Di cosa parliamo quando parliamo d’Europa: ancora su “Francofonia” di Sokurov

Questo pezzo è uscito su Lo Straniero

di Nicola Lagioia

Di cosa parliamo quando parliamo d’Europa?

È questa una delle domande che più risuona nella testa dopo aver visto Francofonia di Aleksandr Sokurov, uscito in quel 2015 che (tra crisi greca, populismi, emergenza migranti, terrorismo, deficit democratico, mancanza di una seria leadership) ha mostrato più ancora degli anni precedenti l’avvilente crisi d’identità di cui soffre il Vecchio continente.

Ancora l’arte, di nuovo un museo. Francofonia, tutto incentrato sul Louvre e sul racconto di come i suoi tesori vennero salvati durante la II guerra mondiale, potrebbe far pensare a un seguito di Arca Russa. Lì c’era l’Hermitage di San Pietroburgo, raccontato in quattro dimensioni (l’esplorazione degli spazi espositivi era anche un viaggio verticale nel tempo) attraverso un unico stupefacente piano sequenza. In realtà si tratta di opere distinte, o se si vuole Francofonia approfondisce, e di molto, il discorso cominciato con Arca russa, perché lì l’elemento contemplativo era dominante, mentre qui l’arte diventa rievocazione storica, ragionamento politico, riflessione filosofica per poi tornare al proprio nucleo irriducibile, dentro il quale sarebbe custodito un segreto sulla nostra identità di europei e occidentali (e forse persino di uomini tout court) che né la Storia né la filosofia riescono da sole a cogliere in pieno.

Ecco allora che in superficie Francofonia è il racconto di come, durante l’occupazione nazista, un cittadino francese (il conservatore del Louvre Jacques Jaujard) e un funzionario del Terzo Reich (il conte Franz Wolff-Metternich) abbiano collaborato per evitare che la follia della guerra divorasse tanti capolavori a cui anche l’identità di entrambi doveva tutto o quasi. Benché nemici nel più mostruoso conflitto che la storia dell’umanità abbia prodotto, Jaujard e Wolff-Metternich sentono (senza elaborarlo ideologicamente, e senza che Sokurov trasformi mai questa istintiva consapevolezza in manifesto o didascalia) che l’arte possiede qualcosa in grado di trascendere non solo la politica, ma anche la Storia, qualcosa che – benché sviluppatasi nel tempo storico, che è anche il tempo e i luoghi forgiati da quelle macchine del mondo che sono la politica, la guerra, la cultura – gli appartiene da prima ancora che l’uno o l’altro svolgano i propri compiti sotto una determinata bandiera o al servizio di un particolare paese.

In cosa consiste questa anteriorità dell’arte?

A un certo punto del racconto, mentre la cinepresa si aggira per il Louvre, la voce fuori campo di Sokurov riflette su come la cultura europea, a differenza dell’Islam iconoclasta, abbia sviluppato ad esempio un’ossessione per il ritratto. “Cosa sarebbe stata la cultura europea senza l’arte del ritratto?” La cinepresa si sofferma sui dettagli di volti realizzati da pittori rinascimentali, e mentre lo spettatore osserva un naso, un occhio, un’impercettibile piegatura delle labbra, viene in mente prima quel tortuoso percorso di conoscenza di sé che senza il cristianesimo sarebbe stato assai diverso (si pensi anche solo ad Agostino), e poi il vertiginoso avventurarsi in determinati coni d’ombra di cui a un certo punto si incaricò la psicanalisi, segnando insieme culmine e fine della modernità.

In quest’auto-osservarsi scintilla pericolosamente il delirio di onnipotenza (la tensione alla conquista e alla colonizzazione che è una delle malattie ontologiche del pensiero europeo), ma anche quel bisogno di conoscenza (che gioca a rimpiattino tra Faust e Galilei), quella forza compassionevole (Cristo), quel bisogno di nobilitarsi e nobilitare attraverso una restituzione di dignità (Marx), quel risplendere della ragione (l’illuminismo) che tutti insieme sono i punti cardinali dell’esperimento europeo, e che in equilibrio perfetto tra di loro – cariche positive in grado di neutralizzare le negative – darebbero vita addirittura a un ideale d’uomo in grado forse di valere a livello universale, e che l’arte non si limita a spiegare (come potrebbe fare il pensiero dei filosofi) ma prova, ne è per certi versi la dimostrazione.

Che cosa resta oggi di questo sogno?

Molti tradimenti e, di conseguenza, molte recriminazioni, sembra dire Sokurov. Per ammonirci sulla terribile amnesia di cui sembra essere vittima il nostro continente, il regista (ecco un altro motivo di interesse di questo notevolissmo film) cambia all’improvviso prospettiva, e guarda l’Europa con gli occhi di quella terra – geografica e spirituale – che da una parte le appartiene e dall’altra le dà le spalle, fuggendo verso un altrove che (a seconda di come la lezione europea risuoni o crolli su se stessa) potrebbe esserne la realizzazione utopica o il suo rovescio: vale a dire la Russia. È la Russia che, a costo di milioni di morti, liberò l’Europa dal nazismo. Ma anche la Russia di Dostoevskij, l’anima di un popolo che in ragione del suo splendore primitivo aveva forse la capacità di redimere il mondo intero. Per farlo, tuttavia, aveva bisogno che la sua sorella maggiore e insieme il suo faro (l’Europa e il pensiero europeo, che dà allo spirito una bussola e un completamento) splendesse su di sé. Se il faro dell’Europa smette di dare luce, anche la Russia perde la rotta. Il che, conclude Sokurov, è ciò che purtroppo è accaduto.

Un continente sviluppato su tesori inestimabili (se non precisamente l’arte, l’ineffabile di cui è dimostrazione e testimonianza) che negli ultimi decenni si ostina a reputarsi fondato solo su una banca, una moneta senz’anima, un apparato burocratico demenziale: ecco l’attuale perversione europea, da cui l’intero mondo dovrebbe sentirsi danneggiato. In attesa di un risveglio (e nella speranza che non sia, un’altra volta, troppo tardi) le opere del Louvre testimoniano che quello spirito esiste, manifesto nella rappresentazione artistica, ma semplice fantasma quando si tratta di incarnarsi in un motore della Storia, che – rispetto agli ideali che ci appartengono e da cui dovremmo sentirci mossi – nel XXI secolo sta girando a vuoto. Bisogna capire se all’Europa è sufficiente oggi trarre ispirazione dal “fantasma” per renderlo di nuovo reale e ritrovare se stessa.

Su questo, il film Sokurov ritiene di non poter offrire garanzie.

Commenti
2 Commenti a “Di cosa parliamo quando parliamo d’Europa: ancora su “Francofonia” di Sokurov”
Trackback
Leggi commenti...
  1. […] Sorgente: Di cosa parliamo quando parliamo d’Europa: ancora su “Francofonia” di Sokurov : minima&mor… […]

  2. […] Nicola Lagioia Di cosa parliamo quando parliamo d’Europa? […]