Le elezioni americane più atipiche della storia

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(nella foto, l’attore Jimmy Fallon impersona Donald Trump durante uno sketch con Hillary Clinton)

Il primo febbraio, con le primarie in Iowa, cominciano ufficialmente le elezioni presidenziali negli Stati Uniti.

Jon Meacham, premio Pulitzer e vice presidente di Random House, nell’ultima puntata dello show di Bill Maher sulla HBO, ha sostenuto che per la prima volta nella storia delle presidenziali americane la riduzione al common sense nella quale le varie spinte apocalittiche hanno storicamente confluito non si verificherà e questa volta il centro non sarà in grado di reggere.

Effettivamente i sondaggi parlano di un Donald Trump strafavorito tra i repubblicani e di un Bernie Sanders in ascesa in campo democratico nonostante la blindatura di Hillary Clinton sulla nomination.

Saranno in ogni caso le elezioni presidenziali più atipiche della storia degli Stati Uniti.

Repubblicani

Il riferimento nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 ai diritti inalienabili dell’uomo come derivazioni verticali dal Creatore ha di fatto conferito ai documenti fondativi della nazione lo status di veri e propri testi ispirati e pertanto, al pari di ogni altro libro sacro, virtualmente inemendabili.

A partire dagli anni Ottanta con l’endorsment della destra religiosa a Ronald Reagan -nell’ultimo decennio assunto al grado metafisico di sigillo dei profeti dall’establishment repubblicano – e poi ancora con il geniale Karl Rove che, per spostare l’attenzione dalle falle dell’amministrazione nel prevenire gli attentati dell’11 settembre, impostò nel 2004 la rielezione di Bush jr sulla chiamata alle urne degli evangelici contro Darwin nelle scuole, l’originale Dio di Natura liberomassone dei padri fondatori si è via via trasformato in un Gesù Cristo decisamente più mondano, telegenico e interessato alla vita politica americana.

Si è arrivati così a una vaga ma forte identificazione tra democrazia e religione, ritualizzata nel God bless obbligatorio alla fine di ogni discorso pubblico, per cui è Gesù, il Gesù vivente, a fare da garante per il secondo emendamento o ad advocare lo small government.

Pensare di negare questa identità tra divinità e libertà individuale, intesa come totale deregolamentazione del vivere comune, è semplicemente impensabile per qualsiasi candidato repubblicano. Nella declinazione del Cristianesimo americano è la stessa divinità, incarnatasi nella Costituzione del 1787, a farsi custode del diritto di girare con una mitragliatrice, giustiziare i detenuti, pagare il meno possibile di tasse o picchiare i figli (durante un comizio di Trump in Nevada, un ospite chiamato sul palco ha rivendicato con orgoglio l’educazione manesca della prole ricevendo applausi scroscianti).

In questo modo, un milionario newyorkese al terzo matrimonio con la seconda modella esteuropea, si ritrova primo nei sondaggi in Iowa tra i fanatici della destra evangelica, solo evocando il più americano degli scenari: un maschio bianco con il fucile di fronte alla fine del mondo.

Dei diciassette candidati alle primarie repubblicane solo in due, il governatore dell’Ohio John Kasich e l’ex governatore della Florida Jeb Bush (rispettivamente 2,8% e 4,8% nei sondaggi su scala nazionale), sono su posizioni moderate se non in senso assoluto almeno rispetto agli altri candidati tra i quali c’è chi propone il divieto di ingresso ai musulmani nel paese (Trump, 34,6%), la costruzione di un muro lungo il confine Messico-USA (Trump), la pena di morte automatica per chi uccide un poliziotto (Trump) o la proibizione dell’aborto anche in caso di incesto o stupro (Cruz, 18,8%; Carson, 8,4%).

Questo conformismo di massa dei candidati repubblicani verso le posizioni della destra apocalittica ha almeno quattro cause:

  • Una parte consistente dell’elettorato repubblicano ha vissuto come un’umiliazione gli otto anni di un presidente che cinquant’anni prima avrebbe dovuto lasciarle il posto sull’autobus. Lo slogan Let’s take our country back va inteso (to the 50s).
  • Nelle elezioni del 2008 il partito repubblicano pensò di allargare il bacino elettorale mobilitando l’intestino più basso del paese con la candidatura alla vicepresidenza, in ticket con il moderato John McCain, della governatrice dell’Alaska Sarah Palin, già al tempo impresentabile ma negli anni protagonista di interventi pubblici del tenore di episodi psicotici. Da allora la destra razzista/paranoide del Tea Party è riuscita ad approfittare del dito allungato dal partito per prenderne possesso del braccio. In poche parole se ancora non comanda direttamente lei, comanda la sua retorica.
  • Gli Stati Uniti sono in una fase di allargamento delle libertà civili, il matrimonio gay è stato riconosciuto dalla Corte Suprema come una legge federale, sempre più stati ammettono l’uso ricreativo della marijuana e sospendono de facto la pena di morte. Parallelamente si è andata sensibilizzando la membrana del politically correct per cui ogni riferimento offensivo nei confronti di una qualsiasi minoranza è duramente ripreso dagli ambienti liberal, fino ai parossismi più isterici come la contestazione contro il rettore di Yale per le maschere da nativo americano indossate da alcuni studenti a Halloween. La libertà di espressione di una volta è caduta in una specie di trappola: negli Stati Uniti di oggi si può marciare in uniforme nazista ma non ci si può rifiutare di decorare la torta per un matrimonio gay.
  • Se da una parte Obama ha miracolosamente risollevato l’economia americana dall’abisso della recessione, in politica estera è stato quantomeno sfortunato sia nel suo interventismo riluttante e disordinato e intempestivo sia nel suo attendismo, dilapidando progressivamente il credito acquisito con l’uccisione di Bin Laden. La Russia ha approfittato del campo libero in Siria e gli effetti della recente riconversione della politica mediorientale americana, con il disgelo verso l’Islam sciita, sono ancora tutti da scoprire. Il mondo di oggi non è più a misura di America e ciò lo rende più pericoloso per l’americano col fucile.

