Camere separate: l’ottusità studiata a tavolino delle classi-ponte
Ringraziamo (e vi invitiamo ad acquistare e leggere) la rivista di educazione e intervento sociale Gli Asini, sul cui ultimo numero, appena uscito, c’è tra le altre cose questo pezzo sulle cosiddette classi-ponte.
di Gianluca D’Errico
Immagina/1
Vi chiedo uno sforzo di immaginazione.
Immaginate di essere un ragazzo di dodici anni; che vostro padre, disoccupato in patria, decida di emigrare in un altro paese per andare a cercare lavoro, facciamo la Germania per rimanere nei paraggi, ma potrebbero essere gli Stati Uniti o il Canada. Voi e vostra madre rimanete in Italia, vostro padre il lavoro lo trova, a Dortmund, a Toronto, a New York.
Un bel (brutto?) giorno vedete lacrime negli occhi di vostra madre. “Raggiungiamo papà, possiamo di nuovo vivere insieme”.
Immaginate ancora.
Arrivate in una città mai vista prima, siete divertiti e frastornati insieme. All’inizio vi sembra una gita. Guardate tutto, annusate, ascoltate parole nuove. E poi incontrate vostro padre: la felicità e poi la casa che ha trovato per voi. Non è un granché, la casa che avete lasciato in Italia era più grande.
“Tra qualche giorno ricominci ad andare a scuola, è vicino a dove lavoro io, ci andiamo in autobus, mi raccomando”. Da quanto tempo non lo sentivate quel mi raccomando, terribile e rassicurante. Non ci avevate pensato: la scuola.
Ci dovrete rimanere un bel po’ in questo paese nuovo, anni forse. Per sempre, chissà.
Siete anche spaventati. Qui parlano un’altra lingua, non capite poi tanto, non conoscete nessuno.
Quando vostro padre vi accompagna a scuola, al vostro nuovo primo giorno di scuola, incamminandovi verso il cancello siete letteralmente…
Bologna Novembre 2013
Per l’anno scolastico 2013-2014 un istituto comprensivo di Bologna ha deciso che una prima media sarà formata interamente da bambini stranieri. A stare a come viene spiegata la scelta organizzativa da parte di Dirigente e Docenti si tratta di una sperimentazione. Non di una classe vera e propria ma di un “laboratorio” il cui scopo principale è l’insegnamento della lingua italiana. I bambini che vengono iscritti nella IA (questa la classe) sono, per la maggior parte, “ricongiunti”, come vuole la terminologia burocratica: ragazzini venuti in Italia a raggiungere i propri genitori che, emigrati prima di loro, hanno fatto da “apripista” costruendo un minimo di stabilità prima di progettare e realizzare il trasferimento in Italia dei propri figli. Ragazzi che, in larga misura, non parlano l’italiano. Sempre a stare a quanto dicono gli sperimentatori, man mano che apprenderanno l’italiano i ragazzini stranieri verranno trasferiti in classi “normali”.
La classe-ponte ha generato un gran dibattito in città e non solo. Molti hanno richiamato una analoga proposta presentata in Parlamento da parte della Lega Nord, la mozione Cota dal nome del suo primo firmatario, l’attuale presidente della Regione Piemonte. In quel caso la proposta rimase sulla carta, ma ad analizzarne il contenuto le analogie con il progetto della classe ponte Bolognese non sono poche.
La Lega Nord proponeva di “… istituire classi ponte, che consentano agli studenti stranieri che non superano le prove e i test sopra menzionati (test di lingua italiana ndr) di frequentare corsi di apprendimento della lingua italiana, propedeutiche all’ingresso degli studenti stranieri nelle classi permanenti” (il virgolettato è preso dal documento originale presentato in parlamento il 16 settembre 2008). Nel 2008 la questione si archiviò, forse troppo frettolosamente, come l’ennesimo esempio di populismo xenofobo del partito del carroccio.
Nel caso emiliano l’istituzione di una classe ponte è avvenuta nella democratica Bologna e ad opera di docenti che si dicono lontanissimi dalle posizioni politiche della Lega. Per molti la garanzia che non si tratti di pedagogia della separazione e dell’esclusione è data proprio dal fatto che ci troviamo di fronte a “professionisti democratici” che sapranno gestire al meglio questo particolare modo di accogliere i bambini stranieri. Una visione decisamente indulgente che blocca ogni ragionamento su cosa significhi integrazione a scuola e su come sperimentare pratiche in cui ciascuno si senta realmente accolto.
Sperimentare
Il ragionamento giustificativo degli insegnanti che hanno promosso la classe ponte è il seguente: la scuola è allo stremo, nelle classi “normali” si arriva anche a 29 alunni, l’arrivo di alunni che non conoscono la lingua italiana ha un impatto devastante su un contesto già così precario. È il tema delle risorse, insomma. I tagli intervenuti nella scuola pubblica negli ultimi vent’anni in effetti l’hanno messa in difficoltà gravissima, condizionando in negativo ogni possibilità di intervento.
