Una guerra non santa

ayehoshua

Ricordiamo il grande scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua con un pezzo di Luca Alvino uscito in origine su Nuovi Argomenti (fonte immagine).

È il 27 marzo 2010. Abraham B. Yehoshua ha appena terminato il suo discorso all’Auditorium di Roma in occasione di «Libri Come», quando un manipolo di contestatori inizia a gridare una serie di slogan filo-palestinesi:«free, free Gaza!»,«boycott Israel!». Lo scrittore non si lascia intimorire, anzi, si avvicina tranquillamente con mano tesa e sguardo aperto, e spiazza i militanti dicendo: «Why boycott? Change Israel!»; e si dichiara d’accordo con Abu Mazen sulla teoria dei due stati, e sull’ipotesi di Gerusalemme divisa in due, capitale di entrambi.

È lo stesso atteggiamento felicemente pragmatico dimostrato durante la conferenza appena conclusa, nella quale ha dichiarato (citando Gershom Sholem) che il Sionismo ha riportato il popolo ebraico dalla mitologia nella storia, specificando che la mitologia non può essere cambiata, ma soltanto interpretata,e che la storia, viceversa, ci aiuta a cambiare. A differenza della mitologia, infatti, che proietta la concretezza dell’esperienza nella verticalità dell’astrazione, la storia riconduce le coscienze nell’alveo di spinose coordinate spazio-temporali, costringendo gli individui a confrontarsi con un orizzonte, e dunque con dei confini territoriali sui quali possano incardinarsi identità e normalità, due dei valori più importanti per l’autore israeliano.

L’ebraismo della diaspora ha sempre concepito l’identità in maniera delocalizzata, non geografica, eminentemente culturale; e ha costantemente rifuggito la normalità come un’insidia, un pericoloso scivolamento verso le debolezze dei gentili che avrebbe come drammatica conseguenza quella di scalzare il popolo eletto dal suo posto privilegiato di eccezione nella storia. Il modo più semplice per offendere un ebreo – ha suggerito Yehoshua divertito durante la conferenza – è dirgli: «tu sei normale». La difficoltà di confrontarsi con la concretezza di concetti come identità e normalità – traslandoli da un contesto elevato di astrazione a quello effettivo (sebbene più banale) della vita quotidiana – è in gran parte responsabile dei problemi di integrazione del popolo ebraico con le popolazioni e le culture con cui è venuto a contatto, sia nei secoli passati – durante la diaspora – che al momento attuale –in territorio israeliano.

Yehoshua ha il merito di rivendicare in maniera veemente l’importanza di tali concetti, non imponendoli da un olimpo di valori assoluti, come una metafisica prêt-à-porter in grado di improntare l’universo a un posticcio ordine precostituito; ma distillandoli nella prassi quotidiana, nell’instancabile confronto fra le diversità. Più che alla definizione delle identità, egli lavora a una costruzione delle coscienze; più che alla denuncia delle diversità, a una prassi di confronto coraggioso, promuovendo con fermezza una sintonizzazione ininterrotta della sensibilità e caldeggiando un’apertura all’altro da sé continuamente rimodulata sull’evenienza, un tuning ostinato della condotta individuale.

In un saggio del 2006 incluso nel volume Il labirinto dell’identità, disquisendo circa la propensione ebraica ad analizzare le opere della tradizione come qualcosa di sacro, Yehoshua proponeva agli ebrei l’esegesi di testi differenti rispetto a quelli studiati solitamente:testi forse meno sacrali ma certamente più concreti, come il bilancio dello stato o le sentenze del tribunale. In altre parole, testi che avessero un’influenza diretta sulla vita quotidiana, che non fossero protetti da un’aura di intangibile preminenza, e – soprattutto –che potessero essere contraddetti dall’esperienza. Al «testo classico», infatti, «talmudico, biblico, mishnaico, cabalistico o filosofico», l’uomo può accostarsi solamente per vie laterali. Può provarsi a interpretarlo, ma non può metterlo seriamente in discussione, non può confutarlo, in quanto lo percepisce come un testo rivelato, caratterizzato da una trascendenza che gli impedisce di confrontarsi apertamente con esso.

