Soldati e Soldaten

Questo pezzo è uscito su Lo Straniero.

Nel 1973, l’Università di Princeton mise a punto un esperimento che confermò molti sospetti sul funzionamento del comportamento umano a seconda del contesto di riferimento. A un gruppo di studenti di teologia venne chiesto di scrivere un breve saggio sulla parabola del Buon samaritano. Una volta assolto il compito, ogni studente avrebbe dovuto consegnare l’elaborato in un edificio diverso dell’università, dove il testo – venne detto loro – sarebbe stato registrato e mandato in onda nel corso di una trasmissione radiofonica. Mentre gli studenti, finito di scrivere, attendevano istruzioni, al loro cospetto si presentò un uomo che cominciò a parlare ad alta voce: “Ma siete ancora qua? A quest’ora dovreste esservi già avviati! L’assistente è lì che vi aspetta. Fate presto!” Gli studenti iniziarono a disperdersi camminando a passo svelto.

In quello stesso istante, ai piedi di ogni diverso edificio dove ognuno avrebbe dovuto recarsi, venne fatto collocare un uomo che si dimenava steso per terra, tossendo e lamentandosi e tenendo gli occhi chiusi. Non notarlo era impossibile (ovviamente si trattava di attori che simulavano uno stato di grave malessere e difficoltà), e tuttavia solo sedici studenti in teologia su quaranta deviarono dal percorso per aiutare l’uomo in “difficoltà”. Interpellati successivamente, la maggior parte degli studenti che non avevano prestato soccorso dichiararono di non essersi nemmeno accorti che qualcuno ne avesse bisogno.

Qualche anno prima, nel 1961, mentre l’ex “esperto della questione ebraica” delle ss Adolf Eichmann era sotto processo a Gerusalemme, lo psicologo sociale statunitense Stanley Milgram diede vita a un altro esperimento. A quaranta maschi adulti compresi tra i 20 e i 50 anni, reclutati tramite annuncio sul giornale, venne detto che avrebbero dovuto collaborare, dietro ricompensa, a una ricerca sulla memoria e sulle forme dell’apprendimento. Ogni partecipante veniva messo di fronte al quadro di controllo di un generatore elettrico composto da 30 interruttori posti in fila orizzontale. Sotto ognuno di essi era segnalato il voltaggio, che andava dai 15 V ai 450 V, da una scossa “leggera” a una “molto pericolosa”. Di fronte a ognuno dei partecipanti veniva poi fatto sedere, sopra una sorta di sedia elettrica, un secondo uomo (anche qui, un attore), al polso del quale veniva fissato un elettrodo collegato con gli interruttori. Ogni partecipante doveva leggere delle domande all’uomo sulla sedia elettrica, e imprimere scosse di intensità crescente per ogni risposta errata. Il direttore dell’esperimento incitava con energia a non lasciarsi intimidire dalle (finte) urla di dolore dell’uomo che riceveva le scosse, e così la maggior parte dei partecipanti (nonostante sintomi di tensione e qualche protesta quando ci si avvicinava alle scosse più dolorose) “obbedì agli ordini”.

Tutto questo accadeva in un paese democratico e cosiddetto libero, durante un tempo di pace che, oltre al nascente rock’n’roll, covava le spinte che avrebbero portato presto a vincere importanti battaglie civili, tra cittadini che – a parte l’eventuale sottrazione di un piccolo compenso, o una leggera ammonizione – non avevano nulla da temere da chi rappresentava l’autorità nell’esperimento a cui avevano accettato di sottoporsi, o in cui erano stati coinvolti a propria insaputa.

Soltanto immaginando noi al loro posto (cercando cioè di non perdere di vista i pericoli di un comportamento valutato come “assurdo” o “inumano” solo da chi ha la fortuna di osservarlo dall’esterno) si può uscire meno spiazzati dalla lettura di Soldaten (Garzanti, 460 pp., 24,50 euro), il libro con cui Sönke Neitzel e Harald Welzer, il primo storico, il secondo sociologo, entrambi tedeschi, hanno cercato di ricostruire psicologia, coinvolgimento, umori ed emozioni dei soldati della Wehrmacht durante il nazismo. Per farlo, si sono serviti delle conversazioni di migliaia di militari tedeschi prigionieri degli Alleati, registrate su vinile da questi ultimi per quasi tutta la durata del II conflitto mondiale. Si tratta di documenti molto interessanti perché, non sapendo di essere ascoltati, ufficiali e sottufficiali tedeschi dell’esercito, della marina e dell’aviazione parlano a ruota libera, in un clima e con una disinvoltura ben diversi da quelli che faranno da sfondo al processo di Norimberga o a quello di Eichmann.

