Dal fotoromanzo a Maria De Filippi

renzi_01_941-705_resize

Questo pezzo è uscito sul N.16 di Link Idee per la televisione, quel che resta del nazionalpopolare. Puoi trovare Link, oltre che in libreria, anche in formato digitale per iPad (qui), per Android (qui) e per Kindle (qui).

di Francesca Serafini

Tra tutte le forme del nazionalpopolare ce ne sono alcune indirizzate perlopiù al pubblico femminile. E queste forme (escludendo qui la letteratura rosa che da Liala arriva fino a Sveva Casati Modignani) possono da sole costituire una piccola storia a sé che va dal fotoromanzo ai programmi di Maria De Filippi. Una storia che rappresenta anche, al netto di qualunque forzatura ideologica, un’efficace cartina di tornasole per registrare la mutazione di atteggiamento della sinistra italiana negli ultimi sessanta anni nei confronti della cultura di massa tout court.

Per sciogliere il nesso, in modo da avere i due estremi temporali di una forbice in cui muovere questo ragionamento, bisogna considerare due fatti legati ad altrettanti segretari del maggior partito della sinistra italiana, così come si è andato trasformando negli anni anche nel nome: da un lato la prefazione di Enrico Berlinguer del 1949 all’antologia per ragazze L’avvenire non viene da solo; e dall’altro la partecipazione di Matteo Renzi nel 2013 al programma televisivo Amici.

Dal rotocalco a Grand Hotel 

Prima, però, è utile riandare a un tempo in cui non c’era neanche il fotoromanzo, risalendo al suo antenato più stretto: il rotocalco cinematografico, che in Italia comincia a diffondersi intorno agli anni Venti. Uno dei più prestigiosi – non fosse altro che per la presenza tra le sue firme di quella di Cesare Zavattini, che per un periodo ne assunse anche la direzione – è Cinema Illustrazione, che compare per la prima volta nel 1930.

In quel contesto, volto principalmente a pubblicizzare i film in uscita, si alternavano interventi critici, servizi fotografici sui grandi divi del cinema americano, articoli di gossip che li riguardavano e rubriche come quella curata da Zavattini che si spacciava per inviato a Hollywood, inventando comodamente da casa il contenuto dei suoi pezzi. Questo almeno fino alla svolta autarchica del regime fascista, che vietò la promozione di prodotti non italiani, generando, per contraccolpo, la necessità di riempire le pagine destinate alle pellicole d’oltreoceano con altri contenuti.

Si passa così dai cineromanzi – la trama romanzata dei film – a racconti e novelle vere e proprie; ed è così che acquista rilievo, nella consapevolezza della composizione prevalentemente femminile del pubblico della rivista, la firma di Luciana Peverelli: prima nel ruolo di autrice di articoli di moda e titolare di una rubrica di lettere; e poi, dal 1939, in quello di direttrice, che sceglie queste parole per presentarsi: “Amiche gentili, Luciana ritorna tra voi con la stessa gioia e la stessa tenerezza di un tempo. Conoscete già il mio motto ‘tutte possiamo, tutte dobbiamo essere felici’. Ed io sono qui ad aiutarvi per questo con le mie parole, i miei consigli, la mia affettuosa solidarietà. Dobbiamo essere in armonia col nostro tempo, che è il tempo della giovinezza. E poiché la giovinezza di una donna moderna splende fino… ai cinquant’anni, tutte dobbiamo sentirci giovani, quindi liete e fiduciose”(1).

Nell’editoriale di Luciana – nei suoi toni rassicuranti – si rintraccia un filo rosa che riconduce alle parole di Don Draper nel primo episodio della serie televisiva Mad Men, quando dice: “La pubblicità si basa su un’unica cosa: la felicità. E sapete cos’è la felicità? La felicità è una macchina nuova, è liberarsi dalla paura, è un cartellone pubblicitario che ti salta all’occhio e che ti grida a gran voce che qualunque cosa tu faccia è ben fatta, e che sei ok”. E il parallelo non sembri azzardato perché di fatto la propaganda – cui pure rimanda l’apologia della giovinezza di chiara matrice fascista – è solo una delle declinazioni possibili della pubblicità, ma tant’è.