Confutare un testo non significa necessariamente smentirlo, dichiararne l’inattendibilità; significa piuttosto prenderne possesso, saggiarne il potenziale di incarnazione, verificare la sua portata di concretezza, e dunque proprio di veridicità. Ciò che non può essere confutato neanche può essere avvalorato.

Con questa sua provocazione Yehoshua aveva l’ambizione di risvegliare il popolo eletto da uno stato di virtualità nel quale a suo avviso consiste l’elemento essenziale dell’identità ebraica. Ciò che ha consentito agli ebrei di custodire nei secoli il sentimento della propria unità – nonostante la diaspora e la dispersione tra popoli e culture profondamente differenti,se non ostili – è consistito nella loro capacità peculiare di virtualizzare componenti come il territorio o la lingua, indispensabili al mantenimento di un’identità, proiettandole «da una sfera nazionale attiva a una religiosa e rituale», ovvero investendo la sacralità cultuale di un potere che esula dalla specificità liturgica per acquisire connotazioni politiche e identitarie. Per sentirsi un popolo, gli ebrei della diaspora non hanno avuto bisogno di parlare l’ebraico nella loro quotidianità, né di risiedere tutti insieme nel territorio di Israele; per loro è stato sufficiente utilizzare l’ebraico nelle formule sacre e dichiarare ritualmente nell’Haggadah che l’anno successivo avrebbero fatto ritorno nella terra promessa. L’identità ebraica nasce durante la schiavitù d’Egitto, si rafforza nel deserto, si perfeziona nell’esilio babilonese.

La stanzialità in Palestina non è una condizione necessaria per garantire l’unità dei figli di Israele. Anzi, si direbbe quasi che gli ebrei siano riusciti a sentirsi popolo esclusivamente nella diaspora.La storia di Israele sembra concretarsi in una continua fuga dalla rigidità dei confini, come se l’elezione da parte dell’Onnipotente avesse sottratto definitivamente il suo popolo alla geografia per relegarlo in uno stato (soprattutto mentale,ma anche letterale) di ininterrotta migrazione. Rinunciare a tale peculiarità equivarrebbe a perdere l’alleanza con Dio:questo convincimento è penetrato nella coscienza collettiva ebraica a un livello antropologico più che religioso, trasformandosi in qualcosa a metà strada tra un motivo di vanto e una condanna.

L’approccio ermeneutico al testo rivelato – che ne impedisce una sostanziale confutazione e dunque rende impossibile qualunque possibilità di ipotizzarne una falsificazione – lo relega – popperianamente – nell’ambito della metafisica, ovvero tra ciò che non può essere dimostrato con pretesa di scientificità. Ciononostante, la passione ebraica per l’esegesi testuale implica una percezione aperta del testo sacro. Nella mentalità giudaica l’indimostrabilità non pregiudica le possibilità di analisi né di un’incessante discussione. A tale proposito, Amos Oz, in un opuscolo intitolato Contro il fanatismo, racconta un aneddoto divertente tratto dal Talmud. Due rabbini discutono animatamente sull’interpretazione da dare a una legge della Torah. Dopo sette giorni e sette notti di dibattito ininterrotto, Dio stesso, oramai esasperato,si sente in dovere di intervenire per porre fine alla controversia.Detentore supremo della verità,decreta dall’alto dei cieli a quale dei due santissimi uomini debba essere attribuita la ragione. Rabbi Tarfon, dichiarato sconfittodall’Onnipotente,gli rivolge allora la parola dicendo: «Sovrano del mondo, Tu hai dato la Torah agli esseri umani, per favore stattene fuori dalla faccenda».

Nella kabbalah la Scrittura si presta a ogni tipo di interpretazione. Il suo significato è virtualmente infinito, come è necessariamente infinita la parola di Dio, che non terminerà mai di esprimere tutto quello che ha da rivelare ai credenti. La parola assume un carattere aporetico: si serve della limitatezza di un significante per veicolare un messaggio potenzialmente senza limite, destinato sì a un’incarnazione, ma di per sé privo di una possibilità univoca di interpretazione. La parola di Dio può caricarsi di qualsiasi significato nel percorso che compie dall’emittente al destinatario.