Gli esiti sono destabilizzanti, in particolare per la tradizione che vorrebbe la Wehrmacht decisamente meno informata e coinvolta – specie sulla questione ebraica, sui crimini di guerra e sull’ideologia nazista in generale – rispetto alle élite del partito e alle sue emanazioni dirette. Al contrario: crudeltà, sadismo, ma soprattutto una sovrana indifferenza pur nella consapevolezza sono i sentimenti più frequenti che emergono in modo impressionante da queste conversazioni. Se si tiene conto che in totale, durante la guerra, servirono nella Wehrmacht quasi diciotto milioni di soldati, si capisce che si sta passando al setaccio un campione del popolo tedesco sin troppo rappresentativo.

“Il secondo giorno, in Polonia, ho dovuto sganciare delle bombe sulla stazione di Poznan. Otto delle sedici bombe sono cadute sulla città, dritte sulle case. Non ho gioito. Il terzo giorno sono passato all’indifferenza e il quarto ci ho preso un certo gusto. Era il nostro giochetto prima di colazione. Mi è dispiaciuto per i cavalli, per le persone neanche un po’” (Phol, sottotenente della Luftwaffe).

“Abbiamo fatto una cosa bellissima, durante il volo di ritorno (…) Siamo scesi in picchiata sulle strade, e quando le automobili ci venivano incontro, accendevamo i fari, così pensavano che fossimo un’altra automobile. Allora sparavamo con il cannone. Abbiamo fatto grandi cose! Era bellissimo, divertentissimo” (Baeumer, sottufficiale sempre della Luftwaffe).

“Poi hanno scavato le fosse, hanno tirato su i bambini per i capelli e li hanno ammazzati. L’hanno fatto le ss. I soldati stavano lì a guardare” (Bruhn, generale di divisione, parlando del trattamento riservato agli ebrei).

“Una volta stavo parlando con il maresciallo che mi disse: «ne ho fin sopra i capelli di queste fucilazioni di massa degli ebrei. Questa strage non è mica compito nostro! Possono occuparsene semplici teppisti!” (Amberger, radiotelegrafista su un bombardiere Ju 88).

Un’uniformità ai limiti della monotonia circonda le conversazioni rubate dagli Alleati. I soldati si vantano l’uno con l’altro di aver ucciso a sangue freddo dei civili, di aver assistito o partecipato a veri e propri crimini di guerra. Dai loro racconti emerge di tanto in tanto la nausea, il ricordo della stanchezza e dell’orrore, ma mai un senso di colpa, mai l’empatia nei confronti delle proprie vittime, e soprattutto mai un dubbio sul fatto che ci sia almeno una volta qualcosa di sbagliato nella propria condotta. Se ad esempio ci si lamenta della questione ebraica, lo si fa solo perché uccidere tutti quegli uomini quelle donne e quei bambini alla lunga può far perdere il lume della ragione, e dunque sarebbe meglio che il compito venisse affidato a dei comuni criminali invece che a dei professionisti della guerra.

Che lo sterminio degli ebrei sia però un abominio di per sé, non viene neanche preso in considerazione. Naturalmente non si parla mai dell’ipotesi della propria morte, poco di quella dei compagni, e perfino quando è chiaro che la guerra è perduta si cerca di aggrapparsi, contro ogni evidenza, alle più assurde argomentazioni in grado di dimostrare il contrario pur di non farsi sbalzare fuori dal quadro di riferimento (sociale, psicologico, emotivo) che ha accompagnato questi uomini dall’ascesa del nazismo fino a Stalingrado.

