Il paradiso dei gatti

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È uscita da poco Gatti – I racconti più belli, antologia pubblicata da Einaudi dedicata ai felini, con storie di Balzac, Doris Lessing, Luigi Pirandello, Charles Perrault e tanti altri.  Il libro è curato da Christian Delorenzo, con una prefazione di Mauro Bersani: ringraziando l’editore, vi proponiamo le prime pagine di un racconto inedito in Italia di Émile Zola, nella traduzione di Christian Delorenzo (fonte immagine).

Il paradiso dei gatti

di Émile Zola

Una zia mi ha lasciato in eredità un gatto d’Angora, la bestia piú stupida che conosca. Ecco ciò che questo gatto mi ha raccontato una sera d’inverno, davanti alle braci del camino.

1.

All’epoca avevo due anni, ed ero il micio piú grasso e ingenuo che si potesse vedere. Per via della tenera età facevo il presuntuoso, facevo quello che disprezza le comodità del focolare. Eppure quanto avrei dovuto ringraziare la Provvidenza per avermi sistemato da vostra zia! Quella santa donna mi adorava.

Avevo, in fondo all’armadio, una vera e propria cameretta: un cuscino di piume con tre strati di coperte. Il vitto era all’altezza dell’alloggio: niente pane, niente minestra; solo carne, ottima carne al sangue.

Ebbene, nonostante questi piaceri, avevo un solo desiderio, un solo sogno: sgusciare attraverso lo spiraglio della finestra e scappare sui tetti. Le carezze le trovavo insulse, quel letto cosí morbido mi nauseava, ero talmente grasso da farmi ribrezzo. E mi annoiava passare le giornate a essere felice.

C’è da dire che, allungando il collo, avevo visto, dalla finestra, il tetto di fronte. Quel giorno quattro gatti si azzuffavano, con il pelo dritto e la coda alta, rotolando sulle lastre azzurre d’ardesia sotto un bel sole, tra imprecazioni di gioia. Non avevo mai assistito a uno spettacolo così sorprendente.

È stato allora che mi sono convinto: la felicità vera si trovava su quel tetto, oltre la finestra chiusa con cura; la stessa cura – mi dicevo a riprova – con cui gli umani chiudevano le porte degli armadi per nasconderci la carne.

Fu cosí che progettai di andarmene. Nella vita doveva esserci qualcosa di diverso dalla carne al sangue. C’era l’ignoto, l’ideale. Un giorno la finestra della cucina fu dimenticata aperta. E io saltai sul piccolo tetto che si trovava là sotto.

2.

Com’erano belli i tetti! Li fiancheggiavano ampie grondaie dai profumi deliziosi. Percorsi con voluttà quei piccoli canali, dove le mie zampe sprofondavano in una fanghiglia sottile, di un tepore e una dolcezza infiniti. Mi sembrava di camminare sul velluto. E al sole faceva un bel caldo, un caldo che mi scioglieva il grasso.

Non ve lo nascondo, tremavo tutto. Nella mia gioia c’era anche spavento. Ricordo soprattutto di aver provato una forte emozione, e poco mancò che non ruzzolassi sul selciato. Tre gatti, corsi giú da un tetto, mi vennero incontro miagolando orribilmente. Ebbi un mancamento, e loro mi trattarono da stupido: volevano solo scherzare, dissero. Mi misi a miagolare anch’io, era stupendo.

Quei fusti non avevano un filo del mio stupido grasso addosso. Mi prendevano in giro perché rotolavo come una palla sulle placche di zinco, scaldate dal sole a picco. Al vecchio della banda stavo particolarmente simpatico. Si offrì di farmi da maestro, e io accettai con gratitudine. Quant’erano lontane le squisitezze di vostra zia! Bevvi alle grondaie: il latte e zucchero non mi era mai sembrato tanto dolce. Tutto mi pareva buono e bello.

Passò una gatta, una gatta incantevole, e vedendola fui colto da un’emozione sconosciuta. Solo nei miei sogni avevo incontrato creature simili, con una schiena cosí meravigliosamente flessuosa.

Io e gli altri tre ci precipitammo verso la nuova venuta. Ero davanti a tutti, stavo per porgerle i miei omaggi, quando uno dei miei compagni mi morse ferocemente al collo. Gridai di dolore.

– Be’, – disse il vecchio gatto portandomi via, – ne vedrai
molte altre.

3.

Dopo un’ora di cammino, avevo una fame atroce.

– Cosa si mangia sui tetti? – chiesi al mio amico.
– Quel che si trova, – fece lui con aria dotta.

Quella risposta mi mise a disagio perché, per quanto cercassi, non trovavo nulla. Alla fine scorsi, in una soffitta, una giovane operaia che si preparava il pranzo. Sul tavolo, sotto la finestra, si stagliava una bella braciola, di un rosso appetitoso. «Ecco quel che fa al caso mio», pensai con grande ingenuità.

Saltai per afferrare la braciola, ma l’operaia, che si era accorta di me, mi colpì con la scopa sulla schiena. Fu terribile. Lasciai il boccone e scappai, lanciando un’imprecazione spaventosa.

– Ma dove vivi? – disse il vecchio gatto. – La carne sui tavoli è fatta per essere desiderata da lontano. Bisogna cercare qua e là, tra le grondaie.

Non riuscivo a capacitarmene: perché la carne da cucina non doveva appartenere a noi felini? La mia pancia cominciava a essere seriamente irritata. Il vecchio gatto mi diede il colpo di grazia dicendo di aspettare la notte.

Allora saremmo scesi in strada, per rovistare tra i mucchi di rifiuti. Aspettare la notte! Aveva un tono tranquillo, da filosofo abituato a certe cose. Io, al pensiero del digiuno prolungato, mi sentivo svenire.

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