Trump

L’establishment repubblicano non vuole che Donald Trump vinca le primarie. Persino i grandi vecchi della Fox come Bill O’Reilly o Glenn Beck gli stanno remando contro. In un sistema così oliato e interdipendente di lobby e politica, un outsider rappresenta un problema perché va ridiscusso un intero equilibrio di potere vecchio di decenni. A fidarsi dei sondaggi, sembra proprio che una soluzione dovrà essere trovata, a meno che il partito non punti unito verso un candidato che tuttavia ancora non riesce a emergere (Marco Rubio?).

Guardare un comizio di Donald Trump è un’esperienza ottundente, dopo un’ora ad ascoltare rimane in testa solo confusione. Sono discorsi del tutto irricevibili, collage di frasi brevi scollegate tra loro che si perdono in vicoli ciechi. Metà di un discorso lungo un’ora lo dedica a vantarsi dei propri numeri nei sondaggi, della propria sterminata ricchezza personale (in realtà tutta da dimostrare), del grande amore che riceve dalla gente, del successo del suo reality The Apprentice e del suo libro The art of the deal. Tutto ciò in modo molto scombinato, spezzettato: fa molte smorfie, apre milioni di parentesi. Poi dà delle canaglie ai giornalisti e degli stupidi agli avversari. Ogni tanto recita dei mantra: “Cina e Messico ci stanno uccidendo”, o promette generiche riscosse senza specificare come: “Con me vinceremo così tanto che vi stancherete di vincere”. Si tira i capelli per dimostrare che non porta il toupet.

Si vanta di non usare il teleprompter e di andare a braccio e la sua incapacità di elaborare un discorso compiuto incontra felicemente l’incapacità di mantenere l’attenzione del suo pubblico che aspetta la frase a effetto per sbracare, un po’ come da noi si sopportavano gli sproloqui berlusconiani in attesa del “Comunisti!” che avrebbe acceso i cuori.

Quindi niente a che vedere con i sermoni emozionanti e sbobinabili del pastore protestante Obama: nei discorsi di Trump non c’è struttura, non c’è climax, la frase a effetto è nell’aria e può erompere in qualsiasi momento. I discorsi di Obama erano costruiti per strati sovrapposti, accumulavano una tensione che veniva giocata tutta negli ultimi cinque minuti, quando alzava il volume della voce e salmodiava ed elevava gli spiriti. Era un’esperienza religiosa protestante in senso storico.

La cifra dell’esperienza religiosa trumpesca è invece evangelica nel senso della chiesa come crocevia caotico in cui ognuno è libero di cadere in trance, di parlare in lingue e nessuno è obbligato ad ascoltare.

Ma il vero talento di Trump – e la vera analogia con il nostro migliore Berlusconi al di là dei miliardi e della dialettica povera e del mistero voluttuoso dei capelli (nel suo caso un riporto esoterico a quadernino ripiegato) – è quello di scegliersi il terreno dello scontro. Dall’annuncio della sua candidatura ha immediatamente dettato l’agenda dei dibattiti (Messico, Cina, musulmani) costringendo gli avversari sulla difensiva. Con una mossa geniale ha cancellato dalla corsa Jeb Bush, sul quale le lobby avevano investito in massa, semplicemente trasferendo lo scontro dal piano dei contenuti a quello della biopolitica, dandogli del low energy. Da quel giorno il povero Bush, un distinto conservatore della migliore aristocrazia repubblicana, lotta quotidianamente, lontano dalla scena, per dimostrare di non essere moscio. Fa una tenerezza incredibile.

Tutto ciò non sarebbe in ogni caso possibile senza la sinergia con il sistema mediatico che, nella sua furiosa, allucinata missione di far perdere senso al mondo (o di sostituirlo con uno nuovo basato sulle visualizzazioni), si è letteralmente innamorato di Trump, ne asseconda e accredita, tra le risatine isteriche, qualsiasi sparata, e non vede l’ora che ne dica una più grossa.

