Stiamo andando al concerto dei Doors

600px-The_Doors_1968Oggi,  12 febbraio, Ray Manzarek avrebbe compiuto 76 anni.  Il 10 luglio 2012, a Roma, Giordano Meacci è andato al concerto dei Doors. Ovvero: Manzarek e Krieger. E su quella serata ha scritto un reportage, finora inedito, che oggi pubblichiamo. (Fonte immagine)

È più o meno a due incroci dall’Ippodromo delle Capannelle che mi ricordo, all’improvviso, degli ultimi giorni, tristissimi e irrecuperabili, di Ludwig Wittgenstein a Storeys End. Il pensiero cade da qualche punto del tempo proprio mentre finisco di canticchiare “the end of nights we tried to die”, accompagnato dal controcanto di Sara, che mi fuma a fianco, gli occhi fissi su un punto imprecisato dell’Appia Antica, oltre la campagna. Sara ha disdetto almeno due impegni improrogabili, per essere qui, con me, adesso. Ma credo non potesse fare altrimenti: visto che lei, all’inizio degli anni Ottanta, la cameretta tappezzata di copertine di Strange Days e Waiting for the Sun, è stata davvero la fidanzata di Jim Morrison.

È da ore che ci ripetiamo «Stiamo andando al concerto dei Doors»: ed è incredibilmente vero, almeno da un punto di vista formale. Visto che stasera suoneranno “Ray Manzarek and Robby Krieger of The Doors”, come recita – referenziale e spietata – l’intestazione sui biglietti verdi d’ingresso. Siamo talmente eccitati da aver condiviso l’esperienza in arrivo con il tabaccaio sottocasa, poco prima di prendere l’auto. Lui ha sgranato gli occhi, ha alzato la manica della maglietta fino a trasformarla in una canottiera alla Brando. Solo per mostrarci un tatuaggio astratto e un verso a spirale intorno. “Before I sink into the big sleep I want to hear the scream of the butterfly”. La richiesta di When the Music’s Over incisa più o meno per sempre sul bicipite destro.

Quello che m’ha affascinato, quando ho letto dell’arrivo a Roma dei due ormai inseparabili settantenni, ritratti in una posa di scena che ne denunciava, da subito, il presente ineludibile di rughe e di capelli bianchi, è stato il senso di ‘prosecuzione testarda dell’arte’. La spietatezza dei numeri dice 73 anni per Manzarek e 66 per Krieger: nelle foto il chitarrista di Spanish Caravan porta con sé tutto il peso dei viaggi trascorsi; mentre il tastierista zen somiglia ormai a un attempato vecchio zio fricchettone che si porta benissimo gli anni che dimostra.

Manca Jim Morrison, evidentemente. Morto giovane e bellissimo da più di quarant’anni. Il suo posto dovrebbe essere preso, in questo concerto sull’Appia a pochi chilometri dalla mia adolescenza – parcheggiando, i Castelli Romani esplodono nella stessa veduta che c’è dal balcone della sala da pranzo dei miei – da Dave Brock, il cantante dei Wild Child, una tribute band che ho visto per ben due volte. Vent’anni fa. Nel ricordo, il leader – allora ventenne, dall’innegabile somiglianza e fisica e canora con il Re Lucertola – si muoveva con la stessa gestualità di Morrison, imitando Morrison, sentendosi a tal punto Morrison da far pensare a un’incipiente crisi d’identità da cui non si sarebbe più ripreso. Ora canta le canzoni dei Doors con i Doors. A perseverare di sogno in sogno, alle volte si sguazza dentro quello fondamentale senza accorgersene. Tutto sta a capire qual è il sogno.

Manca John Densmore. Il batterista cresciuto a Bach e a Beethoven che non ha mai voluto accettare compromessi, sulla band; o su Jim. Tanto da opporsi, sempre, alla commercializzazione pubblicitaria delle canzoni del gruppo. Fino a inibire legalmente l’uso puro e semplice del nome The Doors al Duo in visita. “Se torna Jim, torno anch’io”, ha detto in un’intervista recente.

Anche se questo non gli ha impedito, nel 1971 e nel 1972, di compartecipare delle autobiografie trasposte di Robby Krieger in Other Voices (“Well I’m tired, I’m nervous, I’m bored, I’m stoned”) e dei misfatti straordinari di Full Circle (chi può dimenticare i versi “No me moleste mosquito. Let me eat my burrito”?).

Ma, ora che con Sara sfiliamo lungo i muretti dell’Ippodromo – la mia camicia bianca, a casacca, indossata per l’occasione, mi rende ridicolmente complice di tutti gli sguardi dei co-camiciati che incontro – continuo a interrogarmi sulla nostra presenza qui. E su Ray & Robby. Che, tra le altre cose, condividono anche l’acronimo stesso di rock ‘n roll. Quasi un crisma obbligato per due leggende della musica.

