Ugo Tognazzi: il comico fisiologico

tognazzi

Il 23 marzo 1922 nasceva a Cremona Ugo Tognazzi. Riproponiamo l’estratto da Hollywood sul Tevere. Storie scellerate di Giuseppe Sansonna a lui dedicato, ringraziando autore e editore.

Un giorno non meglio precisato del 1965, un trafelato Antonio Pietrangeli irrompe a casa di Ugo Tognazzi. Ha bisogno, in tempi brevissimi, di un suo cameo, a qualsiasi costo. Sta girando Io la conoscevo bene: la protagonista è una giovanissima Stefania Sandrelli, non ancora vedette, e i produttori gli hanno imposto la presenza nel cast di una star affermata. Qualcuno del calibro di Tognazzi. Che, però, è ormai così richiesto da essere già impegnato, in contemporanea, su ben due set. Non ha un minuto libero ma, da istintivo conoscitore di uomini, è affascinato da Pietrangeli. Gli riconosce uno sguardo sottile, capace di non cadere mai nella costruzione di facili macchiette, abbondanti invece anche dalle parti nobili della commedia all’italiana.

Essere diretto da lui, poco tempo prima, nel Magnifico cornuto lo ha esaltato e traumatizzato. Ripetere una scena anche quindici volte, perché ogni dettaglio sia perfetto, anche nei movimenti delle comparse sullo sfondo, è un metodo di lavoro deleterio per il temperamento dell’attore cremonese, per quanto gratificante possa rivelarsi il risultato finale.

Pietrangeli, stavolta, gli sta chiedendo solo una rapida apparizione, un pretesto per inserire il suo nome a caratteri cubitali nei titoli di testa: deve vestire i panni di un attore cinico e affermato, premiato in un salotto romano, affollato da trepidanti marginali della Hollywood tiberina. Tognazzi dà una rapida scorsa al copione, poi fulmina il regista: «Sono libero solo stanotte, per due ore, ma non per la parte del grandattore stronzo. Voglio essere l’altro, il fallito che gli striscia ai piedi, il guittaccio da avanspettacolo», è la sua proposta. Pietrangeli accetta felicemente, lasciando carta bianca all’attore sulla costruzione del suo personaggio.

Rimasto solo, Tognazzi si reimmerge nel suo passato. Si rivede quindicenne, impiegato in un salumificio della sua Cremona, con un padre assicuratore dalle fortune molto ondivaghe. Nelle orecchie, ogni mattina, gli echeggia lo sgozzamento di cinquecento maiali, tramutati nel pomeriggio in carne insaccata. Lui ne deve tenere la contabilità. La smania adolescente di evadere, facendo l’attore. La passione alimentata guardando con occhi sgranati Fanfulla, Rascel, Totò, Macario nei varietà. L’esordio nel dopolavoro ferroviario di Cremona. Poi la partenza per la guerra, in marina. Il fronte evitato con abilità, imboscandosi nelle retrovie, inventando spettacoli per le truppe. La guerra passata indenne, la faticosa gavetta nell’avanspettacolo, il passaggio da protagonista alla rivista, trasferendo il repertorio brillante nella neonata televisione, in coppia con Raimondo Vianello. Scende la notte, e le idee di Tognazzi sono ormai chiare: regalerà a Pietrangeli una memorabile locomotiva, un suo vecchio cavallo di battaglia, portato su mille palchi di provincia.

Arriva sul set. La situazione, da copione, è di una crudeltà pura, senza spiragli consolatori. Franco Fabrizi è il mellifluo padrone di casa, organizzatore di una festa in cui tutti, disperatamente, cercano di promuovere se stessi. La parte dell’attore famoso, cinico e arrivato, giunto alla festa per pavoneggiarsi, è stata affidata a Enrico Maria Salerno. Nino Manfredi è invece un disperato e truffaldino fotografo per aspiranti attrici, ragazze della provincia attirate a Roma dal sogno del cinema. Come Stefania Sandrelli, che lo ha seguito senza sapere bene cosa aspettarsi.

Tognazzi, per l’occasione, si è impiastrato i capelli di brillantina Linetti, lasciandosi baffetti sottili. Imbolsito, stretto in un completo chiaro evidentemente acquistato troppo tempo prima, quando aveva un’altra taglia e qualche soldo in tasca. Fuma leziosamente, alla Carlo Dapporto, cercando di darsi un tono nel cuore della festa. Enrico Maria Salerno, annoiato, decide di intrattenere gli astanti irridendolo. Racconta a tutti di quando Tognazzi rifiutò la corte di Ava Gardner. Tognazzi ostenta patetico riserbo sulla questione. Salerno insiste, nel deriderlo pubblicamente: gli presenta Manfredi, spacciandolo per produttore in cerca di talenti. Manfredi sta al gioco: chiede a Tognazzi un provino seduta stante. Gli serve un ballerino di tip-tap, Tognazzi si fa pregare per una manciata di secondi, poi sale sul tavolo del salone. Dispiegando le braccia, come un pianista acclamato prima di un grande concerto.

