Americana/6: Bret Anthony Johnston

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È in libreria per minimum fax Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea: in questa rubrica settimanale Luca Briasco ci racconta i dieci titoli rimasti fuori dai quaranta selezionati per il libro. Qui le puntate precedenti. (Fonte immagine)

Bret Anthony Johnston, Ricordami così

È sull’immagine di una famiglia distrutta che si apre Ricordami così, primo romanzo di Bret Anthony Johnston (Einaudi Stile libero, traduzione superba di Federica Aceto) e sua seconda opera dopo l’eccellente raccolta di racconti Corpus Christi, ancora inedita in Italia.

I Campbell, Eric, professore di storia, e Laura, titolare di una lavanderia, vivono immersi in un incubo fin dal giorno in cui, quattro anni prima, il loro primogenito, Justin, è scomparso. Le ricerche sono state frenetiche e hanno coinvolto l’intera comunità di Southport, la cittadina di mare del Texas in cui è ambientato il romanzo; ormai, però, quasi nessuno si fa più illusioni, ed è diffusa la convinzione, se non la certezza, che Justin sia morto. I due coniugi e il loro secondo figlio, Griff, cercano disperatamente di tirare avanti preservando una parvenza di normalità, ma l’unico modo per riuscire a farlo consiste nell’isolarsi, nel trovare spazi fuori da quella villetta come tante che, da simbolo di un contenuto benessere, si è trasformata nel cuore stesso della desolazione. Eric si è tuffato in una relazione clandestina; Laura trascorre intere nottate all’acquario, prendendosi cura di un delfino che si è arenato sulla spiaggia di Southport; Griff passa intere giornate allenandosi con il suo skateboard e sta vivendo la sua prima storia d’amore, con una ragazza strana ed empatica, Fiona, che veste sempre di nero e si tinge i capelli di verde. E il padre di Eric, Cecil – un uomo duro e tormentato, che non riesce a venire a patti con la scomparsa del nipote -, manda avanti il suo banco dei pegni e continua ostinatamente, insieme al figlio, a sostituire i volantini con la foto di Justin, che scoloriscono desolatamente, uno dopo l’altro.

In poche pagine, meno di cinquanta, Johnston ci presenta gli effetti di un evento straordinario e drammatico, e porta in scena i quattro personaggi che rimarranno al centro della storia fino al suo epilogo. Subito dopo, però, effettua una virata netta: perché di punto in bianco, inopinatamente e al di là di ogni previsione, Justin viene ritrovato e restituito alla sua famiglia. Di quanto gli è accaduto, nei quattro anni della sua scomparsa, ci verrà rivelato relativamente poco: sapremo che è stato tenuto in prigionia da un uomo e che ha subito degli abusi, ma non esiste una sola pagina del romanzo che si abbandoni a compiacimenti voyeuristici. Del resto, lo stesso Johnston è stato molto chiaro su quali fossero le sue intenzioni nel raccontare la storia dei Campbell: “Non ho mai pensato di scrivere un romanzo su cosa volesse dire essere perduti. Dopo aver finito il libro, invece, mi sono reso conto che volevo provare a raccontare come ci si sente a essere ritrovati”.

A fare di Ricordami così un grande romanzo è proprio questa scelta, insieme strutturale ed etica: concentrarsi non sulla storia di un lungo sequestro e di una perdita, ma sul ritorno a casa. E raccontarne gli sviluppi e le conseguenze senza dare direttamente la parola a chi era scomparso ed è stato restituito alla vita di un tempo, ma ricorrendo allo sguardo e alle emozioni dei suoi cari, che lo studiano cercando con trepidazione le tracce di un passato forse irrecuperabile, o tentano di venire a patti con una persona nuova e per alcuni versi, inevitabilmente, estranea.

“È strano vederlo insieme a una ragazza”, dice Justin del fratello, il cui legame con Fiona appare quasi rafforzarsi dopo il suo ritorno a casa. E aggiunge: “Sono cambiate tante cose, mi sa”, suscitando nella madre un’immediata reazione difensiva: “Non quelle importanti, – disse Laura. – Nessuno ha toccato le cose che contano. Nessuno.”

Se Laura combatte con tutta la sua determinazione per difendere l’idea che esista, tra i quattro membri della famiglia Campbell, una sorta di nucleo incontaminato e pertanto recuperabile, Eric sembra invece aderire a un’ottica sostanzialmente diversa, e fondata sull’accettazione di un inevitabile cambiamento:

“Ben presto il sogno che Justin potesse ritornare a casa per nulla intaccato dalle sue traversie aveva cominciato a svanire. Eric sapeva che, se mai l’avessero ritrovato vivo, il trauma subìto avrebbe fatto di Justin un ragazzo completamente diverso da quello che era all’epoca della scomparsa. Naturalmente avrebbero accettato questo nuovo figlio, l’avrebbero adottato, gli avrebbero offerto la stanza di Justin, gli avrebbero prestato il suo nome, ma Eric sapeva anche che ci sarebbe stato un abisso a separarli”.

