A lezione da Riccardo Muti

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di Matteo Cavezzali (fonte immagine)

Arriva per ogni persona il momento della vita in cui ci si pone la fatidica domanda “cosa lascerò a chi verrà dopo di me?”. Alcuni grandi artisti, superata la soglia dei settanta, iniziano a interrogare se stessi e a guardare alle nuove generazioni con occhi diversi. Il Maestro Riccardo Muti ha deciso di trascorrere il suo settantacinquesimo compleanno insegnando ad un gruppo di giovani direttori d’orchestra quello che per lui è stato molto più che un lavoro, quello che è stato la vita stessa, ovvero la musica.

Dal 23 luglio al 5 agosto si è svolta l’Italian Opera Academy, una serie di lezioni in cui il Maestro e i suoi allievi hanno allestito Traviata di Verdi al teatro Alighieri di Ravenna.

Mi sono intrufolato dietro le quinte per spiare da vicino come avviene questo passaggio di conoscenze così alte e artistiche, ma allo stesso tempo così pragmatiche e artigianali.

Quando entro in teatro sul palco sono già disposti i musicisti, in platea e nei palchetti alcuni uditori. Tutti giovanissimi, molti dai tratti orientali o del nord Europa, con gli spartiti in mano, pronti per prendere appunti. Entra un uomo dello staff e dice ai cantanti di posizionarsi sul palco, sedendosi rivolti verso l’orchestra, con le spalle alla platea. Loro obbediscono senza fare domande. Ora ci sono tutti: gli archi, gli ottoni, le percussioni, i solisti. Poi, per ultimo, entra lui: Riccardo Muti. Si muove sulla scena con passo deciso, saluta, fa spostare un paio di sedie e si posizione accanto al podio. Muti è sempre Muti: camicia e giacca nere, il volto sagomato che racconta mille concerti, la chioma folta, un po’ meno corvina di un tempo.  C’è nell’aria una impalpabile elettricità, una tensione positiva. Il silenzio è attraversato da decine di sguardi, tutti rivolti al Maestro. «Mettetevi in un punto dove potete vedermi bene, altrimenti non riuscirete a suonare».

Si ha l’impressione di vivere una esperienza rara, di sbirciare dalla serratura nella bottega della grande arte.

Doveva essere questa l’aria che si respirava nelle botteghe dei grandi pittori rinascimentali, mentre compivano i loro capolavori dirigendo con lo sguardo e poche parole i movimenti delle mani dei loro apprendisti. E in effetti la musica lirica è forse l’ultima delle arti classiche in cui l’Italia ancora può vantare un primato e Muti è un erede diretto della “bottega” del Maestro Arturo Toscanini in quanto ebbe come insegnante Antonino Votto, che fu assistente di Toscanini negli storici anni ’20 alla Scala di Milano. Insomma la discendenza è nobile e la fama del Maestro, conosciuto in ogni remoto angolo del globo, è indiscutibile.

Ma oggi il maestro non dirigerà l’orchestra, bensì dirigerà il direttore. Sul podio c’è infatti la ventisettenne lituana Giedre Slekyte, una dei quattro direttori selezionati per la Italian Opera Academy. L’opera scelta è Traviata di Verdi, per cui Muti ha una speciale attenzione, tanto da aver dichiarato più volte che «se Mozart o Wagner sono indiscutibilmente considerati giganti nei loro paesi d’origine e nel mondo intero, da noi Verdi è spesso stato presentato come il compositore dei motivetti facili e orecchiabili ed è stato in molti casi eseguito senza rispetto filologico, come se le sue partiture potessero essere modificate e adattate a piacimento. Ma Verdi – argomenta Muti – è un genio assoluto, è il patriarca della musica italiana e, se pure mette in scena le grandi passioni umane, lo fa sempre nella cornice di una straordinaria raffinatezza e nobiltà delle espressioni».

