Dentro Gargantua
di Luigi Loi (fonte immagine)
Agosto in Sardegna. Ho lasciato mia figlia a Roma con la madre. Quando mi sono imbarcato con destinazione Cagliari avevo ventinove anni, mia figlia appena tre. Sono a Roma da ieri: io ho sempre ventinove anni, la mia bambina ormai ventiquattro. Succede anche ai personaggi di Interstellar avvicinandosi a Gargantua: c’è una gravità così intensa che si deforma lo spazio tempo.
Tradotto: un mese in Sardegna equivale a 21 dei vostri anni continentali. Si scherza ovviamente (mica tanto), e mi scuso per l’aver usato la relatività per descrivere una sensazione: quella di una granitica lentezza della Sardegna mentre tutto attorno scorre velocissimo, di un profondo e ortesiano senso della natura che le cose di questa terra sanno trasmettere.
Tutto questo sembra ripercuotersi su tanti aspetti culturali e in particolare sulla narrativa isolana. Quindi se l’arte di raccontare finzioni si nutre di miti, archetipi, temi comuni e conflittualità con gli antichi maestri del racconto, l’eredità fertilissima lasciata (per esempio da Sergio Atzeni, scomparso ormai 21 anni fa) può diventare una ricchezza o l’àncora che porta a fondo i suoi eredi.
Dono o maledizione? La domanda non è futile. Si cercherà di rispondere attraverso tre opere molto rappresentative, pubblicate negli ultimi 12 mesi, ambientate in Sardegna e scritte da sardi: Teologia del cinghiale (Elliot) Premio Campiello opera prima, A pietre rovesciate (Tunué) Premio Gramsci per inediti, Maria di Isili (Giunti) Premio Calvino 2015.
Rappresentative perché narrativamente molto pregevoli, premiate dalla critica e quindi premiate anche dal pubblico (o viceversa?). Nonostante le grandi differenze biografiche e anagrafiche degli autori, quello che sorprende di queste tre fiction è l’aderenza ad un certo canone estetico che ha caratteristiche linguistiche e topos narrativi riconoscibili nella tradizione isolana del ‘900. Partiamo da qui: le opere citate hanno in comune lo sperimentalismo lessicale e una spiccata tendenza all’utilizzo del sardo.
«Apu bittu s’oppai ‘e Putzu scorrovéndu cussu fussu, a piccu, a panga a trebùssu [Ho visto il compare di Putzu, stava scavando quel fosso col piccone, la vanga e il forcone]» (Teologia del cinghiale, p 5).
«In sogno aveva visto il teschio del suo rivale: Am Mic Cul Lu! Gli aveva detto, che voleva dire ti perdono!» (A pietre rovesciate, p 13. Nota bene: nonostante la sillabazione, l’imprecazione ammiccullu è ampiamente riconoscibile per i parlanti isolani, così come in altre sillabazioni presenti nel testo, allupàu, mariposa, a gittoriu, N.dr.r).
«Una aicci bravixedda deu non dd’apu mai bia, e non solo a Ĭsili, seu narendi. Se non capisci quello che dico, fermami però, che ogni tanto mi esce qualche frase in dialetto, ma non ci posso fare niente, è più forte di me» (Maria di Isili, p 9).
I tre passi sono esemplari del modo in cui il plurilinguismo è stato abbracciato. Sia in Teologia del cinghiale che in Maria di Isili (da qui in poi Tdc e Mdi) l’uso dell’idioletto sardo è abbondante e supporta l’uso espressionista della lingua italiana. In Tdc la verve linguistica è imbrigliata in numerose traduzioni, volute forse in fase di revisione: rendono il testo fruibile ad una platea più ampia, ma appesantiscono il ritmo di numerose pagine, simili ad un tascabile serie bilingue. In A pietre rovesciate (da qui in poi Apr) l’uso del sardo è limitato a poche occorrenze, toponimi compresi, poiché la resa stilistica vuole essere quella di una lingua dialogica ma sorvegliatissima fatta di frasi brevi e incalzanti che simulano con grande bravura una scrittura orale raccontata.