Questa condizione di scarsità (che non deve essere taciuta, deve essere denunciata e combattuta, sia chiaro) non può essere però la giustificazione per qualsiasi tipo di scelta che porti fuori da un ordinario scolastico già schiacciato e immiserito.
Nella scuola italiana c’è un gran bisogno di sperimentare. Abbiamo scritto più volte su questa rivista di come la scuola andrebbe radicalmente trasformata, di come gli intenti alti di emancipazione dell’individuo sbandierati in tutti i documenti pubblici (dalla Costituzione in giù) facciano i conti con una realtà ben diversa in cui essa riproduce pari pari il classismo e l’autoritarismo che stanno fuori, nella società. Di come invece di essere luogo di liberazione, la scuola sia divenuta fucina di frustrazioni, nevrosi, conformismo.
Questo per essere chiari e mettersi lontano da ogni conservatorismo. Della scuola così com’è andrebbe conservato poco o nulla. C’è bisogno di sperimentare, di trasformare, mettere in discussione. Tutto: luoghi e tempi, divisione delle materie, burocrazia…
Detto questo, non tutti i cambiamenti vanno nella stessa direzione e poggiano sulle stesse premesse.
Che idea pedagogica c’è dietro la creazione di una classe separata per chi non conosce la lingua italiana? O ancora più crudelmente: c’è un’idea pedagogica o siamo di fronte ad aggiustamenti organizzativi che guardano all’efficienza e non mettono in realtà niente in discussione? Forse è proprio questo: la scelta bolognese è frutto di quel pragmatismo che ha reso le nostre menti ottuse; nel modello emiliano dell’istruzione l’efficienza burocratica e organizzativa è stata il sicario dell’efficacia educativa.
E invece il problema è altrove. La realtà prepotente bussa alle porte della scuola, in questo caso ha il volto di ragazzi stranieri arrivati da poco in Italia. E pone domande serie, complessive:
Che scuola facciamo? Che idea di bambino abbiamo? Quali sono le pratiche che realmente, a dispetto dei proclami, mettono al centro l’individuo e gli offrono occasioni di emancipazione, possibilità di espressione? Se la risposta è quella di creare una classe separata probabilmente non si sono comprese, o prese in considerazione, le domande. Ancora più chiaramente: una scuola nella quale la possibilità di espressione di ciascuno è pesantemente compressa il problema non è la lingua.
Nei processi di trasformazione poi è fondamentale il metodo. Si può rispondere alle domande di cui parlavo sopra solo attraverso processi di ascolto e partecipazione, sia di quelli che “abitano” quotidianamente la scuola (insegnanti, studenti, genitori) che di quelli che stanno fuori dal cancello.
Guardando indietro impariamo che le sperimentazioni e le conseguenti riforme più pregne di senso pedagogico (penso ad esempio al tempo pieno alle elementari o alle cosiddette 150 ore per l’educazione degli adulti) non sono nate da solitari spiriti illuminati ma da concreti e imperfetti processi di condivisione, discussione, ascolto.
La scelta di fare una classe ponte nella scuola bolognese pecca anche in questo: una assoluta mancanza di confronto; un progetto nato “in laboratorio” magari con le migliori intenzioni ma con le peggiori pratiche. Un insegnante o, nella migliore delle ipotesi, un gruppetto, scrive a tavolino un progetto pescando dal proprio bagaglio di conoscenze, idee, intuizioni. E, solo dopo, alla comunità scolastica è “concesso” di ratificare o meno la decisione. I genitori, le associazioni di immigrati, le associazioni delle cosiddette seconde generazioni, i ricercatori che hanno lavorato sul tema dei giovani ricongiunti: nemmeno presi in considerazione.
Non è una casualità che tutto il dibattito sulla classe ponte sia nato dalle rimostranze di alcuni genitori che fanno parte del Consiglio di Istituto (uno degli organi collegiali delle scuole): della scelta di istituire la classe per soli stranieri non erano stati nemmeno informati per tempo. Non è una questione di cavilli formali s’intende, lo svuotamento di senso degli organi collegiali, degradati appunto a luoghi di mera ratifica di scelte prese chissà dove, è solo un tassello del più generale processo di sparizione della democrazia dalla scuola. Anche in questo la scuola ripercorre il sentiero tracciato dalla società. Pensate a come avviene la trasformazione del territorio, alle grandi opere; chi partecipa? Chi decide? Alle comunità resta solo la possibilità di accettare o meno un pacchetto confezionato altrove.
L’alfabeto.