Riccardo Muti è forse l’unico direttore ad aver diretto quasi ogni opera scritta da Verdi, anche quelle considerate minori come I Masnadieri o Attila, e la sua fama è legata a doppio filo a quella del compositore emiliano, tanto da essere stato definito dal New York Times “The King of Verdi”. La confidenza con Verdi da parte di Muti è tale che, con il suo solito senso dell’umorismo, a volte parlando di lui lo chiama “Peppino” come si fa con un vecchio amico d’infanzia.

Le prove iniziano, ma quando l’esecuzione non lo convince Muti la interrompe e si sofferma sul significato dell’azione che si svolgerà sul palco, sulle parole scelte da Francesco Maria Piave per il libretto, sul senso profondo di quel momento all’interno della storia.  È evidente come cerchi di inculcare nei giovani musicisti l’idea che non ha senso pensare alla musica come a un qualcosa di estraneo alla azione. «Non è il tema che fa l’opera – ripete – ma il colore che si dà alla musica».

Muti si muove da una parte all’altra del palco, corregge gli accenti dei cantanti, dirige utilizzando la voce come prolungamento della bacchetta e intonando la melodia per sottolineare il timbro e il significato da dare a ogni nota «Come diceva Verdi: “Ricordatevi di servire più il poeta del musicista”». Scherza con i cantanti sulle loro pronunce errate, ama far divertire il pubblico di allievi, ma sa anche essere duro. «Così sembra una marcetta!» oppure «Una roba così la fanno nelle balere!», il clima però è sempre disteso e il Maestro non mostra mai il lato più autoritario che alcuni musicisti in passato gli hanno contestato e che credevo di vedere. Si rivela affabile, forse proprio perché lavora con i ragazzi: «Preferisco lavorare con giovani musicisti perché non hanno le incrostazioni mentali date dall’abitudine. Se uno ha suonato Traviata decine di volte crede di saperla già fare ed è più complicato farsi ascoltare».

La ragazza che dirige l’orchestra è visibilmente emozionata e durante le prove commette alcuni errori, si asciuga la fronte, e poi sussurra «è troppo difficile, non so se riuscirò…». «Non ti scoraggiare! – interviene Muti, con la sua voce profonda e ferma – Non controlli l’orchestra, ma non ti preoccupare, io ci ho messo cinquanta anni per riuscirci. Le cose non vengono naturalmente. Come mi diceva il mio maestro Antonio Votto “finché non ti rompi il naso davanti all’orchestra non cresci”. Mentre i violinisti si possono esercitare a casa, noi non possiamo dire “quando l’ho fatto davanti allo specchio funzionava” dobbiamo sbagliare qui, davanti a tutti. E non è facile. Qualcuno gode vedendoti sbagliare, per questo in vecchiaia diventiamo così incazzati… Bisogna lavorare duramente, vedete come mi sono ridotto io, potrei dimostrare molti meno anni. Ma se rinasco faccio un lavoro meno faticoso…»

Dirigere è un’arte molto simile al comando, anche se si è raffinati strateghi come Napoleone e si conoscono le mappe e il terreno, finché non si è sul campo di battaglia non si può guidare un esercito. Non si può essere direttori con la teoria, bisogna esserlo lì, davanti ai musicisti e al pubblico, nelle fauci del leone. Senza sconti. «La musica si fa insieme» ripete Muti «non ci sono altri modi di farla».

Le prove entrano nel vivo. La tensione è tale che una giovane uditrice nordeuropea, con i capelli raccolti in una treccia che le incorona il volto come quella di Julija Tymošenko, si alza in platea tutta tremante e sviene accasciandosi nel suo vestito da sera blu cobalto. Le prove vengono interrotte per l’arrivo di una ambulanza. «Niente di grave Maestro, solo l’emozione e forse un calo di zuccheri» rassicura una maschera, e dopo una breve pausa le prove possono proseguire.

