La vita agra, 2014.

Ripubblichiamo una vecchia intervista di Roberto Ciccarelli a Sergio Bologna. Da domani si ricomincia, anche nel mondo del lavoro culturale. Auguri a tutti.

Chi sono oggi i lavoratori della conoscenza?

C’è un po’ di confusione su questa espressione. Sono ormai molte le categorie ad usarla. I lavoratori della scuola e dell’università, ad esempio, gli avvocati, gli architetti, gli ingegneri, i notai, i pubblicitari, i traduttori. Lavoratore della conoscenza è la traduzione italiana di knowledge worker che è stata probabilmente coniata dal padre della teoria del management Peter Drucker negli anni Cinquanta. Oggi chi usa l’espressione “lavoratori della conoscenza” prova a definire in maniera più concreta la realtà in cui si trova.

Per quale ragione attribuisci a questi lavoratori un ruolo di primo piano nella nostra società?

Sono le cifre a dirlo. Mi riferisco a una ricerca sui lavoratori della conoscenza presentata qualche tempo fa…  all’Assolombarda. Confrontato con il dato europeo e statunitense l’incidenza di quello che può essere chiamato “lavoro di conoscenza” raggiunge in Italia la pur ragguardevole percentuale del 41,49 per cento sulla forza lavoro occupata nel 2005, a fronte del 48,19 per cento in Germania e del 52,17 per cento in Gran Bretagna. Pur non condividendo del tutto i criteri di classificazione usati, il rapporto indica le caratteristiche che questi lavoratori offrono sul mercato: idee, beni immateriali, capacità relazionale, competenze.

L’istruzione ha un ruolo fondamentale per i lavoratori della conoscenza. Perché da vent’anni si continua a tartassarla con riforme che peraltro non sembrano funzionare?

Perché è stato deciso che la scuola e l’università non devono più dare una formazione completa ai giovani. Sbaglia chi pensa che bisogna dare più formazione ad un capitale umano non qualificato. E’ vero l’opposto: siamo in presenza di una generazione iperpreparata, mentre è il mercato ad essere dequalificato e non ha nulla da offrirle. Le riforme dell’università badano solo ai costi della formazione e su questi hanno modellato gli ordinamenti degli studi. Il processo di Bologna che le ha diffuse in tutta Europa è l’applicazione meccanica del modello americano. C’è una differenza, però. In Italia sono pochi i privati disposti a finanziare la ricerca. Da chi vai a chiedere soldi? Da Benetton? Della Valle? A quelli interessa sponsorizzare opere d’arte per valorizzare il proprio marchio. Quello che in Italia non si capisce è che negli Stati Uniti il 40 per cento del personale universitario è composto da fund raiser. Il problema di questo miserabile capitalismo italiano è che non abbiamo mecenati interessati alla ricerca e allo sviluppo. La ricerca dei privati si è tradotta nella caccia ai fondi pubblici superstiti e ai finanziamenti europei.

Dall’università, dai servizi, dalla scuola, dalle professioni giungono richieste di diritti essenziali e di sostegno al reddito. Una coincidenza?

Questo fenomeno si spiega con il fatto che il valore di mercato delle competenze dei lavoratori della conoscenza sta crollando. Il valore del loro lavoro si è svalutato molto di più di quello manuale. Prendete le tariffe orarie dell’uno e dell’altro e lo vedrete. In Italia chi ha una competenza dà fastidio. Quello che si cerca è una flessibilità esasperata che impone pagamenti inverosimili. Se finora questa situazione è stata sopportata senza eccessive proteste è perché la situazione di mercato era tollerabile. E’ facile prevedere che la crisi attuale, provocata da quella che Galbraith ha chiamato “economia della truffa”, porterà a situazioni di esasperazione e di totale sfiducia nelle istituzioni. La stessa svalutazione è presente nel lavoro dipendente. Dal 1992 in Italia c’è stata una stagnazione dei salari reali e in alcuni casi anche di quelli nominali.

Che rapporto ha il precariato con questa situazione?

La sua improvvisa visibilità è dovuta al fatto che la Confindustria, i partiti e il governo si sono resi conto che i contributi di milioni di precari sono fondamentali per finanziare la cassa integrazione da cui dipende la stabilità sociale in Italia. Senza questo ammortizzatore sociale arriveremmo al 12 per cento di disoccupati. Il modo in cui è amministrato il Fondo della Gestione Separata INPS alla quale si devono iscrivere i co.co.pro e i lavoratori autonomi è uno scandalo, che noi come ACTA continuiamo a denunciare  e che i sindacati continuano a coprire. E’ questo che fa incazzare la gente. Questo accade perché abbiamo una rappresentanza politica, sindacale, associativa che non è interessata alle questioni vitali delle persone. Penso però che la democrazia corra un pericolo ancora più grave.

Quale?

Il disinteresse per il bene comune, la privatizzazione selvaggia che i milanesi conoscono bene, la mancanza di regolamentazione del mercato. Il pericolo non lo vedo tanto in un’organizzazione istituzionale, quanto nell’abitudine a dare una delega a chi fa politica di professione, come ha fatto fino ad oggi la sinistra, oppure a darla ad uno solo, come fa la destra. Bisogna convincere la gente ad uscire dalla passività e a difendere i propri diritti senza delegarli a terzi.

È possibile ricominciare? E da dove?

La forza motrice della resistenza sono le donne che oltre a lavorare, hanno un ruolo riproduttivo e di cura nella società. Per questo sentono di più il peso della crisi e reagiscono meglio. Non hanno una mentalità individualista, sanno che per ottenere qualcosa bisogna associarsi. Le donne sono una garanzia per la democrazia di questo paese.

Da alcuni anni parli di “coalizione”. Che cosa intendi precisamente?

Per coalizione non intendo un’organizzazione ma lo sviluppo di un atteggiamento soggettivo tra le persone affinché si associno con altri e rivendichino i propri diritti. La democrazia, come ha scritto Karl Polány, non è un sistema di governo, ma una forma ideale di vita. In Italia ci sarebbe spazio per creare una coalizione tra i vari tronconi del lavoro autonomo e precario per conquistare insieme certi diritti universali. I professionisti indipendenti possono dire ai giovani cos’è il mercato oggi, mentre i precari possono insegnare ai lavoratori autonomi a non chiudersi in un rivendicazionismo corporativo.

E il rapporto con i sindacati?

Con i sindacati bisogna dialogare, gli si deve però chiedere di abbandonare l’idea di aumentare gli oneri contributivi del lavoro autonomo e precario. Queste categorie sociali subiscono già una forte discriminazione sul piano delle prestazioni dello stato sociale. Dire che con l’aumento dei contributi si limita il ricorso ai contratti “atipici” è una bugia, la storia di questi anni lo dimostra.

Commenti
Un commento a “La vita agra, 2014.”
  1. GV ha detto:

    La vita agra 2014: commenti 0.
    Fiction Monnezza: commenti 181, and counting.
    This is Italy.

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