«Faccio il treno», annuncia, con nasale quanto impropria solennità. E parte, esibendosi compiaciuto in una locomotiva umana. Tutti ridono, qualcuno sembra ammirarne anche il virtuosismo. Dopo qualche secondo Tognazzi comincia però a sudare copiosamente, lo sguardo gli si annebbia, il fiatone aumenta. Manfredi, rispecchiandosi in un omologo, in una vittima, decide che la beffa può concludersi. Ma il sadismo di Salerno è implacabile, vuole portare il gioco crudele alle sue estreme conseguenze: invita il fantasista in disarmo a far accelerare il suo treno. Le risate scemano. Tognazzi, in punta di infarto, continua giocare con tacco e punta, per narcisismo da vittima, per mostrare che non è finito, per compiacere la ferocia della star. E magari ottenere un piccolo premio, per tanta umiliazione. Poi, a un colpo di tacco dall’arresto cardiaco, conclude il numero con un inchino scomposto e scende arrancando dal tavolo.

Pietrangeli, nel montaggio, lascia venti lunghissimi secondi di silenzio, senza che si senta nemmeno una musica di sottofondo. Nessuno ride. Si sente solo il fiatone raggelante di Tognazzi, zuppo e stravolto. Salerno borbotta cauto qualche altra ferocia, invitandolo a raccontare una barzelletta delle sue. «Aspet… tah!», sfiata Tognazzi, guardandosi intorno stralunato. Congedatosi da Pietrangeli, torna a casa stanco ma soddisfatto. Quel cameo di pochi minuti gli varrà un unanime Nastro d’argento e lui lo considererà sempre una delle gemme recitative della sua intera carriera. «Il copione era diverso. Invece di fare il tip-tap avrei dovuto cantare una canzoncina. La canzoncina avrebbe suscitato uno sfottò del pubblico e basta. Il tip-tap, invece, con il fatto di essere io anziano e di sentirmi male, avrebbe creato un effetto più intenso, e reso più stridente il rapporto coi quattro stronzi della festa, avrebbe portato un’aria da piccolo melodramma».

Perché Tognazzi ha una peculiarità ormai ben definita, in quello scorcio intermedio degli anni Sessanta. Una caratteristica che lo distingue pienamente dagli altri colonnelli della commedia all’italiana. Sordi è una maschera aliena, un italiano medio così metafisico da lambire l’irreale, l’incorporeo, l’asessuato. Manfredi è un Sordi leggermente più umano, con la sapienza vagamente meschina del ciociaro sbarcato nella capitale in eterna ricerca di espedienti. Sempre poggiato su una tecnica comica molto evidente, per quanto efficace. Gassman è un eroe alfieriano sceso dal monumento equestre, un mattatore ottocentesco con un fisico bigger than life. Per accedere alla commedia all’italiana, alla sua popolarità, ai suoi straordinari emolumenti, ha dovuto ingaglioffirsi, abbassarsi la fronte da nobile con le parrucche, insistere sulla sua aria trombonesca, da roboante miles gloriosus plautino. Deridere al cinema l’attore classico incarnato a teatro, degradandolo a maschera cialtronesca.

Tognazzi, a differenza di tutti, è il più distante dalla maschera e dall’esibizione tecnica. È un corpo, ha una fisiologia esibita, evidente, che ritornerà nei momenti più felici della sua carriera cinematografica. Un’umanità palpabile, per quanto gaglioffa. Immediatamente credibile nel suo essere, dentro e fuori dai set, protagonista di una compulsiva vita sessuale, condita da una raffinata fame di cibi elaborati, sfociante in una corporeità legata alle fatiche della digestione. Da uomo, non da marionetta. Una consapevolezza accresciuta dal rapporto con Marco Ferreri, che considera l’incontro con Tognazzi il più importante della sua vita professionale. Il Tognazzi comico leggero, malleabile, pronto per il suo surrealismo nerastro. Quando incontra Ferreri, Tognazzi si imbatte in una rivoluzione copernicana. Si conoscono in Spagna. Tognazzi sta girando una pochade leggera, con Vianello: I tromboni di Fra’ Diavolo. Ha già fatto con l’amico Luciano Salce Il federale e La voglia matta, due commedie amare, film in cui Tognazzi può dare vita a personaggi umani, più sommessi interiormente, lontani dal filone di bassa parodia che gli veniva costantemente offerto.

Ferreri gli manda in albergo il suo curriculum, allegando le recensioni di El cochecito, il suo film spagnolo. La storia di un vedovo ossessionato dalla carrozzella a motore. Lo humor nero, inedito in Italia, incuriosisce il comico cremonese. Da naïf arguto, privo di cultura libresca ma pieno di soda furbizia padana, intravede la possibile svolta nella sua carriera.