Affinché mantenga il più a lungo possibile tale enorme potenziale semantico, la durata di questo percorso tende fatalmente verso l’infinito. La trascendenza divina viene preservata tramite il perpetuo differimento dell’assunzione di un significato definitivo.In maniera analoga, l’elezione del popolo ebraico viene innescata da un invito al viaggio rivolto ad Abramo dal Creatore, che lo spinge ad abbandonare la propria patria per dirigersi verso una indefinita “terra promessa”, formula connotata maggiormente dall’indeterminatezza dell’attributo “promessa” che non dalla concretezza del sostantivo “terra”.

Per un motivo o per l’altro, la Palestina non ha mai soddisfatto per gli ebrei il desiderio profondo di una patria; non tanto per delle caratteristiche climatiche, geomorfologiche o naturalistiche, ma per il fatto stesso di costituire il termine di un viaggio, laddove l’essenza più autentica dell’alleanza con Dio sembra consistere proprio nel viaggio in sé. Il popolo ebraico è destinato a rimanere prigioniero della parola. Il Signore ha rivolto ad Abramo questo invito: «Vattene dal tuo paese e dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò»;e il tempo sembra essere rimasto congelato nel viaggio, defraudato della speranza di giungere a una mèta.

In Fuoco amico, Daniela, una professoressa israeliana,si reca in Africa a far visita al cognato Yirmiyahu, il marito della propria amatissima sorella defunta, e in quel luogo lontano viene in possesso di una traduzione della Bibbia in inglese. Il cognato la invita a rileggere le pagine del profeta Geremia in quella lingua non sacra. Soltanto così, infatti, le sarà possibile percepirne il vero significato: dopo aver spogliato il messaggio biblico dall’aura della sua ieraticità. Yirmiyahula esorta anzi a ritradurre quel testo proprio in ebraico; non nella lingua antica, col suo lessico elegante e ricco di figure retoriche;ma nell’ebraico contemporaneo, della vita quotidiana. E a farlo dopo avere attraversato vasti territori stranieri, in Africa, lontana dal proprio paese, in un luogo in cui la tradizione sembra non esistere ma nel quale probabilmente è nata l’umanità stessa.

Proprio lì, nel cuore della savana africana, Daniela e Yirmiyahu iniziano una discussione a proposito della Bibbia. L’uomo rivendica il proprio diritto a spogliarsi della sua identità culturale, nazionale e religiosa, per tornare a essere semplicemente un essere umano. E lo fa additando proprio la Bibbia come l’origine della maledizione di Israele. Nella Bibbia, tutte le guerre, le sventure, le maledizioni sembrano derivare dal tradimento di un patto coniugale tra l’uomo e Dio, e dalla conseguente,insana, gelosia di quest’ultimo: «Dio, che di fatto è una specie di marito folle, geloso di un’unica donna della quale si è perdutamente invaghito nel deserto e che continua a tormentare con i suoi dettami, è stato tradito. Il grande dramma sociale si rivela essere semplice gelosia». In tutti i suoi romanzi Yehoshua compie una profonda riflessione sul legame matrimoniale, sulla sua bellezza e sulla sua complessità, sul delicato equilibrio in esso esistente tra unione e separazione, altruismo e individualismo, fedeltà e tradimento; e in questo brano offre una suggestiva chiave di lettura per interpretare il simbolismo di tali opposizioni. La separazione, la frattura, la guerra sono condizioni non solo assai diffuse nella società contemporanea, ma quasi a essa consustanziali, e di ciò si incontrano frequenti testimonianze nell’opera di Yehoshua.

Molti dei suoi personaggi sperimentano situazioni concrete di separazione coniugale: il conferenziere protagonista del racconto Base missilistica 612; Adam e Asya nell’Amante; i due coniugi Kaminka in Un divorzio tardivo; il professor Rivlin nella Sposa liberata, che non comprende le motivazioni reali del divorzio di suo figlio Ofer dalla moglie Galia; il responsabile delle risorse umane nel romanzo eponimo, che tenta di redimersi dal fallimento della sua vita matrimoniale assumendosi le proprie responsabilità per la morte misteriosa di una dipendente della sua azienda.