Si usano i termini “accoglienza” e “alfabetizzazione” quasi come fossero sinonimi; è un uso improprio. O, nel migliore dei casi, alfabetizzazione come presupposto necessario ad una buona accoglienza. Presupposto anche temporale. Prima impari la lingua poi ti integri. Questa visione, anche dietro le buone intenzioni di chi la difende, ha alle spalle una precisa idea di formazione e educazione.
Un’idea secondo la quale la persona è “vivisezionabile” nelle sue componenti cognitive e affettive: c’è il pezzo della lingua, quello dell’affettività, quello dell’incontro con i saperi strutturati, quello della sua corporeità ecc. e ognuno di questi pezzi può essere “aggiustato”, trattato separatamente dagli altri.
Nel caso della lingua poi la cosa è proprio lampante: come si può pensare che sia più fruttuoso imparare l’italiano separando i bambini da alfabetizzare dagli altri già alfabetizzati (italiani e non)? Creando un luogo ad hoc dove, come su una catena di montaggio pedagogica, si mette mano alla lingua, per poi pensare all’incontro con i bambini italiani delle classi normali.
La cosa non regge dal punto di vista “tecnico”, volendo stare sul terreno dei professionisti dell’insegnamento delle lingue. Basta leggere quanto scrivevano nel 2008, a commento della mozione Cota, le maggiori Società e Associazioni che si occupano di linguistica e insegnamento della lingua in un documento comune: “l’acquisizione di una lingua è tanto più facile, rapida, completa quanto più giovane è l’età del soggetto apprendente e quanto più piena è l’immersione nella nuova realtà linguistica e culturale”. La scoperta dell’acqua calda.
Ma non è solo questo. La lingua vive nella relazione e creare luoghi dove essa si apprende come fatto astratto significa nient’altro che riprodurre vecchi errori della scuola tutta; creare luoghi asettici che stanno fuori dalla realtà. Dove la realtà arriva come una eco lontana.
Insomma, nel binomio accoglienza e alfabetizzazione, se proprio dobbiamo cercare un primato, viene prima l’accoglienza. Che accoglienza è quella che dice: “ti do il benvenuto ma per un po’ mettiti da una parte e preparati bene ad essere accolto da me.”?
Sul piano delle potenzialità pedagogiche poi la presenza della diversità in classe (ciascun bambino col suo carico di ricchezza e difficoltà, non solo gli stranieri) dovrebbe essere il punto di partenza dal quale muovere. Ed è un punto di partenza fertile che può aprire possibilità, occasioni per immaginare percorsi di insegnamento-apprendimento nuovi. L’accoglienza (con dentro l’alfabetizzazione) dovrebbe ad esempio diventare un “affare” di tutta la classe e non solo una incombenza dei docenti.
La scuola invece oggi ha come pratica costante quella di creare “ambienti” separati per bisogni specifici diversi. E spesso mette sopra ciascun bambino etichette ben visibili (e spesso indelebili) che certificano la sua “diversità”. La classe ponte Bolognese, in tal senso, lungi dall’essere una novità si inserisce nel solco di una tradizione pluriennale. Per dirla con una battuta: rispetto all’accoglienza di bambini stranieri la scuola così come è oggi non può che produrre risposte come la classe ponte.
Ovvio, l’idea di costruire percorsi a partire dalla diversità presuppone un lavoro faticoso, complesso che necessita conoscenza e riflessione da parte degli insegnanti, ma rispetto al quale non ci possono essere scorciatoie. O così o non si parli di accoglienza.
Ecco: la classe ponte immaginata a Bologna è una scorciatoia. E non ci interessa nemmeno dove porti perché nell’insegnamento-apprendimento ciò che conta non è il “prodotto” ma il processo.
Immagina/2
L’immagine dalla quale sono partito, quella di un ragazzino che, a prescindere dalla sua volontà, si ritrova in un contesto nuovo non è solo un artificio retorico per introdurre al tema. No, è proprio il cuore della questione: per “far vivere il mondo a scuola” è necessario ripartire dalle storie di vita di chi a scuola arriva, restituire unità alla persona, prepararsi all’accoglienza, parlare di incontro e non di integrazione, creare contesti il cui scopo primario sia la possibilità di espressione di tutti, italiani e non.
Faccio l’insegnante e ho da poco preso una specializzazione in italiano a stranieri (ma non ne sono un esperto, l’esperienza di anni conta più dei titoli).
Ci sono tre cose che vorrei dire.
E’ vero, ormai l’autonomia scolastica, la possibilità di fare progetti, nonché (nel pezzo lo si mette bene in evidenza) le pressioni dei genitori e degli organi scolastici spingono a prendere decisioni in forma dirigistica, anche se in buona fede, e il confronto va a farsi benedire.