Ferreri gli si presenta, poco dopo, nella hall. È un giovanotto rotondetto, sbarbato, molto buffo, con l’occhio saettante. Con sintesi brutale, gli racconta la trama del film che sta per proporgli: «Ho ’na storia de uno co’ ’na moglie che gli fa fare l’amore finché mòre. T’interessa?» La lingua bizzarra in cui emette i suoi concetti lapidari è un pastiche di romanesco e dialetto della zona di Lecco, suo luogo natio. Il suo linguaggio è un sintomo, denuncia il suo stato d’animo. Parla come il marziano che è, mostrando i suoi faticosi tentativi di apprendimento della lingua dominante, finalizzati a farsi accettare dalla capitale ruffiana del cinema. Consapevole che l’impresa è, e resterà, impossibile.

Il film proposto da Ferreri è L’ape regina, scritto dal regista in coppia con Rafael Azcona, nel 1962. Tognazzi è perfetto per incarnare il nordico abile e accorto, capace di cavalcare il boom con remunerativo calvinismo lombardo. Nel film commercia in automobili, arriva a quarant’anni e avverte come indecente il proprio consumato ruolo da playboy. Si fa consigliare una moglie vergine da un padre domenicano, suo direttore spirituale. La ragazza, una splendida quanto feroce Marina Vlady, con dolcezza implacabile pretende continue prestazioni sessuali a fini riproduttivi. Tognazzi appare presto consunto, logoro, non all’altezza della situazione. Chiede aiuto al padre spirituale, che lo bacchetta, avallando il sacrosanto diritto alla maternità della Vlady. Tognazzi ingurgita farmaci, deperisce, ma la Vlady ottiene il suo scopo. È finalmente madre; intanto il fuco Tognazzi, ridotto a una larva, muore in uno sgabuzzino mentre la famiglia matriarcale di sua moglie festeggia l’arrivo del nuovo nato.

Ferreri e Tognazzi si ritrovano nel 1964 con La donna scimmia. Il soggetto, ispirato alla vicenda reale di Julia Pastrana, si avvale nuovamente della vena grottesca di Rafael Azcona. Tognazzi vaga per Napoli, con l’aria sorniona di chi vive d’espedienti. Un giorno, in un ospizio, individua in un’Annie Girardot dal volto coperto di peli l’occasione della sua vita. La esibirà come fenomeno da baraccone. Per legarla a sé, decide di sposarla. Riemerge, ancora una volta, la specificità di Tognazzi, la chimica perfetta creata col mondo di Ferreri: l’attore è l’unico, per la curiosità nei confronti della vita che gli si legge negli occhi, a risultare credibile, umano, in un contesto così estremo. Non è impossibile immaginarlo davvero a letto, con una donna barbuta, abbandonato a tenerezze sospese in un’intima zona d’ombra. Concedendosi un momento in cui le ambiguità del cinismo calcolatorio, da impresario spregiudicato, sfumano nell’attrazione, autenticamente perversa, per ogni sfaccettatura della sessualità.

Arrivando a ingravidare la sua ipertricotica partner, destinata a morire, con suo figlio, durante il parto. Un museo chiede e ottiene di conservare i loro corpi, ma Antonio ci ripensa. Un po’ per contorta affezione, un po’ per interesse, si indebita per ottenere i due cadaveri, li fa imbalsamare e ricomincia a esporli nel proprio baraccone.

Tognazzi riesce a fornire al personaggio anche tutta l’ambiguità dell’ometto, né buono né cattivo, che asseconda l’inerzia di un sistema, apatico attraversatore di ogni orrore, per continuare a vivacchiare sottraendosi al lavoro. Ferreri, emulo buñueliano, trasfigura nel corpo di Tognazzi un carattere ancora inedito nel cinema italiano. Nonostante il contesto surreale, se ne sente dallo schermo la puzza familiare, umana. Troppo umana: allo spettatore non è nemmeno concessa la possibilità di affibbiargli l’etichetta rassicurante di mostro risiano, così iperbolico nella sua aberrazione da diventare una maschera.

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Commenti
Un commento a “Ugo Tognazzi: il comico fisiologico”
  1. Mariateresa ha detto:

    Davvero il cameo di Tognazzi in “Io la conoscevo bene” è straordinario come lo è il film; Pietrangeli, secondo me, ha avuto l’idea del film dopo aver visto “Colazione da Tiffany”. Con la sua storia, ci ha mostrato il volto perdente di Holly Golightly: lei viene dalla provincia americana, ha lo stesso un passato doloroso, fatto di miseria e di abbandono, e non è che una escort sia pur di lusso, eppure la sua è una parabola vincente. Invece l’italiana bazzica il mondo del cinema, ma senza speranza, è lo stesso vittima di tutti quei “porci” che assediano anche Holly. E’ un film davvero molto ma molto amaro, in cui Tognazzi inserisce, quasi per par condicio, un personaggio altrettanto amaro di quello della protagonista. Senza l’ottimismo americano…

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