Il tempo interno e la precarietà del mondo. La nuova produzione di Lucia Calamaro

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L’ambizione di Lucia Calamaro, è ormai chiaro, è quella di scrivere un romanzo teatrale. Ovvero un oggetto scenico che riesca a contenere dentro di sé il debordare dei flussi narrativi e dello scandaglio interiore che solo la lingua del romanzo ha il respiro sufficiente per contenere e assecondare. Mentre il teatro, che deve fare i conti con il tempo – quello che i teatranti chiedono agli spettatori assieme alla loro attenzione –, e dunque con il ritmo come elemento di fascinazione, solitamente non ha il respiro necessario. Almeno è ciò che generalmente si pensa. Lucia Calamaro è riuscita a incrinare questa convinzione con il suo precedente spettacolo, «L’origine del mondo», vincitore di tre premi Ubu, che è al contempo uno spettacolo colto e popolare, letterario e intimamente teatrale. Ci riprova con la sua nuova produzione, «Diario del tempo», che sta muovendo i suoi primi passi in una mini-tournée umbra tra Spoleto, Gubbio, Amelia, Città di Castello (essendo sostenuto dal Teatro stabile regionale). E stavolta, alla sua prima uscita, il tentativo sembra ancora più radicale.

Faccio una premessa: questa non è una recensione. Quello di Lucia Calamaro è un lavoro che cambia forma diverse volte prima di abitarne adeguata, e al momento è alla sua prima uscita – che contra già oltre due ore di spettacolo in due atti più un’altra ora di materiale al momento “scartato”, perché ne sarebbe uscito fuori qualcosa di troppo debordante per questo mini-tour di provincia. Si tratta piuttosto un racconto, una riflessione a margine di uno spettacolo che si va componendo e di una scrittura che invece – nonostante il working progress – è già definita e si presenta oggi come una delle più interessanti dell’intero panorama drammaturgico italiano.

«Diario del tempo» mette in parallelo due appartamenti e quattro figure che li abitano. Quattro storie differenti eppure attraversate da una medesima ossessione: Federica Santoro è una donna inoccupata che non sa nemmeno compilare un formulario o un bando di lavoro senza dare in escandescenze; Roberto Rustioni è un uomo che si è visto ridurre il lavoro da full a part-time e lavora da casa; Davide Grillo è a sua volta senza occupazione fissa e per questo divide la stanza addirittura con la zia, Daniela Piperno, anch’essa evidentemente senza sostanze. Il loro è un precariato esistenziale che li spinge a rapporti paradossali: vivere con la zia in una medesima stanza in affitto, intrecciare una relazione amicale (tra Federica e Roberto) che espelle le responsabilità di quelle sentimentali ma ne ricalca alla fin fine le nevrosi. L’unico possibile antidoto, incarnato dai vari oggetti che abitano una scena altrimenti spoglia, è l’attività fisica: lo sport, visto come una panacea ma inseguito senza una reale convinzione. Ecco allora alternarsi il tapis roulant, le scarpe per corsa e persino un materasso gonfiabile che dovrebbe ricordare il nuoto ma finisce per essere l’approdo per un corpo inerme. Perché lo scatto di reni che dovrebbe far uscire in modo rapido i quattro personaggi dalla loro logorrea e dalle continue ossessioni è un’utopia che è solo in grado si spostare un po’ più in là l’orizzonte del problema.

Questo di Lucia Calamaro è uno spettacolo sull’immobilità. È un corpo a corpo ravvicinato con una condizione esistenziale apparentemente senza via d’uscita, che l’autrice e regista dipana senza mediazioni. Non c’è uno sviluppo drammatico, né quegli addentellati immediatamente comici che hanno fatto il successo di «Origine». Qui il tentativo è quello di immergere lo spettatore in quella stessa condizione vischiosa in cui si trovano i personaggi. I flussi di parole sono fiumi in piena che disegnano una stasi e chiamano a raccolta la memoria interiore di chi guarda. Perché il “tempo” cui fa riferimento il titolo è un tempo interno, che non coincide necessariamente con ciò che avviene al di fuori – la vita, lo sport, la noia, il dibattito intellettuale – che scorre secondo logiche proprie.

Nonostante ciò, «Diario del tempo» potrebbe facilmente essere letto come uno spettacolo “politico”, al di là delle intenzioni dell’autrice (e anzi, probabilmente lo sarà). Ma non tanto perché i suoi protagonisti sono precari nella vita lavorativa e negli affetti, condannati per di più a una precarietà abitativa. Lucia Calamaro, nell’affrescare questa sua “epopea quotidiana”, non ha affatto cercato una lettura sociologica o una chiave politica. Tutt’altro: il suo sguardo è ancora più radicalmente rivolto verso l’interno. E tuttavia proprio per questo coglie un nesso importantissimo dei nostri tempi, non teorizzandolo ma facendolo emergere da questo scandagliare insistente. Si tratta della metamorfosi intima che subiscono le relazioni umane una volta che saltano i punti di riferimento, una volta cioè che per trovare la propria forma non possono disporre di altro che della propria coscienza. Una metamorfosi che si colloca oltre le anomie sociali perché racconta la tensione intima che scorre sotterranea alle nostre esistenze – anche, chiaramente, in virtù di come riescono o non riescono ad affermarsi nel mondo. E la cosa più interessante sta nel fatto che nei (molto divertenti) scoppi d’ira e nelle iperboli del testo non c’è l’apice del dramma: le quattro esistenze si snocciolano sul palco attraversate da disagio costante, meglio, da una “scomodità esistenziale”, ma anche dalla placida accettazione del quotidiano. È un urlo senza volontà di potenza.

A sostenere la scrittura geniale e debordante di Lucia Calamaro, e dunque a rendere possibile l’alchimia di «Diario del Tempo», c’è la recitazione di grande livello e di grande tenuta dei quattro attori – di cui per la prima volta due uomini, da quando il lavoro della drammaturga romana è esploso a livello nazionale – tra cui spicca l’energia magnetica e trascinante di Federica Santoro, nuova attrice-feticcio che dopo il ciclo di «Origine» segna in modo già indelebile questo ciclo (tali sono gli spettacoli fiume di Lucia Calamaro) appena cominciato.

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