La macchina dello sguardo

Questo articolo è apparso nell’aprile del 2009 nel numero 491 di Abitare. Il progetto del quale si racconta è di Cherubino Gambardella e le foto di Beppe Maisto.

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Una torre di guardia, nel Cinquecento, era soprattutto un’architettura dello sguardo. La necessità era quella di edificare un amplificatore ottico, qualcosa che servisse non tanto a essere percepito quanto a percepire. L’esposizione della struttura, la sua aperta visibilità – per quanto magari avvertita dagli stessi architetti come ingombrante – era inevitabile. Una sommità, una rocca, in ogni caso una frastagliatura di costa in rilievo, erano il contesto naturale e necessario per la costruzione della torre. Visibili da chi arrivava dal mare, ma di questo ci si doveva fare una ragione (del resto, se si pensa ai fari, ci si può rendere conto che esistono anche torri narcise ed esibizioniste); quello che più contava era avere una piattaforma adeguata alla costruzione di una macchina dello sguardo, un luogo di tensione oculare funzionale agli avvistamenti di tutto ciò che, a torto o a ragione, potesse venire configurato come «altro» (e dunque, essendo l’invenzione della minaccia che arriva da lontano un dispositivo di decifrazione della realtà sicuramente anteriore alla concezione di qualsiasi torre, questo “altro” non poteva che coincidere con un nemico).
Nello stesso periodo in cui i grandi formalizzatori della percezione ottica, da Galileo a Keplero, sviluppano i propri studi e si annettono nuovi spazi di conoscenza, sopra Amalfi, ad alcune centinaia di metri dal centro abitato, sfruttando una primitiva pianta longobarda, viene edificata la torre dello Ziro, vale a dire uno strumento ottico rudimentale eppure, a suo modo, raffinatissimo, un telescopio di pietra, un cannocchiale in muratura, in ogni caso qualcosa che deve servire a elevare a esponente ennesimo le capacità dell’occhio umano. Perché la logica è sempre la stessa: nel momento in cui lo sguardo diventa strumentale – a imitare la prospettiva divina, alla scienza o, come nel caso della torre dello Ziro, alla difesa – allora occorre costruire un congegno che lo sostenga, un supporto che lo estrofletta nello spazio esterno, sia esso la guglia di una cattedrale gotica, il periscopio di un sommergibile (quando le profondità marine diventano un cielo subacqueo) o una fortificazione a precipizio su un dirupo.
abitare3Eppure una torre è una figura ambigua, una struttura mercuriale che connette il lontanissimo al vicinissimo, il cielo alla terra. Perché se è vero che da una torre ci si protende a osservare i grandi spazi (a scrutare concentrati i movimenti degli astri, di dio o del nemico), è altrettanto vero che una torre è un cilindro, un silos per la conservazione di olio e cereali, un manufatto che ha a che fare con l’agricoltura, con la coltivazione dei campi, e dunque è una conseguenza – o meglio un emblema – del radicamento al suolo, della solidità e della forza.
Il tratto di costa sul quale venne edificata la torre dello Ziro è un’annodatura di pietre, una festa di scoscesità, un luogo da artigli e da zoccoli piuttosto che da piedi umani. Scorgere di colpo, oltre i pini e i ginepri, il manufatto cilindrico della torre ha dunque qualcosa di sorprendente. Invertendo i termini, è come quando vediamo King Kong in cima al grattacielo dell’Empire State Building, quell’ossimoro tra tecnologia umana e potenza animale, il contrasto primigenio al quale si attiene la maggior parte delle narrazioni, solo che in questo caso, ad Amalfi, King Kong è la costa animale, serena e feroce, e il grattacielo – il pensiero degli uomini che si fa spazio strategicamente organizzato – è la torre dello Ziro.
Man mano che mi avvicino mi rendo conto che alla prima percezione – la suggestione mitica del rudere, il locus horridus – se ne sostituisce un’altra. La torre dello Ziro è una costruzione di formiche, un’architettura brulicante che dà l’impressione – complice in parte la mia miopia montante ma soprattutto il gioco di abbagli creato dal sole a quest’ora – di reggersi su un equilibrio di squilibri, su movimenti continui, laboriosi e battaglieri, di insetti guardiani addensati a difesa dello spazio cavo interno. La mano che tocca la pietra tufacea porosa e granulare che si sgretola impercettibile contro la pelle non basta a convincermi del tutto che questa torre non viva di una vita organica.
Appena dentro, invece, mi viene da passarmi una mano davanti al viso, come per scostare una ragnatela incombente e impalpabile, ma anche dopo il gesto persiste davanti agli occhi un reticolo di linee sottilissime, linee di differenti consistenze, di metallo e di ombra. Il recentissimo intervento di ristrutturazione è riuscito a perfezionare, non so se intenzionalmente o no, la vocazione oftalmica della torre dello Ziro. Se ogni torre è congegno della visione, questa specifica torre completa al suo interno quello a cui già rimanda la sua struttura esterna. abitare2Il lavoro di Cherubino Gambardella ha infatti dato forma, tramite la costruzione di una scala metallica che scorre dentro la torre e alla tessitura di ombre prodotta dai listelli verticali della scala medesima, a quel sistema al contempo ordinatissimo e caotico che è l’interno di un occhio. Attraversare lo spazio della torre vuol dire camminare oltre una membrana retinica, tra coni e bastoncelli, in un sistema geometrico di riverberi e rifrazioni, nella scomposizione e ricomposizione delle luci e delle ombre.
Esco all’esterno, guardo verso il golfo di Amalfi e ancora oltre, uno smalto sottile di sudore sulla fronte e sul petto e dentro la testa un caleidoscopio di fotoni. Ho un capogiro, sono fatto di formiche, so di servire a guardare. Mi siedo per terra, il mare azzurrissimo davanti, e penso che siamo organi di senso radicati in perenne ostinato sradicamento.
Sento sotto di me il volume della torre, la forma minerale, la responsabilità della visione.

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