E’ verissimo, più gli studenti sono piccoli più l’immersione nel tessuto comunicativo quotidiano favorisce anche l’apprendimento linguistico. L’idea che solo l’apprendimento formale e guidato sia utile è miope, anzi la quantità di lingua cui si è esposti nella realtà è infinitamente superiore e formativa di quanto non siano i poveri input cui si è sottoposti in un contesto formale. In parole semplici: i bambini imparano stando coi bambini più che in classe. Sugli adolescenti il discorso è un po’ più complesso, credo.
Tuttavia confesso che ho l’impressione che il pezzo pecchi di benaltrismo.
Se la battaglia è politica, per chiedere investimenti nella scuola (sono d’accordo) e riforme radicali (no, non sono d’accordo: ma chiudo la parentesi e non spiego), questo puntare alto va bene. Ma se l’obiettivo è anche quel preciso contesto, la scuola emiliana e i suoi insegnanti, ecco, credo che la polemica contro il pragmatismo sia sbagliata.
Il numero di allievi per classe, la richiesta di individualizzazione formativa, la moltiplicazione di bisogni educativi speciali, oltre le stesse certificazioni (e la conseguente spaventosa moltiplicazione di burocrazia) sono problemi realissimi e che possiamo risolvere al momento, ahimé, solo pragmaticamente. Ma soprattutto: nella scuola dell’inclusività e in ogni discussione su di essa c’è sempre il convitato di pietra: la competenza degli insegnanti.
Chi sa insegnare agli stranieri non può entrare nella nostra scuola perché il suo titolo non vale un fico secco (non è una lamentela personale, io ho il mio posto e il titolo d’insegnamento agli stranieri l’ho preso anche perché ho dovuto fare da me, darmi competenza, quello che lo Stato non fa, e spendendo cifrette niente male), l’alfabetizzazione degli stranieri è stata per lungo tempo improvvisata (e nonostante ciò si sono maturate, in certi contesti, notevoli e pregevoli esperienze), agli insegnanti è chiesto di entrare in classe e di fare – questo è il punto centrale – 4 o 5 cose contemporaneamente, proprio in conseguenza di una superfetazione ormai fuori controllo di educazioni speciali, per le quali spesso nessuno ti fornisce alcuna competenza.
Davanti a tutto ciò, fingere di non vedere che questo è il problema attuale delle nostre classi e parlare della necessità di guardare ben oltre, non mi convince fino in fondo.
Chiedo scusa per l’apoditticità, ma il tema è complesso davvero e volevo esser breve. Volevo solo suggerire qualche spunto per un dibattito di cui c’è bisogno.
Saluti
È vero…siamo inegnanti impreparati alle molteplici situazioni che oggi troviamo in classe, non siamo più abituati al confronto, ci impegnamo a fare il possibile..per non perdere la testa: anni di mancanza di “serio aggiornamento” stanno dando il loro frutto! Un datore di lavoro che non esige e non sostiene la formazione dei suoi dipendenti ottiene questo risultato! Personalmente godo di un lavoro di ricerca che mi ha formato e stimolato ad un aggiornamento permanente, ad avere nel mio “lavoro” un desiderio e uno stile di sperimentazione e di innovazione. Grazie a questo ho resistito 42 anni in una scuola di cui ho goduto i tempi vitali e ora soffro i tempi di decadenza dovuti a scelte a cui siamo “costretti” da chi invece che facilitare, appesantisce il nostro far scuola. Certo forse la scelta della scuola emiliana potrebbe essere ripensata, ma provate voi a “insegnare” i concetti di storia, matematica o altro a chi non comprende nemmeno una parola e poi ne riparliamo!
L’articolo si riferisce a una prima media.Non ho esperienze d’insegnamento, ma mi chiedo come un insegnante possa affrontare il programma di prima media in una classe formata da preadolescenti di madre lingua italiana e predolescenti che non sanno una parola d’italiano. Non stiamo parlando di una prima elementare, per intenderci. Forse potrebbe funzionare con classi piccole e una quota precisa di ragazzini che non sanno l’italiano, ma con classi di una trentina di alunni a livelli diversi di crescita (in prima media c’è quello che è ancora un bambino delle elementari e quello che è già proiettato nell’adolescenza) inserire pure alunni che non conoscono una parola d’italiano non so quanto sia fattibile. Comunque non ho capito quale sia la proposta di D’Errico, se non una somma di auspici per il futuro. Alla fine il punto è che gli amministratori si ritrovano a dover affrontare realtà su cui non hanno nessun controllo. Magari potrebbe essere utile iniziare a programmare diversamente la formazione delle classi (numero e composizione) e capire come trovare le risorse, ma per rendere tutto attuabile nella migliore delle ipotesi passano almeno cinque anni.
“The pen is on the table. Where.Is.The pen?”