Un altro allievo sale sul podio, è il trentenne cinese Jiao Yang che si muove con piglio sicuro di chi si è preparato duramente a questo momento. Il lavoro fatto con lui da parte del maestro pare l’opposto del precedente, tenta di ammorbidire il suo tocco forse troppo accademico. Muti gli dà indicazioni inizialmente in inglese, poi in italiano, fino ad arrivare al napoletano. E il cinese capisce tutto, non gli sfugge un suggerimento, perché non sono le parole, ma è la musica delle parole stesse a parlare.

Il teatro scelto per l’Italian Opera Academy di Muti è il teatro Alighieri di Ravenna, la città in cui Muti con la famiglia vive da molti anni. Muti non è una di quelle persone che si incontrano la domenica mattina al mercato, o che si vede prendere un gelato in centro in una sera d’estate.

Ricordo che una anziana ravennate una volta gli chiese «Maestro, so che spesso è in giro per il mondo a dirigere, ma come mai non la vediamo mai in città?» e lui rispose «Quando sono a Ravenna, ne approfitto per stare in casa a studiare». E lei ribatté istintivamente «Come a studiare? Lei maestro non ha più bisogno di studiare…» e lui «Non si può mai smettere di studiare». E questo è quello che dimostra anche nelle prove con i giovani allievi, con cui rimane ore per perfezionare un passaggio, per spiegare un cantato, senza conoscere fatica. Ripete più volte ai ragazzi il mantra «La musica si fa studiando assai» con quella sua leggera inflessione napoletana.

«A volte fa ripetere un passaggio anche venti volte, finché non viene come secondo lui deve venire» mi racconta uno dei giovani cantanti fuori dai camerini «per noi è un’immensa fortuna che sia così determinato e non si accontenti finché non ottiene da noi ciò che vuole».

Il Maestro riesce ad essere nei confronti dei suoi studenti allo stesso tempo alla mano, ma anche inavvicinabile. È facile trovarlo ancora sul palco, molto dopo la fine delle prove, attardarsi a spiegare e riprovare le sfumature assieme agli studenti, però nessuno di loro ha avuto modo di parlare con lui di questioni che non fossero la musica. «È molto schivo e riservato – racconta uno dei giovani musicisti – nessuno di noi ha legato con lui fuori dal palcoscenico, ed è normale e giusto che sia così. È un uomo con impegni artistici in tutto il mondo, se si lasciasse avvicinare da tutti avrebbe una vita impossibile». Solitamente a svolgere questa funzione relazionale con gli orchestrali è la moglie del Maestro, Cristina Mazzavillani Muti, direttrice del Ravenna Festival, romagnola dalle passioni forti molto legata ai ragazzi dell’Orchestra Giovanile Cherubini, per cui è un punto di riferimento in città.

L’unica eccezione alla austerità del Maestro è stato il suo settantacinquesimo compleanno, che si è svolto il 28 luglio a metà delle due settimane di prove. La violinista di 22 anni Giulia è entrata nell’Orchestra Giovanile Cherubini di Muti da un anno, racconta che «è stato strano avere l’onore di festeggiare il compleanno con il maestro. C’è stato un brindisi al ridotto del teatro Alighieri in cui c’eravamo noi musicisti e i figli del Maestro. Lo ricorderò come un momento molto toccante. È stato il suo modo per dimostrarci come la musica sia la sua vita».

Arriva così l’ultimo giorno di prove. Al segnale della bacchetta del settantacinquenne Riccardo Muti inizia il celeberrimo preludio suonato dai giovanissimi musicisti della Cherubini. L’aria si fa rarefatta, il suono di archi riempie il teatro e in quel momento pare che la musica di Traviata non si sia mai interrotta da oltre un secolo e mezzo, dalla prima volta nel 1853 alla Fenice fino a questo istante al teatro Alighieri. È come se quegli archi stessero tracciando una linea retta che da Verdi, che dirigeva anche l’orchestra, passa da Toscanini e arriva fino a Muti, e ora giunge a questi ragazzi, perché questo rito possa rinnovarsi ancora una volta.

Commenti
Un commento a “A lezione da Riccardo Muti”
  1. paola ha detto:

    Antonino Votto non Antonio

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