Appunti su Amour di Michael Haneke

(Immagine: Amour, Michael Haneke.)

È domenica sera e vado al cinema. Danno il nuovo film di Silvio Soldini e Amour di Michael Haneke. Scelgo il secondo. Scrive a proposito il critico cinematografico Bruno Fornara sul suo profilo Facebook:

Di Haneke non mi fido. Lo trovo, film dopo film, sempre supponente. Però: vince e rivince Palme d’oro. E quasi (quasi) tutti dicono che i suoi film sono importanti belli dolorosi rigorosi veri disillusi crudeli amorevoli. Sarà. Anne e Georges, ex insegnanti di musica, vivono la loro vecchiaia insieme a un pianoforte. Un ictus colpisce Anne. Lui la accompagna alla fine. A me sembra sempre, in quasi ogni immagine, che Haneke bari. Ma di sicuro mi sbaglio. […] Per me Haneke bara perché in ogni immagine vedo altro rispetto a quello che lui vorrebbe che io ci vedessi. Lui dice amore e io vedo odio, dice affetto e vedo rabbia, dice vicinanza e vedo infinita distanza. Ogni tanto mi chiedo se non è questo che vuole dire davvero: che ci odiamo, sempre. Titolo sbagliato: Haine.

Ho letto queste righe dopo aver visto il film. Spesso mi ritrovo nei giudizi del critico. Anche questa volta mi sono ritrovato. Uscendo dalla sala, cercando di metabolizzare il pugno nello stomaco, ho pensato proprio che il film parlasse di odio anziché amore. O che l’amore per Haneke sia una forma di odio. Non proprio di odio; ho pensato alla crudeltà. 
Haneke bara, forse, mente: ciò comunque non intacca la qualità del film e la buona fede dell’autore; ma soprattutto: è possibile che (anche) nel “barare” stia la ricchezza del suo lavoro o perlomeno la sua cifra espressiva. La sensazione di menzogna è piuttosto oggettiva, ma la menzogna lascia dapprima tracce irrelate; solo poi il regista permette che si insinui il dubbio nello spettatore, cui fornisce elementi interpretativi. Nulla di razionale, tutto si gioca sul piano estetico, in pure immagini. La potenza delle immagini converte il dubbio nella certezza dell’ambiguità di cui la menzogna è messaggera, e la menzogna si rivela di colpo un’intenzione precisa: essa è un prodotto dell’intelligenza registica e della scrittura di Haneke.

Detta in breve, e senza rischio di rovinare la visione ad alcuno (il cuore del film sta altrove), la trama è così: Georges e Anne sono due anziani, sposati, pieni di amore e riguardo l’un per l’altra; Anne, ex pianista ed ex insegnante di musica, si sottopone a un intervento a basso rischio di complicazioni, complicazioni che però subisce in pieno con la paralisi della parte destra del corpo; costretta su una sedia a rotelle, senza la possibilità di suonare il pianoforte che magistralmente occupa parte del salotto di casa, come un terzo membro della famiglia, Anne manifesta subito l’intenzione di suicidarsi; Georges non ascolta la volontà di Anne e la rassicura, accompagnandola e assistendola; la situazione in breve peggiora, si accentua la vecchiaia di Anne, e la sua malattia; la vita di Anne rapida si degrada, ma interminabilmente.

Quello di Georges è accanimento (e qui siamo oltre la trama, nella mia personale idea del film). Proprio l’accanimento disorienta lo spettatore in merito alla qualità, anzi l’attendibilità dell’Amore dichiarato in grande sulla locandina. È ciò che scriveva Fornara: Haneke «dice amore e io vedo odio». Georges si ostina a mantenere in vita Anne, quasi recludendola e certamente facendone una cosa sua. Ricordo un episodio: la figlia Eva suona ansiosa il campanello alla porta di casa, cerca notizie di sua madre; il padre non risponde al telefono da giorni e non richiama, non dà segni di sé e della situazione. Simulando un bisogno in bagno, Georges corre a chiudere a chiave la camera di Anne e poi accoglie Eva. Eva vuole vedere la madre, ma si scontra contro l’assurdità della porta serrata, e allora chiede ripetutamente: cosa sta succedendo qui? Cosa succede?
 L’assistenza garantita ad Anne, ciò che la mantiene in vita, è un dono d’amore? Che faccia ha l’amore, come si presenta? Che direzione prende questo amore? È un bene per lei o piuttosto per Georges?

Georges, all’apparenza robusto (d’animo) e ben piantato, a contatto con la malattia della moglie si rivela vacillante: non nel gestire la situazione, perché lo fa con dedizione pazienza e nobiltà, ma nel significato, nella verità del gesto. La risposta di Haneke sembra dire che l’amore sa rivelarsi crudele, una tortura. Il mettersi nelle mani dell’altro che in principio, nella buona salute, è concedere la cura di sé e il rispetto della persona, nella malattia diviene l’opposto, una cessione della propria libertà con decadimento della volontà minima e insieme più importante, quella del disporre della propria vita.

