa e aiutavo nei preparativi. Gonfiavo un casino di palloncini, sia con la pompetta che con il fiato.
Poi arrivava lui, il mio nemico vero, quello di cui non capirò mai le motivazioni, quello che anni di analisi non potranno eliminare dalla coscienza, che mi faceva piangere di rabbia.
Il bambino con lo spillone. Attenzione gente, diffidate del bambino con lo spillone!
approfitto (spero non me ne vogliate) per invitare tutti a leggere il numero della rivista Mono in cui è stato pubblicato il bel pezzo di Giorgio Vasta.
Manca l’aria, eccome se manca…