Il “quadro di riferimento”: e cioè il contesto in cui si vive e si provano emozioni e ci si sente parte di qualcosa e si riconosce autorevolezza a qualcos’altro, e si dà un nome ai valori condivisi, e ci si costruisce infine un’identità – si tratta, mutatis mutandis, dello stesso “cerchio magico” che condiziona, in modo così apparentemente incomprensibile, i partecipanti agli esperimenti americani del 1961 e del 1973, con la decisiva differenza che qui (nella Germania nazista) il cerchio è infinitamente più allargato, i soggetti dell’esperimento non solo non vivono in un paese democratico ma non sono dei civili (l’obbedienza gerarchica rappresentando uno dei pilastri della vita militare), e non operano in tempo di pace (rischiano la vita a ogni momento, e sanno che non eseguire un ordine potrebbe avere in ogni momento esiti irreparabili). L’esperimento, insomma, è la loro stessa vita.

Poiché la pietra dello scandalo di Soldaten non è la circostanza che i soldati della Wehrmacht obbediscano agli ordini, ma che la loro coscienza e il loro foro interiore assolvano senza sosta le peggiori atrocità – o le lascino svanire sullo sfondo –, Neitzel e Welzer chiedono continuamente al lettore di tenere presenti delle costanti in grado di influenzare qualunque individuo calato in una società a proposito della percezione che ha del tempo in cui si trova a vivere. Da una parte, scrivono, sarebbe poco realistico pretendere che la Storia venga giudicata dalla fine quando ancora non ci si è giunti. La Storia, mentre accade, per chi la vive non è nemmeno storia ma quotidianità, e viene misurata da ci è immerso fino al collo (i soldati in guerra) con un metro completamente diverso.

Estremamente difficile allora, per un soldato tedesco sotto il nazismo nel corso della guerra, giudicare olocausto e antisemitismo con parole o attraverso retoriche che, prima della fine del conflitto, non erano ancora state compiutamente coniate e elaborate, o erano a un livello d’elaborazione e diffusione così embrionale e “temporaneo” da non avere l’influenza e soprattutto da non mostrarsi nell’incontestabile statura che avrebbero assunto una volta rotti ben due di questi “cerchi magici”, quello della guerra e quello del nazismo.

In più, fanno notare Neitzel e Welzer, è estremamente difficile interpretare, proprio mentre si verificano, le grandi cesure storiche come altrettanti momenti di discontinuità per chi li vive. “La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. Pomeriggio lezione di nuoto”, annota il giovane Kafka nel suo diario il 2 agosto 1914. Allo stesso modo, scrivono Neitzel e Welzer, “malgrado la radicalità del nazionalsocialismo, il 31 gennaio 1933 i cittadini tedeschi non si svegliarono in un mondo nuovo. Era lo stesso del giorno precedente, solo le notizie erano nuove. Sebastian Haffner (giornalista e storico tedesco che fuggirà poi in Inghilterra nel 1938 con la fidanzata ebrea) non descrive il 30 gennaio come una rivoluzione, ma come un cambio di governo – e nella repubblica di Weimar ciò non costituiva un evento inconsueto”.

La capacità di continuare a percepire il presente come “la normalità” anche quando, centimetro dopo centimetro, ci si è spostati nell’orrore assoluto, è una delle più traumatiche evidenze davanti a cui ci mette il libro di Neitzel e Welzer –  e, allo stesso tempo, è il buco nero che non dovremmo cessare di indagare una volta chiuso il libro.

Di conseguenza, due sono fondamentalmente gli approcci (direi antitetici) con cui si può affrontare questo Soldaten. Il primo è usarlo in chiave assolutoria, spingendo il determinismo storico fino alla negazione del libero arbitrio. Il secondo, molto più sensato, è fondare anche su questi documenti una scuola del sospetto che vada bene per il XXI secolo. E cioè allo scopo di non stancarci di chiedere: quanto di ciò che oggi consideriamo “normale”, fuori dall’illusione della contingenza (questa la parola da sostituire a “presente” perché il presente diventi finalmente un tempo redimibile dai suoi contemporanei) possiede i tratti del mostruoso?