Nelle sue opere, di felicità coniugale si può parlare soprattutto nella fase della maturità della coppia, verso i sessant’anni di vita, quando i figli sono ormai grandi e moglie e marito si ritrovano nuovamente soli, padroni del proprio tempo libero, e possono finalmente misurare quanto la propria voglia di stare insieme sia rimasta viva. Le coppie veramente felici della narrativa di Yehoshua sono tutte arrivate a questa fase del loro rapporto, come i coniugi Yaari in Fuoco amico, o i Rivlin nella Sposa liberata. Quando si è giovani, probabilmente non è possibile misurare in maniera attendibile la stabilità di un rapporto: troppo forti sono ancora le ambizioni personali, la diffidenza, la fiducia in se stessi. E troppo forte è anche l’idealismo, che non consente di accettare i propri errori, che fa credere che il rapporto matrimoniale debba adeguarsi all’idea che se ne ha, mentre è piuttosto vero il contrario, ovvero che nessuna idea del matrimonio riesce a descrivere una concreta incarnazione di tale rapporto, e che dunque non può esistere un’idea del matrimonio determinata a priori, ma piuttosto una sorta di work-in-progress che a essa costantemente tende, misurandosi quotidianamente – per successive approssimazioni – contro una realtà in perenne trasformazione.

Occorre ben ponderare per quale motivo uno scrittore – considerato soprattutto per il suo impegno politico – conferisca un’importanza così rilevante a un aspetto spesso tralasciato (se non sottovalutato) nella cultura occidentale contemporanea quale la felicità coniugale. Non intendo infatti cadere nell’equivoco di vedere in questa tematica solamente una rappresentazione simbolica, una sorta di allegoria per alludere al problema centrale del pensiero di Yehoshua, ovvero a quell’altro tipo di convivenza che è la convivenza civile tra i popoli, e nella fattispecie tra ebrei e palestinesi nello stato di Israele. Certamente in Yehoshua un approccio del genere sarebbe giustificato, ma l’attenzione alla felicità coniugale può senza dubbio – e deve – essere intesa anche a un livello puramente referenziale, esattamente per ciò a cui essa si riferisce.

Questo aspetto d’altronde ben si iscrive nella enorme considerazione attribuita dall’autore ad alcune importanti categorie dell’esistenza, quali l’umanità, la quotidianità, la normalità. L’agone coniugale si rivela non solo un’ottima palestra in cui si apprendono le difficili arti del confronto, della perseveranza, del combattimento, del compromesso, della resa e del perdono. È molto di più: è il cantiere nel quale un essere umano getta le fondamenta per uno degli scopi più importanti dell’esistenza stessa: la propria felicità. La ricerca della felicità coniugale comporta un percorso lungo e impegnativo, il cui passo si misura in decenni.

I coniugi non possono nemmeno pensare di approssimarsi a essa se non dopo aver visto la propria vita risalire lungo il corso dei sogni, tingendosi di un colore impreveduto; dopo avere affrontato le inevitabili crisi, dopo aver vissuto la maturità dei desideri e la loro decadenza; dopo aver visto i figli prendere possesso della propria esistenza, con il loro enorme potenziale di appagamento e di delusione; e, soprattutto, dopo essersi ritrovati nuovamente soli, venticinque o trent’anni dopo il fidanzamento, a misurare la distanza del proprio rapporto rispetto a quello immaginato in giovinezza. Per magari non riconoscersi più: percepire con raccapriccio di essere divenuti due estranei, di aver mal convogliato le proprie energie, di aver perso irrimediabilmente quel tesoro prezioso costituito dall’amore di un tempo. O riscoprirlo magari più ricco, come il corso di un fiume prossimo alla foce, reso abbondante dalle piogge generose, straripante della forza degli affluenti.

