Critica della critica letteraria

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Questo pezzo è uscito su Europa.

Qualche mese fa sono andato a Urbino alla prima edizione del Festival del Giornalismo Culturale, inventato da Giorgio Zanchini. Due giorni di dibattiti interessanti in cui si è (ovviamente) detto che il giornalismo sta mutando e in modo paradigmatico, che non c’entra solo la rete ma il sistema con cui produciamo e consumiamo informazione, e (meno ovviamente) che di fronte alla sesquipedale possibilità di accesso alle news, tutto il giornalismo si sta trasformando in giornalismo culturale: ossia non solo resoconto ma interpretazione di ciò che accade nel mondo. Non è giornalismo culturale per esempio quello che troviamo su uno dei pochi attori dell’informazione che non è vittima della crisi come Internazionale? Non è giornalismo culturale quello che fanno le nuove testate on line tipo Il Post Linkiesta?

Io ero lì anche per raccontare quello che era avvenuto con Orwell e come va minima&moralia. Ero insieme a Luca Mastrantonio che parlava per La Lettura, l’inserto del Corriere della Sera, con Armando Massarenti che parlava del Domenicale del Sole 24ore, e con Roberto Danese per Tuttolibri della Stampa, e con Nicola Lagioia, che faceva da moderatore poco neutro.

Ho detto le seguenti cose:

1) Che ero d’accordo con quello che era venuto fuori in alcuni panel precedenti. Ossia che un ruolo fondamentale del giornalismo culturale sia l’educazione del lettore.

2) Che va chiarito come sia la scuola stessa che, se da una parte ancora per fortuna forma al pensiero critico, alla pluralità dei saperi, all’ermeneutica dei testi, dall’altra parte scuce di notte la tela che intessuto di giorno, diventando artefice di quella maleducazione che imperversa nei giornali. Come? Due esempi facili sono questi: a) quando – al momento della tesina – agli studenti si dice di “fare i collegamenti”: una frase che non vuol dire nulla, che induce all’impressionismo, all’associazione libera, all’opinionismo da bar; b) quando – per il compito in classe d’italiano – si dà agli studenti la possibilità di scegliere, in alternativa al tema classico o al saggio breve, di scrivere un articolo di giornale: a studenti che spesso non leggono giornali, che non hanno modo ovviamente di recuperare i dati, controllare le notizie, verificare le fonti, etc…, dicendogli implicitamente che il mestiere del giornalista si riduce a un copia e incolla di opinioni non verificate.

3) Ho detto che per me c’era anche un altro principio genetico della maleducazione, e la facevo risalire a un’intervista di ormai una ventina di anni fa in cui Alessandro Baricco raccontava come a un certo punto lui e Ezio Mauro, entrambi alla Stampa allora, avessero deciso che i lettori dal giornalismo culturale non volevano tanto interpretazione, critica, ma racconto, storytelling. L’esempio che veniva citato era quello del racconto della cometa Hale-Bopp. Oggi sappiamo, lo stesso Baricco lo riconosceva in un pezzo molto più recente, come lo storytelling sia pervasivo e abbia divorato gli spazi della critica. E sappiamo anche che quella che allora ci appariva una felice novità, il racconto trasversale dei fenomeni culturali che Baricco faceva nella rubrica Barnum per esempio, è un dispositivo che ha creato brutte filiazioni e che a leggerli oggi quei pezzi sono in generale scritti male e molto ovvi.

4) Consideravo che erano secondo me quattro le patologie principali del giornalismo culturale; patologie tumorali più che infettive, nel senso che prodotte dal sistema stesso dell’informazione e meno facili da riconoscere e da curare. Per esprimere quanto per me siano brutte queste patologie, usavo cinque termini cacofonici.

– La prima malattia è l’ufficiostampizzazione, ossia la riduzione della critica culturale a prodotto da promuovere, la sudditanza anche solo psicologica nei confronti del marketing aziendale. Con la variante impazzita del segnalazionismo, ossia quella compulsione inutile per cui si sostituisce la lettura, la fruizione, la condivisione con l’idea che le cose vadano segnalate: “Non importa se lo leggi, magari però lo segnali?”

– La seconda malattia è (anche questo è stato ribadito più e più volte in questi giorni di festival) è l’autoreferenzialità spesso autonfaloscopica (che si guarda il proprio ombelico) oouroborica (dove l’ouroboros è il serpente che si morde la coda). Pezzi scritti per cricche esoteriche, con un linguaggio incomprensibile, con riferimenti culturali per nulla chiari, non diretti al lettore ma a un amico (o un nemico) giornalista magari con il quale si vuole essere ruffiani oppure regolare i conti con la scusa di recensire un film.

– La terza malattia l’abbiamo già evocata parlando di narrativizzazione, ed è la performativizzazione: una ricerca spasmodica di una retorica tesa all’effetto invece che all’argomentazione, l’utilizzo semipubblicitario dell’apodissi, il sensazionalismo del nulla.