Qui però facciamo un salto – pur continuando a tenere bene a mente le parole di Luciana sulla felicità – e arriviamo a Stefano Reda, che nel primissimo dopoguerra propone alle case editrici italiane “un fumetto che avesse le fotografie al posto dei disegni”(2). Reda intende spingere ancora di più sul target femminile, svincolandosi definitivamente dal legame con il cinema che ancora sopravviveva nei rotocalchi, immaginando una forma tutta nuova per raccontare le storie d’amore che tanto appassionavano il pubblico delle lettrici.

È così che nel 1947 nasce Sogno, il primo fotoromanzo tout court; e subito dopo Bolero, e poi Grand Hotel, che in verità esisteva dal 1946 in forma di fumetto rosa e che – sulla scia del successo degli altri due settimanali – si adegua e sostituisce i disegni con le fotografie. In poco tempo, ognuna di queste riviste raggiunge tirature di milioni di copie, in un successo di vendite mai raggiunto in quelle proporzioni dai rotocalchi cinematografici.

La formula alla base di questa riuscita è semplice (per chi la studia più che per chi la elabora, certo) e riconducibile soprattutto a tre elementi su cui vale la pena soffermarsi in ordine di rilevanza.

1. Intanto la bellezza dei protagonisti (l’unica caratteristica ineludibile, essendo ridotte al minimo, nelle fotografie, le necessità interpretative). È così che perfetti sconosciuti indiscutibilmente avvenenti diventano in poco tempo veri e propri divi, la cui fama – consolidata di numero in numero – alimenta a sua volta il meccanismo, trasformandosi in un ulteriore elemento di traino e di fidelizzazione nelle vendite, ancora più influente della qualità stessa delle storie raccontate. Perché la storia che appassiona di più è quella vera – o presunta tale – degli attori stessi. Ecco che allora una giovanissima Sophia Loren (che al cinema a quel tempo aveva fatto solo qualche piccola apparizione), con il nome di Sofia Lazzaro (scelto per lei dallo stesso Reda), diventa una stella del fotoromanzo di cui i lettori vogliono conoscere tutto: dal fiore preferito – nella fattispecie le orchidee – alla squadra di calcio del cuore (la Lazio).

Il riferimento al calcio non è casuale (né tantomeno il corsivo in lettori), perché la bellezza delle attrici finisce per attrarre anche un pubblico maschile, come testimoniano le tante lettere arrivate a Sofia a quei tempi, tra cui quella di un tale Giuseppe Monteleone di Reggio Calabria di cui Sogno pubblica la risposta: “E come potrebbero non piacermi i tuoi versi, caro Giuseppe?” – spesso, insieme alla richiesta di foto con dedica, o a proposte di matrimonio, i lettori mandavano poesie dedicate ai divi del momento – “Il fatto è che io farò con te la brutta figura dell’ingrata. Infatti, per accordi che ho firmato nel contratto di lavorazione per Sogno, non posso scrivere personalmente agli ammiratori e di conseguenza non posso loro inviare mie foto. Ma non ti basta la mia amicizia? Di foto ne troverai quante vorrai su Sogno. So che tu ritaglierai le più belle e le terrai gelosamente! Non mi dire che non lo farai come sogno io, altrimenti ne rimarrei terribilmente delusa”(3).

2. L’assoluta centralità del tema dell’amore nelle storie a puntate, secondo un modello narrativo formulare e iterativo con immancabile happy ending che rappresenta, proprio in chiave nazionalpopolare, l’antecedente più diretto della serialità televisiva soap (in tutte le sue declinazioni nel tempo). Si tratta infatti di narrazioni improntate alla realizzazione di un sogno d’amore: l’unica forma possibile di felicità nell’universo fotoromanzesco.