Lungo il film Georges sogna spesso, a occhi aperti e durante il sonno. All’inizio della malattia di Anne, quando lei soffre di una paralisi del corpo soltanto, e per il resto parla e ragiona come prima dell’intervento, Georges fa un incubo terribile. È sera tarda, sta lavando i denti e suonano il campanello. Esce a controllare ma non trova nessuno. Si inoltra nel corridoio cercando il visitatore, chiamando; non trova nessuno. Cammina e cammina si trova immerso con le ciabatte nell’acqua che inspiegabilmente inonda il piano. Nell’oscurità avverte un rumore: una mano anonima lo prende da dietro tappandogli la bocca. I gemiti sognati sono anche quelli reali che lo svegliano nel letto. Di chi è quella mano? Così si è materializzato nel sogno il male? O la paura della malattia e della morte?

In Caché, che fruttò ad Haneke il premio per la miglior regia a Cannes 2005, un’altra vita si mostra preda dell’assurdo di due verità opposte, inconciliabili, eppure non esclusive. Georges (di nuovo), conduttore televisivo di estrazione borghese, all’apparenza conduttore anche di un’esistenza serena e senza pieghe, vive con la moglie Anne (di nuovo) e il figlio Pierrot. La quiete borghese è rotta dalla ricezione di misteriose videocassette contenenti riprese della loro casa e da disegni inquietanti dai tratti infantili raffiguranti immagini e ricordi dell’infanzia di Georges. Questi materiali non recano mai un mittente, e Georges non riuscirà mai a scovare l’autore delle riprese, eseguite in pieno giorno e talvolta negli stessi istanti in cui lui sta in appostamento (così come il Georges di Amour non riesce a trovare, nel sogno, il visitatore/aggressore notturno, ma ne subisce la violenza). La spiegazione è semplice: non c’è alcun mittente, ovvero il mittente è il regista-voyeur, che è esterno al film, dunque invisibile ai personaggi anche quando li riprende; eppure è anche interno, deus ex machina, capace di sortire effetti drammaturgici e persino materici (le cassette, i disegni). Il mittente però potrebbe pure essere la coscienza (sporca) di Georges, capace nella magia del cinema di esteriorizzarsi e farsi materia.

Al di là di tutto, in Caché il doppio fondo della verità riguarda il dualismo innescato dalla visione: l’osservatore (regista) sdoppia la vita dell’osservato (la storia, il dramma, i suoi personaggi, il film) e addirittura annulla la distanza – condizione d’esistenza della visione – sfondando il campo dell’azione. 
Amour non ragiona sul ruolo del regista-osservatore di una storia che è costruita ma insieme autonoma; non fornisce applicazioni umanistiche del principio di indeterminazione, dove lo sguardo registico falsa (o verifica) la misura di una situazione rivelandone verità nascoste e terribili, con un procedimento investigativo-poliziesco; Amour attiva però la stessa dialettica tra essenza e apparenza, tra superficie e livello  profondo/emergente che già agiva in Caché. Il film mette in questione l’inevitabilità del bene oltre la tentazione del male, un male che non è calato dall’alto nell’uomo, che non è “originale”, ma prodotto dall’uomo e dai suoi gesti, dalle sue debolezze. Il bene inevitabile, per Anne, è la liberazione della morte, e che Georges lo voglia o no la morte arriverà, forse tardi, ma spazzando via il dolore senza possibilità di opposizione alcuna. 
La menzogna è parte stessa della verità, e viceversa. Così non è dato un amore incontaminato, completamente libero dal male, dal non essere, dalla morte. Esiste però la possibilità di uno sforzo che tenda alla purezza di quell’ideale, per mantenere l’amore pulito, etico. Georges saprà infine applicare l’etica dell’amore, per il bene non suo ma di Anne, eppure la sua lezione apparirà comunque, ad alcuni, un gesto violento e di odio, ai fini di un bene personale ed egoistico. In realtà si tratta soltanto di un ennesimo ribaltamento della faccenda complessa che è l’amore, il quale non mostra mai una faccia sola, e quando ne svela una un’altra già ne prepara. A trasfigurare la faccenda è in fondo di nuovo un osservatore, ma non più l’osservatore speciale che era il regista in Caché; qui la questione è forse meno complessa ma certo più impegnativa, perché a compromettere la verità dell’immagine è lo spettatore, nei cui occhi il film non si ferma: riparte.

Commenti
5 Commenti a “Appunti su Amour di Michael Haneke”
  1. ilpescevolante ha detto:

    Questa sì che è una bella recensione, bravo!

  2. Wif ha detto:

    Forse è davvero impossibile rappresentare lo sfinimento del dolore, l’orrore per l’impossibilità di un “prossimo sollievo, l’impossibilità di mantenere ragionevoli speranze , la stanchezza assoluta. Trovo che questo tipo di rappresentazione cinematografica sia iconoclasta e retorica, tristemente “guardona”, lontanissima da un’elaborazione poetica.

  3. dario ha detto:

    grazie, ottimi spunti…non ho visto cahcè, ma le riflessini attorno ad amour mi trovano d’accordo, mi hanno aiutato a mettere a fuoco un disagio che non mi mollava dopo la visione…e infine si, Fornara è uno dei migliori critici cinematografici in circolazione…

  4. dario ha detto:

    ehm, perdonate la battitura dislessica…

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Leggi commenti...
  1. […] morto e tre poi cresciuti senza alcun contatto con il mondo di fuori. Anche Michael Haneke, con Amour (2012), mette in scena una storia di profondo disagio, quella di una coppia di anziani alle prese […]



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