Per un momento, mi dico. Dimentichiamoci della necessità di soldi (che comunque, per chi ricava diritti anche solo dall’esecuzione planetaria quotidiana di Roadhouse Blues, non dovrebbero essere un problema). Dimentichiamoci il più che quarantennale antagonismo e la volontà di rivalsa sul mito Morrison di Manzarek e Krieger. Tra l’altro, quest’ultimo, l’autore di Light My Fire. Chi se ne ricorda? Ma soprattutto: avrebbe davvero scritto l’inno di una generazione in fiamme, Robby Krieger, se non avesse suonato nei Doors di Jim Morrison? Ecco. Dimentichiamoci di questo; e del narcisismo di fondo, ineludibile. Davvero, cosa resta?

È quello che sto cercando di capire, mentre sotto il palco, a una decina di metri dagli strumenti già preparati, gli sbuffi di fumo di prova che precedono tutti i concerti rock, siamo adottati da un gruppo di ventenni (la maggioranza: ora e anche dopo, tutti riverberanti la luce di leggenda in pelle nera stampigliata da mezzo secolo su magliette e poster). Uno di loro ha un tatuaggio, bellissimo, di un Jim-Cristo in primo piano. Con noi, anche un coetaneo quarantenne che sfoggia il suo, di tatuaggio. Alza la maglietta e mostra i primi accenni di adipe insieme con un Morrison a braccia tese. Ma il tatuaggio è obiettivamente meno bello dell’altro, sicché sorridiamo in silenzio.

I ventenni si chiamano tra loro tutti Ruggero, per un qualche gioco privato che ci sfugge ma che li diverte tantissimo. Attilio, nato “nel gennaio del 1991” e “un figlio a casa”, mi chiede se sono mai stato a Père Lachaise, sulla tomba di Morrison. Jim Morrison è il Dioniso assolato le cui lune siamo venuti tutti a vedere, stasera. E io mi rendo conto che la prima volta che ci sono stato, a Parigi, a Père Lachaise, mancavano sei mesi alla nascita di Attilio.

Sara rivaleggia con Tiziana, della nostra stessa età di mezzo. Tiziana le ha appena detto, ridendo, di essere stata anche lei fidanzata con Morrison, a dodici anni. Sara la fissa, seria, e ribadisce una primazia. «Sì ma io ero fidanzata-fidanzata». Ed è in quel momento di rivelazione che, salutato dai boati increduli della piccola folla a ridosso del palco, arriva Robby Krieger. Un’improponibile, straziante maglietta arancione, perfeziona il soundcheck e saluta. Sembra l’involucro un po’ raggrinzito dell’altro Krieger: e mi commuove, questa leggenda caparbia che sfida il suo stesso tempo per ribadirsi, ancora, su un palco. Mentre va via di schiena mi accorgo che ha gli stessi movimenti lenti di mio padre quand’è stanco. Pochi minuti dopo, al telefono con Silvia, la sorella di Sara, dirò, folgorato – e senza nessuna ironia – di averlo trovato incredibilmente somigliante all’Isòla, un’amica di mia nonna. E mi commuoverò ancora, per questo.

Tanto che quando il concerto inizia, due ore dopo: e arriva Manzarek – i gesti di pace di chi li ha molto fatti, nel corso della vita – e comincia a cantare Dave Brock: Roadhouse Blues, Break on Through, Five to One, Peace Frog, un universo di capolavori cui lui presta una voce e un viso ormai attempati: tutto mi sembra già concluso. L’emozione per la leggenda si assomma all’emozione di sentirla dal vivo, quella musica là. Ed è su Alabama Song, incredibile mistura di Brecht (un tempo) e di applausi a tenere il tempo (Brock, stasera, in un gesto totalmente a-morrisoniano) che mi dico che il concerto potrebbe anche finire, adesso. Che quello che cercavo mi s’è rivelato in un sorriso di Krieger e in una camminata stenta verso il retropalco. Quello che c’è stato rimane, mi dico. E se si è particolarmente bravi – la bravura dei prestigiatori accorti – si trasforma in una specie di magia che non ha nulla a che vedere con il vittimismo risentito, o con il rimpianto di sé. Ma quando credo di aver trovato uno dei possibili sensi alle mie domande, al perché vero di uno sfilacciamento artistico oltre ogni limite massimo, ecco che mi becca felice, abbracciato a Sara, tutt’e due sudati come fossimo usciti da un qualche eden tropicale di fortuna, il riff di Light my Fire che ci esplode dentro e intorno. E qui, sì, la folgorazione di un epilogo lungo. Il senso del bis; e dell’ancora una volta. La reiterazione magica che esigono i bambini con le fiabe. La necessità di non smettere, mai, e di ripetersi senza sbavature o errori: per fermare il tempo in un modo che renda felici, ed esausti. Così resto qui, senzavoce, a scandire one more song, one more song, a un’anziana coppia di miti che si rifiutano, davvero si rifiutano, di suonarci The End. E ci lasciano sospesi, sorridendo.

Senza spegnere le luci sul palco. Qualcosa vorrà pur dire.

Commenti
3 Commenti a “Stiamo andando al concerto dei Doors”
  1. Federico ha detto:

    Ok, bello. Ma le altre ventidue cartelle quando le pubblichiamo? 🙂

  2. Francesco Gallo ha detto:

    Ma quante volte dobbiamo ripeterlo?
    Fuori “JazzRuzalem”!

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