– La quarta malattia è anche questa forse una mutazione virale molto refrattaria a qualunque contrasto dell’ufficiostampizzazione, ed è l’anticipazionismo: quell’idea malata per cui giornali, riviste, mensili si riempiano di opinioni prima che i libri circolino, che i film vengano visti. Come se un libro o un disco, per dire, non fosse uno stranissimo prodotto: un bene anticiclico. Se il mio portatile uscito due anni fa oggi è già un prodotto datato e il suo valore è precipitato, se una Ritmo del 1985 oggi non vale nemmeno un decimo di allora, non capita la stessa cosa con i libri o i dischi il cui valore non è strettamente dipendente dal tempo, anzi spesso è anticiclico. Avrebbe senso discutere delle prestazioni di una Fiesta del ’91 o di un Nokia del 2009 oggi su un giornale? Non ha senso invece decidere di dedicare un’apertura di cultura ancora oggi a Moby Dick, per dire, o all’Album bianco?

Se ha senso mettere nero su bianco questa pars destruens, è perché si ha mente una pars construens. E quindi eccola. In questi ultimi anni mi è capitato di inventare e coordinare due piccoli progetti felici: uno è minimaetmoralia, il blog culturale di minimum fax, un altro è stato Orwell, l’inserto culturale del defunto Pubblico. L’ho fatto ispirandomi e imparando a capire cosa vorrei dal giornalismo culturale oggi. E provo a farne un altro elenco.

1) La prima necessità è passare dall’io al noi – ed ecco che lo faccio anche grammaticalmente: abbiamo capito che non può esistere una rivista culturale, su carta, on line, in mente dei, che non sia l’espressione di una redazione che s’incontri, che pensi il progetto insieme, che si veda di persona, che discuta continuamente de visu o per mail.

2) Fare critica culturale oggi vuol dire fare educazione del lettore. Avevamo provato a argomentarlo perché è essenziale oggi usare un termine del genere, educazione, contrastivo rispetto a quelli che abbiamo visto prima. Un’educazione che vuol dire fornire al lettore gli strumenti per farsi un’idea, non ammannirlo, non titillarlo, non catturarne l’attenzione per segnalargli un prodotto. Ma fidarsi della sua intelligenza e della sua curiosità.Ci sono esempi cristallini di come si può far bene questa cosa. Prendete uno dei pochi esempi di giornalismo italiano che non soffre la crisi, Internazionale, che oppone un’apertura seria al mondo alle polemicucce quotidiane di casa nostra. Prendete Alex Ross, il critico di musica classica del New Yorker. Ecco che con una preparazione invidiabile, una capacità di destrutturare l’oggetto della sua critica e di fornire al tempo stesso a chi lo legge i riferimenti essenziali per sviluppare una sua opinione, Ross è diventato un modello assoluto anche per chi non ha mai sentito musica classica e vuole capire come rimediare.
Oppure: prendete il lavoro che fanno in Italia quelli di China Files, uno dei pochi luoghi che presidia l’informazione dagli esteri – capita che un post di Matteo Miavaldi – ripreso da un sito di informazione culturale come wumingfoundation – con una ricostruzione dettagliata della vicenda dei due marò, con spiegazione delle leggi internazionali marittime, citazioni dei giornali indiani, analisi delle questioni balistiche, bruci tutta l’indifferenza per questa notizia seguita per due mesi dai media mainstream, e riesca a essere letta e commentata da migliaia di lettori. O ancora: prendete il lavoro che fa la Tribù dei lettori ogni anno con il catalogo delle Scelte di classe: un libretto curatissimo e gratuito che recensisce in modo articolato e ipercompetente le migliori novità di letteratura per ragazzi.

3) La terza necessità è essere artistici. Creativi, inventivi: fare critica immaginandosi delle forme diverse di costruire i pezzi, lavorando sullo stile in modo letterario. Una buona educazione contiene in sé – lo sa chi insegna oggi – anche l’esigenza di una buona capacità performativa, il rinnovarsi continuo di un metodo, la possibilità di una libertà di scrittura che scarti e rinnovi i modelli preconfezionati.

4) Sfruttare le competenze trasversali: ci è sempre sembrato assurdo che uno fin dalle medie e poi al liceo e poi all’università in esami complicati (leggendo bellissimi saggi di semiotica o teoria letteraria per dire) impari per esempio a fare analisi del testo e poi questa capacità gli venga chiesto di non usarla nel parlare di un libro e gli venga detto: semplifica, affidati al tuo gusto, sii incisivo, etc…

5) Essere analitici: anche qui saper fare anche una critica che sia attenta ai dettagli, che contenga elementi quantitativi. Se in un film ci sono trenta dolly vorrà dire qualcosa, se in un libro la lunghezza media di una frase è di quattro parole vorrà dire qualcosa, se in un romanzo non ci sono punti e virgola vorrà dire qualcosa. Le recensioni ai libri di Walter Veltroni e Roberto Saviano, condivisibili o meno, apprezzabili o meno, andavano in questo senso, e evidentemente a qualche lettore sono interessate, visto che hanno totalizzato 50000 visitatori l’una.