3. L’uso di una lingua accessibile “a una fascia di pubblico alfabetizzata ma sostanzialmente incolta, suggestionabile e nutrita dei più facili miti romantici”(4). Niente che potesse far storcere il naso ai linguisti – antesignani, in casi come questi, di quell’atteggiamento che ha reso celebre Steven Johnson, la cui sintesi perfetta è rappresentata dal titolo del suo saggio Tutto quello che fa male ti fa bene – più interessati al fatto che un italiano sostanzialmente rispettoso della norma potesse consolidare le conoscenze linguistiche (anticamera di qualunque altro tipo di emancipazione culturale) di un pubblico di lettori così vasto, che ai contenuti veicolati da quella stessa lingua.

Ora, tanto per cominciare a riannodare i fili, arriviamo finalmente al testo di Enrico Berlinguer “Dedicato alle ragazze che leggono Grand Hôtel”, pubblicato come prefazione all’antologia già citata e curata da Alessandro Curzi. Nel tentativo accorato e pedagogico di spingere quelle stesse ragazze verso altri tipi di produzioni – e insieme, naturalmente, ad altro tipo di felicità rispetto a quella a cui si riferiva Luciana Peverelli: di fatto la stessa dei fotoromanzi – Berlinguer scrive: “Non è davvero nelle nostre intenzioni negare alle ragazze il diritto di scegliere le loro letture, di appassionarsi ad avventure od a vicende d’amore. Vorremmo soltanto aiutarle a comprendere che, alle volte, in chi scrive quelle avventure, in chi immagina quelle storie d’amore, vi è l’intenzione di farci palpitare per le avventure di altri, di farci sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi, di unirci, di operare per rimuovere insieme gli ostacoli che impediscono a tante ragazze di conquistarsi un loro avvenire, di portare a compimento il loro sogno d’amore, di avere tutte la loro famiglia e di raggiungere la loro felicità in una società che più non conosca per i pochi, il privilegio, il lusso, il capriccio e, per i molti, l’umiliazione, lo scherno, la miseria”(5).

A leggere queste righe sembra essere passata un’era geologica e non la sessantina d’anni abbondante che realmente ci separa da allora. Ma non diremmo lo stesso di film come Bellissima di Visconti (1951) o del felliniano Lo sceicco bianco (1952) che pure prendevano di mira quelle stesse proiezioni velleitarie del popolo italiano nell’universo artefatto delle Luci del varietà (per citare ancora un altro titolo, il primo sul tema, firmato ancora da Fellini e da Lattuada): ma questa è solo la potenza dell’arte, che nella sua trasfigurazione diffratta si sottrae all’usura del tempo; così come, tra qualche anno, quando magari non sapremo più chi è Lele Mora, probabilmente invece continueremo a ricordarci del personaggio che ha ispirato a Teresa Ciabatti nel suo Tuttissanti.

L’ostilità di Berlinguer nei confronti del fotoromanzo è consorella di quella che nello stesso àmbito politico si svilupperà negli anni successivi nei confronti del fumetto, in quanto “invenzione neocapitalista e nordamericana” – come ricorda Umberto Eco – e dunque rappresentativa di “una cultura popolare planetaria (e non nazionalpopolare)”, perché “prodotta dall’alto, e in questo senso ‘cultura per le masse e non delle masse’”(6). Così come, però, di fatto, la cultura – ugualmente dall’alto – proposta da Berlinguer nell’antologia. La cui impostazione, di là dalle intenzioni, finisce infatti per avvalorare ulteriormente quel passaggio dei Quaderni dal carcere di Gramsci in cui si legge: “In Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e astratta e l’intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano”(7).

