Troppa importanza all’amore: i racconti di Valeria Parrella

RENE-AUBRY-02

È in libreria Troppa importanza all’amore, raccolta di racconti di Valeria Parrella edita da Einaudi. Pubblichiamo l’incipit del racconto Gli esposti ringraziando l’autrice e l’editore. (Immagine: Lorenzo Mattotti. Fonte)

Gli esposti

di Valeria Parrella

Le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.
Mt. 21.31

Prima della partita al San Paolo, l’immoto silenzio a cui tutte loro erano abituate si accresceva nell’attesa, nell’incredulità. Saliva dal di fuori, oltrepassava le mura di tufo, trafiggeva il San Sebastiano dell’affresco, lí sull’arco di ingresso, cosí come egli era trafitto. L’Abbadessa e le consorelle sentivano l’approssimarsi della partita salire dalle scale sdrucciole di quattrocento anni addietro, verso di loro, verso il chiostro umido. La città smetteva di affliggersi e la sospensione arrivava fin dentro le celle. Nessuno veniva a bussare al monastero né per portare offerte né per cercare preghiera. E neppure quelle vaghe marmitte di motorini sgangherati che sobbalzavano sul basalto della strada antica, neppure quei rumori remoti che dimostravano che lí fuori sí: c’era la città, tutta intera, tutta.

L’Abbadessa non vedeva oramai la città da vent’anni, avvolta dalla sua clausura. Ne aveva avuta qualche immagine dal finestrino del taxi, mentre andava in ospedale se l’ospedale non poteva venir da lei, oppure verso l’autostrada, quando erano partite per gli esercizi spirituali presso il monastero delle Clarisse di Assisi. Eppure l’Abbadessa quella città la vedeva tutta: la sentiva articolarsi attorno a lei per i vicoli profumati di candeggina, le ante dei bassi spalancate come bocche aperte sulla faccia dei palazzi terremotati. L’Abbadessa ricordava e vedeva, e un poco ricostruiva con internet, che se Dio aveva pensato di mandare fin là dentro un motivo doveva esserci. Per questo l’Abbadessa sorrideva. Si era ritirata tardi, alla clausura, a vent’anni, quando proprio ora ne aveva quaranta.

Gli anni della sua doppia vita ora coincidevano e si chiudevano come le due parti della Bibbia. Metà vita era stata Silvia e l’altra metà Madre Pia. E nella prima parte di quel libro aveva vissuto a Ravello e studiato al liceo di Amalfi, e poi si era dedicata totalmente alla ginnastica ritmica. Quando allungava i tendini, recuperava una clava, avvertiva la nota d’attacco: Silvia era tutta nel suo corpo. La mente c’era, ma era servita prima, negli allenamenti. Ora lei la escludeva: doveva sentire e sentiva solo la caviglia tendersi, sentiva ed era i suoi muscoli dorsali che s’inarcavano, i quadricipiti che richiamavano le cosce al petto. Non guardava le compagne durante l’esecuzione, non ne aveva bisogno. La perfezione e l’incanto si costruivano da soli sul quadrato, come doveva essere per l’universo esploso dopo la Creazione. Ogni stella al suo posto a creare costellazioni, lei era una di quelle. Perché era una donna intelligente, e Ravello tutto l’anno brulicava di artisti e di stranieri, nella sua classe del liceo arrivavano continuamente ragazzi nuovi, che andavano via presto, figli di uno scià di Persia o di un attore di Hollywood. Cosí che la religione non era una sola, e anzi molti a Dio non ci credevano affatto.

Allora Silvia raccoglieva in sé tutte queste versioni e le costruiva insieme, e si era immaginata Dio motore immobile a dar energia al Big Bang proprio come lei doveva mettere in moto l’Aprilia, se voleva che quella andasse giú per la costiera, verso Atrani. Ecco perché dentro una radio, ora, sapeva riconoscere la perfezione di un gol, e dentro il monastero, ora, sapeva riconoscere una moto dalla marmitta. Bastava avere gli occhi della mente e del cuore.

Ma allora, quando aveva vent’anni, fu mentre scalava la marcia sull’ultima curva di Pontone che Gesú la chiamò. Proprio Gesú, non gli alberi, o Dio, o la Vergine, no no: proprio Gesú. Sí, c’erano gli alberi e Dio dietro le nuvole e le rocce a picco sulla costiera, ma Gesú la chiamò da un altro luogo: dal suo stesso corpo. Le scoppiò in petto un affanno che era una felicità, ma cosí grande ma cosí grande che si dovette fermare per guardarla tutta. E stava ferma, Silvia, sotto il pino mediterraneo, in piedi accanto alla moto e ancora con il casco calcato in testa. Davanti a lei guardava la felicità.

Sí, c’era una croce sullo spunzone di roccia: ma non era quello il segno. Il segno era alla bocca dello stomaco, le afferrava il cuore, la pancia e il petto assieme, e siccome aveva già vissuto vent’anni e una volta questa cosa qui l’aveva sentita già – non cosí forte ma la qualità del sentimento era proprio la stessa – allora fu costretta a dirselo: si era innamorata. E mentre lo ammetteva rideva, tutta emozionata, e si guardava nello specchietto per riconoscersi, cosí, ancora con il casco in testa, e in effetti si riconosceva.

© 2015 Valeria Parrella

Published by arrangement with Agenzia Letteraria Santachiara

© 2015 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Commenti
6 Commenti a “Troppa importanza all’amore: i racconti di Valeria Parrella”
  1. Dario Dessi ha detto:

    Behave=Comportarsi. Verbo intransitivo, l’azione non passa dal soggetto all’oggetto, non esiste un oggetto.

  2. Valeria ravagnani ha detto:

    Ma perché in questi racconti e’ bandito l’uso del congiuntivo? Non ricordo che in altri suoi libri succedesse ,almeno non in modo così generalizzato.

  3. Analia ha detto:

    Splendidi racconti, enorme Gli esposti,
    L’intelligenza della Parrella mai spoglia di umanità non delude mai, una scrittrice completa i
    l cui stile, ahimè non da tutti impartisce lezioni di scrittura. Stile, struttura, intreccio in perfetta armonia.
    Libro che consiglio vivamente.
    Analía ( Buenos Aires)

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