Sono due verità, quelle di Laura e di Eric, conflittuali e complementari al tempo stesso: due modi di affrontare non già il trauma della perdita quanto quello della restituzione, che sono inevitabilmente destinati a entrare in conflitto ma sono anche accomunati da un amore quasi disperato e dalla volontà di difendere a ogni costo l’integrità di un nucleo famigliare probabilmente compromesso senza rimedio, o comunque condannato a una fragilità perenne.

Nel raccontare l’ostinazione con cui Eric e Laura, ma anche Griff e Cecil combattono per “ritrovare” Justin o per “adottarne” la nuova versione, Johnston raggiunge vette di penetrazione psicologica quasi ineguagliabili, turba e commuove. Segue i suoi quattro protagonisti passo passo, cogliendone lo stoicismo, la solitudine, le paure, gli slanci, mentre intorno a loro la comunità di Southport si lascia andare ai festeggiamenti; rallenta il ritmo della narrazione portandolo a un passo dalla stasi,  per permettere al lettore di immergersi nel piccolo mondo dei Campbell, trasformandolo nel proprio. Per dare una misura del livello di intimità che si crea tra lettore e protagonisti, basti questo magnifico passo, nel quale, per un istante, l’abisso che separa Eric dal figlio ritrovato sembra poter venire meno:

“In quei primi giorni, Eric era intontito. Quel senso di liberazione aveva qualcosa di allucinatorio. In certi momenti il sollievo era tale da farlo sentire privo di peso: per esempio quando vide che Justin tagliava ancora i pancake con la forchetta invece che col coltello, quando colse da dietro la porta della camera di Griff che i suoi figli stavano facendo una gara di rutti, quando Laura lo prese per mano e senza dire una parola lo condusse in fondo al corridoio per mostrargli qualcosa in privato. Aprì di poco la porta della camera di Justin, ma Eric non afferrò subito cosa ci fosse da vedere. ‘Il letto’, sussurrò lei. E allora capì. La trapunta era ammonticchiata ai piedi, il lenzuolo tutto attorcigliato e mezzo buttato a terra, il cuscino di piume infilato tra la spalliera e il materasso. Per quattro anni, quel letto non era mai stato usato e ora vederlo così magnificamente in disordine significava contemplare il senso stesso delle loro vite, la grandezza stessa dell’amore.”

Muovendo da una trama quasi “gialla”, e utilizzando diversi elementi ascrivibili alla categoria del thriller psicologico – oltre al sequestro, da cui la storia prende le mosse, basti pensare alla scarcerazione del rapitore in attesa del processo, che scatena in Cecil e in Eric la tentazione di farsi giustizia da soli -, Johnston costruisce forse il miglior ritratto di famiglia che la narrativa americana abbia saputo produrre nell’ultimo decennio. Si tratta di un’affermazione quanto meno arrischiata, visti i modelli di riferimento con i quali Ricordami così va inevitabilmente a scontrarsi – Le correzioni, prima di tutto, ma anche Middlesex di Eugenides, o Eccomi di Foer -, eppure tutt’altro che peregrina, perché in nessuno dei romanzi che ho citato è dato trovare personaggi maschili e femminili appartenenti a diverse età della vita e ritratti con tanta esattezza, né una disamina così acuta e profonda, spietata e commossa, dei legami di sangue.

Eppure il romanzo di Johnston, nonostante una buona accoglienza critica, non ha avuto in patria il successo che avrebbe meritato. Apprezzatissimo da colleghi scrittori come John Irving, Alice Sebold e Amy Hempel, è stato trattato troppo spesso dai recensori alla stregua di un prodotto di genere o di un literary thriller, e dunque recluso proprio all’interno di quella categoria cui aveva deliberatamente scelto di non appartenere.

D’altro canto, si tratta di un esito che lo stesso Johnston ha in qualche modo, se non assecondato, certamente messo in preventivo, nel nome di un’estetica che molto ha a che spartire con la sua antica identità di skater. Come ha infatti raccontato nella sua più bella intervista italiana, rilasciata a Valentina Della Seta, skate e scrittura hanno, dal suo punto di vista, molte cose in comune: “Skaters e scrittori si sentono entrambi a loro agio in zone liminali. In un certo senso se le vanno a cercare, perché è dalle cose che gli altri ignorano o buttano via, che creano qualcosa”.

Rinunciando alle grandi architetture dei Franzen e dei Foer, lavorando per sottrazione e per dettagli minimi e muovendosi al margine della narrativa di genere, Johnston ha scritto un romanzo prodigioso: che non abbaglia, non pretende di aprire mondi, ma è destinato a lasciare, nel tempo, un segno tanto più profondo, e duraturo.

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