6) La sincerità: fare critica vuol dire cercare una relazione con il lettore, e per far questo occorre essere parziali, dichiarare il luogo da cui si parla. In un contesto in cui è la promozione a farla da padrona assoluta sul dibattito, in cui la ricezione è orientata dal marketing, essere sinceri ha anche un valore commerciale. Chi vuole pagare per una recensione che si capisce che è stata voluta/indirettamente pagata dall’ufficio stampa di turno? Chi non trova un fratello o un complice o un intelligente rivale con cui discutere quando legge un articolo che lo spiazza? A che serve il giornalismo culturale che ci rende passivi? Senza contare per esempio – e potrei citare numerosi casi – come dalle stroncature argomentate per dire nascano delle grandi amicizie; dalle segnalazioni o dalle marchette prolifera solo un’ipocrita confidenza.

7) Mai marchette. Mai marchette mai. Mai. È una regola stupida, elementare. Ma va ricordata sempre: basta una sola marchetta per squalificare alle volte un intero progetto culturale.

8) Destrutturazione. Possiamo fare un esempio facile con le immagini. Siamo sommersi da foto sia su carta che on line, eppure sono pochissimi i luoghi sui media mainstream dove ci viene insegnato a conoscere la fotografia contemporanea, dove veniamo guidati in questo processo di educazione all’immagine, dove impariamo a formarci un’idea complessa: c’è il blog di Michele Smargiassi su Repubblica, c’è quello di Renata Ferri sul Post. Ma confrontatelo con il lavoro che fa Fabio Severo su hyppolitebayard: quello per me è un piccolo modello.

9) Schierarsi politicamente. Il che non vuol dire fare battaglie di movimenti politici camuffandole da battaglie culturale, ma vuol dire anche qui dichiarare la propria prospettiva: comprendere ad esempio che si vive in un luogo come l’Italia dove quello che potremmo definire il welfare culturale (le biblioteche, le librerie, le case editrici, etc…) sono in balia di una terribile crisi di sistema.

10) Goliardia, cafonaggine. Sembra l’opposto dell’educazione, ma facciamo un esempio. Fate mente locale a come sono stati raccontati per dire la crisi politica italiana degli anni Settanta o il reflusso degli anni Ottanta. Leggetevi le analisi di quegli anni, gli editoriali dei quotidiani: li troverete datati, se non deliranti alle volte. Poi prendete in mano qualche copia del Male o di Frigidaire e valutate cosa è rimasto di ciò che si scrisse e si pensò quei decenni.

11) Equità dei compensi dei collaboratori. L’informazione anche quella culturale è fatta da un esercito di precari, piccoli opliti che operai sotto le mura di una cittadella sempre più piccola e assediata che è quella dei giornalisti tutelati – quella strana classe che appartiene a un organismo che non esiste in nessun paese civile, l’Ordine dei giornalisti. Gente che fa lo stesso mestiere con la stessa fatica viene ricompensata in modi molto diversi: una differenza che spesso è pagamento/gratis.

12) Tutela sindacale. È indubbio come in questi ultimi anni nel lavoro culturale in italiana la coscienza di classe sia andata di pari passo alla ricerca di professionalizzazione. Un buon esempio: prendete quelli di Strade, il sindacato dei traduttori editoriale e giudicate il lavoro che fanno non solo dal punto di vista delle tutele, ma dal punto di vista della ricerca di qualità nel lavoro.

Commenti
5 Commenti a “Critica della critica letteraria”
  1. Teardrop ha detto:

    Se solo quelli del “manifesto” (tipo Francesca Borrelli, caposervizio cultura, se lo è ancora) leggessero questo pezzo, capirebbero all’istante che la dicitura “quotidiano comunista” dovrebbe essere sostituta con “quotidiano padronale”.

    La pratica di non pagare i collaboratori (lavoro gratis in cambio di visibilità o possibilità d’espressione o peggio ancora col ricatto “lavora gratis per noi o sarai un nostro nemico”) è una cosa schifosa, vomitevole, indegna non solo di chiunque si dica di sinistra, ma civile.

    Che cosa direste se Marchionne vi chiedesse di fare un giorno gratis in fabbrica per superare una breve difficoltà congiunturale?

    Grazie per questo pezzo.

  2. LM ha detto:

    Cosa vuol dire ” piccoli opliti che operai sotto le mura di una cittadella sempre più piccola” ?

    PS: a parte che il termine oplita mi sembra un tantino ricercato…

  3. christian raimo ha detto:

    Operano.

  4. Spalman ha detto:

    “7) Mai marchette. Mai marchette mai. Mai. È una regola stupida, elementare. Ma va ricordata sempre: basta una sola marchetta per squalificare alle volte un intero progetto culturale”.

    Ma infatti.

    http://www.minimaetmoralia.it/wp/recensione-tutte-le-feste-di-domani-veronica-raimo/

  5. Sherazade ha detto:

    Ma i creativi sono tutti morti che non c’è neanche un punto elenco dedicato alla creatività?

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