L’ideologia, l’idea, è la forma che diamo all’esperienza per assimilarla, per rappresentarla, in modo che possiamo iniziare a imparare da essa. Ma spesso la medesima esperienza, in soggetti differenti, si solidifica in forme altrettanto differenti. Per questo motivo, quando l’individuo esce da se stesso e inizia a rapportarsi dinamicamente con l’altro – come avviene nel matrimonio – allora è necessario che non si affezioni troppo alle proprie idee, e che sia sempre disposto a ricontrattare le rigide necessità astrattive contro l’irrequieta effusione del divenire. L’idea tracima di passato, ne costituisce una solidificata inflorescenza, mentre la relazione tende a negare i suoi poli, richiede abnegazione, oblio di sé, fluida sprezzatura. Le amare conseguenze del radicamento all’idea erano state analizzate da Yehoshua nel Signor Mani, in cui il corteggiamento dell’idée fixe aveva dato luogo a un percorso a ritroso, appunto, nel passato. Il libro consiste in cinque dialoghi parziali, presentati in ordine inverso rispetto a quello cronologico. I dialoghi sono parziali nel senso che delle due voci dialoganti ne viene riportata nel testo solamente una, a sottolineare la limacciosa difficoltà della comunicazione e dell’infrazione del punto di vista nella relazione.

Yehoshua, che pur essendo uno scrittore tradizionale ha sperimentato (spesso inventandole) diverse tecniche narrative, non era nuovo a simili modalità espressive. Già in Un divorzio tardivo, uno dei capitoli aveva sfruttato una tecnicaanaloga di dialogo parziale. E ancora prima, nell’Amante, aveva raccontato un medesimo episodio utilizzando la prospettiva di personaggi diversi. L’attenzione al punto di vista dell’altro è certamente cruciale nell’autore israeliano, che nella sua produzione istituisce una fertile dialettica fra la parzialità prospettica dell’identità e la produttività della relazione – che infrange la monoliticità dell’idea e ne scardina la drammatica inclinazione a una chiusura autoreferenziale.

L’identità è costruita sulle esperienze, fa tesoro degli sbagli commessi, è rivolta verso il passato e la tradizione, e difficilmente accetta il confronto con la diversità. La relazione, viceversa, ignora gli avvenimenti pregressi, colloca il proprio focus nel presente, e – in quanto pertinente a rapporti umani – presuppone necessariamente una prospettiva etica.

È una lezione che nella società odierna rischia di essere spesso dimenticata, ma che ben si conosceva nell’antichità. Basti pensare a Eschilo, che narrò la vittoria ateniese sui Persiani non con gli accenti trionfalistici dei vincitori, ma rappresentando il dramma apocalittico degli sconfitti; o allo scultore ellenistico Epigonos, che nel santuario di Atena nikephoros a Pergamo raffigura statue di nemici morenti di commovente pateticità, per celebrare il trionfo di Attalo I sulla popolazione dei Galati; o alla toccante compassione con cui il maestro della Colonna Traiana descrive la sconfitta dei Daci a opera dell’imperatore romano; alla tragica dignità con cui ne rappresenta i soldati, le famiglie, le donne; la fine emozionante del capo Decebalo.

Ritradurre la Bibbia in ebraico significa osservare se stessi da una prospettiva incardinata nella storia; rinunciare alla discontinuità del sacro per accettare il confronto con la diversità; scardinare la monoliticità della tradizione e aprirsi all’instabilità del mutamento. Significa rinunciare alle rassicuranti certezze di un’identità culturale dissodandone il terreno e predisponendolo alla fertilità dell’incontro.Significa comprendere che il punto di vista opposto al proprio è il miglior grimaldello atto all’interpretazione di una realtà che – altrimenti – rischia di scivolare via senza essere compresa. E significa riconoscere nell’altro l’unica possibilità che ha l’individuo di esistere in una storia che non sia puramente evenemenziale –scritta con l’odiosa arbitrarietà di chi distilla i fatti in base agli equilibri che intende disegnare – ma che accetti di misurarsi con la capricciosa incoerenza della contemporaneità.

In questa prospettiva, Yehoshua non nega la necessità del confronto anche aspro. Il confronto richiede pazienza, determinazione, e facilmente degenera in conflitto. Ma è un conflitto sempre incentrato sul dialogo, aperto allo scambio dialettico, disposto al compromesso:una guerra non santa, non giustificata da un’ideologia, non sancita in maniera dogmatica; che non oppone alla concretezza di una necessità l’astrattezza di una tradizione, che non rinnega l’effervescenza della diversità in nome di un’identità che non possa essere messa in discussione.

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