Siamo però ancora nel 1949 e qualcosa stava per muoversi. Chissà se sulla scorta dei riscontri – l’antologia si ferma al numero di copie vendute, pur significativo, di 150.000, mentre i fotoromanzi continuavano a essere acquistati in milioni a settimana, ma sta di fatto che a poco a poco si comincia a guardare al fotoromanzo come a un’occasione anziché come a un problema. Sopravvivono certo sacche di resistenza – come l’articolo di Nilde Jotti del 1951 sulle pagine di Rinascita intitolato “La questione dei fumetti”, sostanzialmente in linea con le posizioni di Berlinguer – ma, prima in Sicilia, e poi nel resto d’Italia, cominciano a diffondersi fotoromanzi prodotti dal partito stesso, finalmente consapevole delle potenzialità del mezzo da piegare alle proprie esigenze ideologiche.

Ecco che allora cominciano a fiorire titoli come Cuore di emigrante o Il destino in pugno, con le stesse intenzioni che anni dopo avrebbe portato alla creazione dei fumetti di “Unidad Popular” nel Cile di Allende; o che avrebbe ispirato tra il 1975 e il 1981 – ma in questo caso al di fuori del partito – i quattro storici fotoromanzi dello psicologo Luigi De Marchi, attivista per i diritti civili e fondatore dell’AIED, interpretati da grandi attori come Paola Pitagora, Ugo Pagliai e Paola Gassman, e tutti incentrati a invitare le lettrici a un uso consapevole della contraccezione (stesso tipo di operazione di quella tentata nel 1993 con una versione del fumetto Lupo Alberto, inventato da Silver, pensata per informare i più giovani sui metodi di prevenzione dell’AIDS e di cui l’allora ministro della pubblica istruzione, Rosa Russo Jervolino, vietò la distribuzione nelle scuole superiori).

A questa altezza, però, siamo in un periodo in cui la parabola del fotoromanzo era nella sua fase discendente, perché l’attenzione alla vita vera dei suoi protagonisti – che non a caso avevamo messo tra le ragioni di tanto successo – aveva determinato nel frattempo l’emigrazione (lenta ma inesorabile) di quello stesso pubblico verso riviste che dedicavano, se non tutto, gran parte del loro spazio direttamente alle notizie, più o meno scandalistiche, relative al privato dei grandi divi. Del fotoromanzo, certo, ma anche della canzone – specie quella di stampo sanremese, ancora una volta più propriamente nazionalpopolare – o del cinema; o della televisione, che proprio in quegli anni – tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta – conosceva la svolta imposta dall’ingresso sul mercato delle tv commerciali di Berlusconi, lontane da quell’intento pedagogico che animava le parole di Berlinguer prima e l’impostazione dei fotoromanzi immaginati da De Marchi poi.

Nuovi divismi

Si potrebbe dire, in sostanza, che guardando storicamente al fenomeno, il vero motore della stampa nazionalpopolare al femminile è la cronaca rosa: l’unico comun denominatore tra tutte le tipologie che abbiamo delineato (dal rotocalco cinematografico al fotoromanzo), fino ad arrivare a una che non ha neanche più la necessità di altro, in settimanali costituiti solo da fotografie e da servizi sui vip che peraltro continuano ad avere lettori affezionati anche ai nostri giorni (Di più, per esempio, ha una tiratura di circa 700.000 copie a settimana). L’ultimo approdo in questo senso è che la cronaca rosa ha finito per invadere anche l’informazione vera e propria, con il risultato che oggi nei quotidiani o nei telegiornali sempre più possiamo riscontrare notizie relative a personaggi famosi che fino a qualche anno fa si sarebbero potuti trovare citati solo nel caso di odiose sovrapposizioni con la cronaca nera.