Se per Apr possiamo quindi parlare di una simulazione di italiano standard, per Tdc e Mdi la dominante linguistica è quella dell’italiano regionale di Sardegna con ricorrenze pleonastiche, inversioni aggettivali e verbali. I tre autori, nonostante le grandi differenze anagrafiche e biografiche condividono un retroterra culturale comune, che si mostra però con maggiore chiarezza a livello tematico: nelle opere la natura è intesa come epifania del carattere dei suoi personaggi. Si tratta naturalmente di una natura spesso selvaggia e primitiva, che non combacia con la Sardegna contemporanea fortemente antropomorfizzata che è entrata nell’era digitale, anche se dalla porta di servizio.
«La protezione del vetro non resisterebbe perché è un vento duro, il maestrale. È un vento che picchia violento» (Teologia del cinghiale, p 144).
«L’imbocco della valle erbosa e fiorita è un imbuto di pietre rivolto verso nordovest, il vento d’oltremare giunge alla massima potenza, vecchio e sconosciuto» (A pietre rovesciate, p 83).
«Lei aveva un vento più forte del mio a spingerla dentro. Lei non ha saputo calmarlo quel vento, non ha saputo come farlo quietare» (Maria di Isili, p 42).
L’immancabile vento assieme a vino, fucili, pietre, sole, mare e tutto il lessico da locus amoenus/terribilis è presente in tutte le opere. Se è vero che la maggior parte delle pagine dei tre romanzi non è ambientata nel presente (tranne Apr, anche se in modo simbolico), è anche vero che non si può chiedere al lettore di credere a leggi di natura ancora vigenti, diametralmente opposte alla storia italiana, sempre che non si voglia dare un prodotto più mitologico che narrativo, fatto dei consueti topos quali i tempi immemorabili, la modernità rigettata, la solitudine.
Le scelte poetiche dei tre autori sono imperscrutabili. Di più: sono legittime vista la buona fattura dei prodotti, ma soprattutto giustificabili perché il mercato (pare) ha sempre ragione, nonostante la confezione. La famigerata confezione fatta di battage pubblicitario, uffici stampa e quarte di copertina. Basterebbero quelle dei romanzi in questione:
«Umorismo e inventiva: un’opera pirotecnica, geniale e ricca di suspance che ci avvolge con le voci, i sapori e la magia della terra sarda, raccontando gli ultimi cinquant’anni di un’Italia sospesa fra modernità e tradizione» (Teologia del cinghiale).
«Giana […] mette alla prova il suo giovane innamorato, gli chiede di attraversare Nur per prenderle un pugno d’ombra del campanile o una folata di maestrale» (A pietre rovesciate).
«Dalle mie parti c’è sempre stato il vento. Vento possente e intrigante. Vento che fruga e che rende impazienti. Vento che sembra salire da un lontanissimo mare […] Ma se la tua faccia non ha mai preso schiaffi sull’altopiano di Nurri, non puoi capirmi» (Maria di Isili).
La pubblicità è pur sempre pubblicità. Queste raccontano di certe immagini stereotipate che sembravano superate da tempo. Ma il tempo in Sardegna è relativo. Ho riletto una cartolina di Vittorini: «è Sardegna questa solitudine d’ogni cosa, d’ogni rupe che par chiusa in se stessa meditando, e d’ogni albero o viandante che s’incontra, e per questa luce, e per quest’odore di mandrie in cammino, assai al di là dell’orizzonte». Era datata 1932.
Maria di Isili è un romanzo meraviglioso, poi non so se esista per davvero quella Sardegna. Mi piace crederlo però
Articolo superficiale, pieno di stereotipi. Sulla parte linguistica non so,non conosco il sardo, ma la poesia dov’ è? A pietre rovesciate ne trasuda
Vale la pena solamente per le 3 righe di Vittorini.
Finalmente! E se si provasse a tornare un poco più indietro, a Fois, Michela Murgia, per non parlare di Niffoi, si troverebbe la stessa Sardegna. Ce n’è pure lì di vento….