“00.57 Vedi tutte quelle persone là sotto?
01.06 Rimani invariato. E apri la corte interna.
01.09 Sì, ricevuto. Credo siano circa venti.
01.13 Eccone uno, sì.
01.18 Non so se quello…
01.21 E’ un’arma.
01.22 Sì.
01.32 Pezzo di merda.
01.33 Vedo persone armate.
01.43 Chiedo il permesso di attaccare.
02.00 Bene, attacchiamo.
02.02 Ricevuto, sparare.
02.03 Mi sa… non riesco a prenderli, sono dietro l’edificio.
02.10 È un missile anticarro?
02.13 Sparo.
02.14 Ok.
02.44 Bene, sparo.
02.49 Spariamo
02.50 Bruciali tutti.
02.52 Dai spara!
02.59 Continuate a sparare.
03.23 Bene, li ho presi.
03.41 Oh sì, guarda quei bastardi, morti.
03.44 Bello.
04.44 Bello.
04.47 Bel colpo.
04.48 Grazie”.

Questo scambio non ha nulla a che fare con la II guerra mondiale. È stato diffuso da Wikileaks ed è il dialogo tra i militari a bordo di due elicotteri statunitensi, i quali a Baghdad, il 12 luglio del 2007 – dopo essersi convinti caricandosi l’un l’altro che ci fossero armi lì dove non ce n’era in realtà l’ombra – aprirono il fuoco e uccisero un gruppo di civili, tra cui il fotografo della Reuters Namir Noor-Eldeen.

In questo caso il destino delle persone a terra venne segnato non appena uno dei soldati americani a bordo dell’elicottero credette di riconoscere un’arma. Nel giro di pochi secondi le armi si “moltiplicarono” per errore nell’immaginazione degli altri militari (o meglio, attraverso i rapidissimi passaggi della loro conversazione), così i civili – innestandosi nel “cerchio magico” della vita militare contemporanea in tempo di guerra un inedito elemento di tecnologia, velocità, comunicazione a distanza e gioco linguistico i cui cortocircuiti sono tutt’altro che infrequenti – si trasformarono in nemici da distruggere. E furono in effetti distrutti.

Cosa c’è che non va allora per esempio nelle guerre che (non) guardiamo alla tv? E nelle situazioni di pace (i nostri governi, i nostri mezzi di informazione, le nostre comunità, noi stessi) che le preparano, le dichiarano e poi forniscono loro una griglia linguistica e interpretativa e perfino un inconscio da mandare alla deriva? Siamo sicuri che ciò che oggi ci sembra così normale da non costituire un problema di coscienza, nei prossimi decenni sarà ancora valutato come tale?

Commenti
8 Commenti a “Soldati e Soldaten”
  1. luigi ha detto:

    ti sei dimenticato l’esperimento carcerario di stanford

  2. anna mannucci ha detto:

    E pensate a che cosa succede agli animali

    nei laboratori di vivisezione

    nei macelli

  3. Axel Shut ha detto:

    l’esercito per sua stessa natura cancella la responsabilità individuale, c’è sempre qualcuno che ti dice cosa fare, come e quando
    il famigerato “Eseguivo solo gli ordini” che veniva ripetuto a Norimberga è la perfetta conferma di un meccanismo dove il soldato non ha più libertà ma nemmeno responsabilità quindi nemmeno colpa

  4. Sebastiano ha detto:

    Mi viene in mente la “deumanizzazione”: togliere, ai membri di un gruppo diverso dal proprio, caratteristiche di “umanità”…così ai “nemici”, il più delle volte marcati come diversi, non essendo più “umani”, possono esser fatte le cose peggiori senza alcuna responsabilità interiore…quando sento parlare di ebrei o morti fra soldati o civili “nemici” non posso fare a meno di pensare a questo…
    oltre alla responsabilità scaricata ad altri, il mancato senso di responsabilità (dato dalla deumanizzazione) spiega molto di ciò che l’uomo fa, anzi commette

  5. Enrico Marsili ha detto:

    Se non ricordo male la Arendt era arrivata a considerazioni simili osservando il comportamento di un solo uomo.
    Comunque, post molto interessante, grazie.

  6. patrizia sardisco ha detto:

    Quando in classe, nei corsi di psicologia, facciamo riferimento agli esperimenti di Milgram, gli studenti rimangono interdetti, increduli, prendono immediatamente le distanze dal comportamento di “cieca obbedienza” dei soggetti.
    Grazie per aver segnalato questo interessante libro, insieme a molti altri (in testa “La banalità del Male” di Arendt) aggiunge un importante tassello al doloroso processo di autocomprensione a cui siamo tutti richiamati da quel che resta delle nostre coscienze.