E questa curiosità dilagante nei confronti del privato dei personaggi noti, ai limiti della morbosità, ha determinato cambiamenti anche nell’offerta televisiva rivolta alle donne. Al genere della telenovela prima e della soap dopo (versioni dinamiche del fotoromanzo, più o meno ispirate agli stessi principi formali e contenutistici), si sono aggiunti negli anni altri tipi di programmi come Uomini e donne di Maria De Filippi, che per certi versi ha più di un punto in comune con il fotoromanzo delle origini, e non solo. A ben guardare, in effetti, è come se De Filippi avesse messo tutti insieme in un unico contenitore i punti di forza del nazionalpopolare al femminile, così come si sono stratificati nel tempo. Perché nel suo programma crea divi esattamente come il fotoromanzo a partire solo dalla loro avvenenza (un tipo di bellezza “seriale”) e perché mantiene come tema dominante ancora una volta l’amore.

Solo che stavolta i protagonisti di quelle storie – spacciate come vere ma nella maggior parte dei casi comunque concordate con gli autori – non sono interpreti, ma persone che si muovono sulla scena nel ruolo di sé stesse (la finzione, se c’è, non deve apparire), diventando divi per il fatto stesso di essere lì. Divi per la prima volta concretamente raggiungibili dai loro ammiratori. In quel contesto, infatti, un signor Monteleone qualunque, come quello che scriveva versi a Sofia Lazzaro, potrebbe aspirare non solo a incontrare personalmente l’oggetto delle sue fantasticazioni ma, se selezionato in qualità di corteggiatore, potrebbe addirittura diventare un divo a sua volta, sempre solo per il fatto di comparire in tv. È come se, in definitiva, questo tipo di programmi avesse tenuto presente il monito di Berlinguer sui fotoromanzi smantellandone però i presupposti, come a dire “non vogliamo farti palpitare per le storie altrui: vogliamo che le storie per cui stai palpitando possano diventare la tua; la tua felicità”.

Si tratta, però, di un’illusione, come mostrano le parabole a cortissimo raggio di questo genere di stelle, che molto spesso – vedi come le storie si intrecciano nello stesso gomitolo – vivono l’ultima fase della loro notorietà proprio riciclandosi nei fotoromanzi (come è successo all’ex tronista Francesco Monte), che nonostante tutto, sia pure in numero di copie sempre minore, continuano a essere pubblicati anche oggi.

Siamo dunque ai giorni nostri, e a quelli di Matteo Renzi che partecipa con il giubbotto di Fonzie a un altro programma di Maria De Filippi, Amici (che un tempo però si chiamava Saranno famosi, e che quindi muove dalla stessa ambizione di portare al successo chi, prima di apparire in tv, era tutt’altro che famoso) per parlare di speranza e di sogni da coltivare. E siamo a un tempo in cui non è ancora possibile valutare se la sua strategia comunicativa – l’accesso immediato a un pubblico vastissimo e composto oltretutto perlopiù di giovani – rappresenti solo un modo per liberarsi del passato libresco del suo partito e andare incontro alle esigenze popolari, cercando in questo modo di dare risposte politiche concrete a chi non avrebbe altri mezzi per raggiungerle; o se invece sarà il mezzo a cambiare le risposte a una domanda di felicità -– complessa e diversificata, come quella che si riscontra fuori dallo schermo del televisore – che magari nessuno dall’alto sarà più in grado di formulare. 

(1)  R. De Berti, Dallo schermo alla carta: romanzi, fotoromanzi, rotocalchi cinematografici, Vita e Pensiero, Milano 2000.

(2) Voce “Fotoromanzo” di E. Detti, in Enciclopedia dei ragazzi, Treccani, Roma 2005.

(3) S. Masi, E. Lancia, Sophia, Gremese Editore, Roma 2001.

(4)  Ibidem.

(5) Il testo di Berlinguer è ripreso dal volume C. Ricchini, E. Manca, R. Di Blasi, U. Baduel, L. Melograni (a cura di), Enrico Berlinguer, Editrice L’Unità, Roma 1985.

(6)U. Eco, prefazione a I fumetti di “Unidad Popular”. Uno strumento di informazione popolare nel Cile di Allende, CELUC, Milano 1974.

(7) A. Gramsci, Quaderni del carcere (a cura di V. Gerratana), Einaudi, Torino 2001.

Aggiungi un commento