Capaci

Chiudi gli occhi, li riapri. Li richiudi, li riapri. Ancora. Allora amava i disastri. L’apocalissifilia propria di una generazione minore, la sua (la sua?), che non aveva mai subito traumi collettivi ma aveva fatto il pieno delle commemorazioni (quanti cazzo di valori vissuti dai padri e padri dei padri, resistenze, olocausti, sessantotti, femminismi, emancipazioni culturali… erano stati chiamati a celebrare), e allora questa generazione – assai assai memore, appunto – ha da sé sviluppato, per contrasto od orgoglio, un amore morbidissimo, addirittura sano, per le catastrofi. Cosa c’è di più bello di un treno che deraglia? A chi non andrebbe di aprire, per un gesto di grazia, di liberazione, il portellone di un aereo proprio al momento del decollo? Quante volte si era aspettato che così senza preavviso, dal cielo, venisse giù in picchiata un asteroide a forma di uovo o direttamente un autobus? Quante volte aveva accarezzato il sogno di un atto di distruzione, eroico, teatrale, gigante, o messo a punto la finzione dell’epopea di un anarchico bianco, di un folle esteta della rabbia, che fa esplodere piccoli ordigni, bombe carta, molotov, in mezzo alle campagne disabitate, per il puro piacere della detonazione, del deflagrare della materia da se stessa? Ed ecco. Che in quel momento la televisione compensava questo desiderio di poter cambiare la storia, o di atterrarla, semplicemente portando uno shock sismico alla materia degli eventi, mostrando a lui e a tutti la versione nazionalpopolare della scena finale di Zabriskie Point. Il montaggio alternato e sovrapposto dei gelidi palazzi nel deserto fatti saltare in aria negli ultimi fotogrammi del film lasciava ora lo spazio del suo immaginario, coattivamente, a un’autostrada trasformata in un piccolo vulcano. Il deserto americano, soffice, dipinto a colori acidi, diventava ora – in una sorta di scena finale accudita nel grembo per anni –, adesso in televisione, sulla rai tv, Il Quadro Sbagliato, un paesaggio ritratto con dettagli e toni cromatici completamente toppati. Le automobili rovesciate, piegate e squartate a metà, ghigliottinate, la lamiera accartocciata in carta crespa, la pozzolana sparsa a pioggia dovunque, il guardrail contorto come una curva dello spaziotempo. Anna dall’altra parte del telefono ansimava e diceva: “Io se sto qua a Roma divento completamente pazza, lo so. Lo so”.
La televisione, più dei suoi genitori, sapeva come gestire tragedie di questo tipo, l’aveva imparato una decina d’anni prima con il bambino caduto nel pozzo e adesso con maestria lasciava trasparire l’odore del dolore appena cominciato. Gli echi primordiali di ambulanze che parevano a pile scariche, sirene di polizia in sovrapposizione di onda con quelle dei carabinieri e dei vigili del fuoco, doppler confusi a voci di megafono, grida e sgommate di macchine, le sonorità del disastro, i fumi residui, le persone che solcavano i montarozzi di terreno esploso appena formati in qualità di insetti, inutili e inermi – presenze arrivate, come tutti, dopo.
Il corpo del giudice, di quest’uomo del sud coi baffi alla Amedeo Nazzari già congelato nella foto in sovrimpressione sulle immagini in diretta, e i corpi della moglie e dei tizi della scorta erano stati appena estratti dal cumulo, ed erano morti, chi proprio lì, chi in ambulanza, chi su una barella di ospedale. La terra che aveva assorbito il calore del tritolo adesso lo rilasciava gradualmente deformando la composizione dell’atmosfera come i contorni di un incendio – questo era ciò che si vedeva. La polvere che si era sollevata fino a cinquanta, cento metri, ora ricadeva, e lentamente, mortalmente, ritornava al suo luogo originario. Mentre il fiato corto dei commentatori – i giornalisti sempre e ovunque – sommergeva già la semplice vista con le parole appropriate da pronunciare: apparivano buoni, dei chierichetti, di fronte al male assoluto.
Lui era attratto dalla scritta sopra il cratere. Capaci. Gli sembrò una firma gentile, ironica. Alcuni individui erano stati capaci di quello. Lo avevano fatto e lo rivendicavano da subito. Un esperimento di fisica riuscito bene. Suo padre sul divano si stringeva, si era andato a prendere un bicchiere d’acqua o la beveva a piccolissimi sorsi, provando forse in quei momenti l’unico sentimento che fosse in grado di destabilizzarlo, il terrore per il futuro.
Telefonò a Marco (quando rispondeva al telefono avevi sempre l’impressione che fosse appena risorto da un’ipnosi): “Hai visto hanno fatto un attentato a Falcone?”.
“Mi stavo facendo un bidé”.
“Marco, hanno ucciso Falcone il giudice, accendi la televisione! Mi ha chiamato Anna per dirmelo!”.
“Mo’ vado”.
“Ma non te ne frega un cazzo?”
“…”
“Non te ne frega un cazzo?”
“Eh?”
“Marco!”
“Non ne ammazzano tanti…?”
“…”
“…”
“Ma che cazzo stai a di’!”.
“Che fine vuoi che facesse? Che fosse assunto in cielo?”

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