I democratici

In una qualsiasi altra democrazia queste elezioni non avrebbero storia. Obama ha assunto la presidenza durante la peggiore recessione dal 1929 e in otto anni ha creato quasi 8 milioni di posti di lavoro, portando il tasso di disoccupazione dal 10% del 2009 all’attuale 5%. L’industria dell’automobile che nel 2008 era praticamente fallita adesso viaggia a ritmi di crescita del 20%. La produzione di petrolio è aumentata di quasi il 90%. Con la riforma del sistema sanitario 18 milioni di persone, finora scoperte, hanno adesso un’assicurazione.

Di fronte a questi dati non c’è da stupirsi se Trump abbia impostato la sua campagna elettorale sull’emergenza immigrazione dal Messico, emergenza tra l’altro fantasiosa visto che dal 2009 i messicani che hanno fatto ritorno in Messico sono 14000 in più rispetto a quelli emigrati nello stesso periodo verso gli Stati Uniti.

Eppure l’irrazionalità umorale che regola tanto i destini personali quanto quelli delle nazioni ci dice che questo novembre Hillary Clinton non si porterà la vittoria da casa, e paradossalmente proprio per la sua continuità con la presidenza Obama.

La Clinton, oltre a rappresentare uno dei volti del fallimento della strategia globale americana per i suoi quattro anni da dimenticare come Segretario di Stato, paga infatti l’assenza di una propria narrazione: nei suoi comizi non ha una storia da raccontare, né un’America bianca da terrorizzare; non ha un nemico da combattere e nessuna fine del mondo da anticipare.

L’unica carta che può giocarsi in un orizzonte di discontinuità con l’esistente è la prospettiva di essere il primo presidente donna (ma pur sempre il secondo presidente Clinton), per quello che questa prospettiva può evocare, ancora nel 2016.

Al contrario Bernie Sanders si è fatto portavoce del famoso 99% degli americani affamati dall’1%. Ha in mente una rivoluzione, ovvero trasformare gli Stati Uniti in una democrazia scandinava: redistribuire la ricchezza, demilitarizzare la nazione, chiudere le banche di investimento, istituire la sanità pubblica, rendere il college gratuito. Raccoglie consenso tra i giovani di Occupy Wall Street ma meno tra gli afroamericani dato lo scarso feeling in America tra la comunità nera e quella ebraica.

Ovviamente è fantascienza pensare a un senatore ebreo che si definisce un “democratico socialista” come candidato presidenziale credibile ma per adesso Sanders continua a raccogliere dollari, è avanti in New Hampshire e sta pressando da sinistra Hillary costringendola a prendere posizioni più laterali rispetto al centro che è la sua vera comfort zone.

Conversione al centro

È di qualche giorno fa la notizia che l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg potrebbe partecipare come candidato indipendente alle elezioni, ricordando la candidatura di Ross Perot nel 1992, quando impedì a Bush sr la rielezione sottraendogli i voti necessari.

La storia potrebbe ripetersi nel 2016 nel caso in cui Bloomberg erodesse i voti di Trump, facendo vincere una nuova Clinton.

O magari si verificherà davvero quella convergenza degli opposti e gli Stati Uniti avranno infine un presidente miliardario come (e molto più di) Trump, ebreo come Sanders e nativo di quel centro che per il momento Hillary non può permettersi di occupare.

Top 5

 Nello spirito delle risatine isteriche, i cinque momenti finora più divertenti della campagna elettorale per le primarie:

  1. Trump che usa le scale mobili in discesa per andare a fare il discorso di annuncio della candidatura in cui darà degli stupratori ai messicani.
  2. La reazione di Lindsay Graham dopo che Trump ha reso pubblico il suo numero di telefono durante un comizio.
  3. Trump che dimostra come sia impossibile che il coltello che a 14 anni Ben Carson (il neurochirurgo sotto Lorazepam che per qualche oscura ragione a inizio novembre è stato il front runner repubblicano) ha tentato di conficcare in pancia a un amico si sia spezzato colpendo la fibbia della cintura di quest’ultimo.
  4. Carson che conferma non senza amor proprio la circostanza di cui sopra nonché di avere inseguito la madre con un martello.
  5. Il backstage del video elettorale in cui l’anguillesco ultraconservatore Ted Cruz (testa a testa in Iowa con Trump) riceve indicazioni su come abbracciare i propri cari.

 

Commenti
Un commento a “Le elezioni americane più atipiche della storia”
  1. RobySan ha detto:

    “La Clinton, oltre a rappresentare uno dei volti del fallimento della strategia globale americana per i suoi quattro anni da dimenticare come Segretario di Stato, paga infatti l’assenza di una propria narrazione: nei suoi comizi non ha una storia da raccontare, né un’America bianca da terrorizzare; non ha un nemico da combattere e nessuna fine del mondo da anticipare.”

    Sembra la meno squinternata di tutti, ma senza la benedetta narrazione[*] avrà qualche possibilità?

    [*]: non si può più vivere senza una narrazione: toglietemi tutto, ma non la mia narrazione!

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