  7. Eva ha detto:

    Giugno 2005, in un’aula affollata di una facoltà universitaria del Sud. Il sole del primo pomeriggio quasi scioglie gli infissi delle finestre, inutilmente aperte. Sembra che quell’aula sia stata fatta apposta per raccogliere tutta l’energia solare disponibile e convogliarla lì sulle nostre teste. Siamo troppi lì dentro. Superiamo le cento unità: tutti fortunati “vincitori” del concorso di ammissione alla SSIS, corso M-Z. Proveniamo da ogni genere di facoltà: Giurisprudenza, Biologia, Lettere, Matematica, Lingue, siamo stipati lì, in attesa che tutto finisca al più presto, assiepati sugli spalti come bravi scolaretti. Attendiamo l’ennesimo docente che dovrebbe aiutarci a raggiungere una nuova tappa nel luminoso percorso che farà di un “sissino” un brillante docente (attendiamo, di fatto, di poter apporre la nostra firma sul foglio delle presenze e di scappare il prima possibile da quell’inferno bollente e maleodorante). Sua Maestà il Docente fa il suo ingresso trionfale e inizia il suo soliloquio. Difficile anche solo ricordare che cosa sta “insegnando”, ma davanti a ognuno degli scolaretti, campeggia un libro del Dalai Lama: uno dei testi suggeriti per quell’esame. Il monologo del docente scorre con una lentezza che fiacca perfino chi si accanisce a voler capire qualcosa di quell’esame e a dare un senso alle ore di studio sottratte al mare per superare quel concorso di ammissione. La rosa dei pochi interessati a cosa c’ha da dire il Dalai Lama, si assottiglia rapidamente. Poi, finalmente, qualcuno viene meno. Nel vero senso della parola. Una ragazza, due file di banchi sotto il mio, si accascia sul testo. Poggia la testa lì, sulla copertina del libro e resta col capo chino e le braccia distese sul banco. Dalla mia postazione ne osservo i capelli che il sudore ha spiaccicato sulla nuca e la invidio. Penso: ecco, dovrei avere la faccia tosta di quella lì e addormentarmi così anch’io, in faccia al docente, col libro chiuso bene in mostra. La fisso per diversi minuti con ammirazione, poi lei fa un movimento: anzi no: è la sua vicina che si è spostata per prendere qualcosa dalla borsa. A quel punto, non avendo più una spalla su cui contare, la Bella Addormentata inizia a scivolare lentamente verso sinistra. La sua vicina grida, o fa qualcosa di simile a un grido: “Aiuto! Sta male!”. Qualche attimo di panico, qualcuno cerca di farla rinvenire, le si spruzza dell’acqua sulla faccia. Il docente, si guarda un po’ smarrito intorno, cerca di capire chi è che osa interrompere il filo del suo discorso. In un modo o nell’altro, individua il mandante del crimine. Fa un gesto con la mano per chiedere silenzio e il silenzio cade. Dalla sua cattedra dalle dimensioni esagerate, chiede ai due o tre che hanno cercato di soccorrerla:
    “come sta?”. È la stessa ragazza a risponderle: una sorta di rantolio. Un paio di studenti chiedono di interrompere la lezione: bisogna chiamare un’ambulanza, un dottore, il fidanzato, qualcuno insomma. “Ah, sta bene? – chiede il docente, dalle distanze siderali imposte dalla cattedra smisurata – Allora possiamo continuare”. E incredibilmente, la lezione riprende, con gli aspiranti docenti assiepati sugli spalti e la ragazza stesa con le gambe per aria.
    In un modo o nell’altro, qualcuno si decide infine a scrollare l’inferma e a trascinarla a braccia fuori dall’aula, mentre il prof continua con la sua cantilena e i futuri insegnanti prendono appunti sul libro del Dalai Lama.
    Solo che nessuno era lì per recitare.

  8. Sebastiano ha detto:

    Eccezionale Milgram…lo renderei obbligatorio, ovunque

Aggiungi un commento