Americana/7: Lucia Berlin

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È in libreria per minimum fax Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea: in questa rubrica settimanale Luca Briasco ci racconta i dieci titoli rimasti fuori dai quaranta selezionati per il libro. Qui le puntate precedenti. Luca Briasco presenterà Americana in giro per l’Italia: ecco i primi appuntamenti.

Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti

Nel corso del 2016, la narrativa americana ci ha offerto un’ampia messe di novità e di voci sconosciute o quasi, tutte in grado di lasciare un segno profondo al termine della lettura e di trasmettere una sensazione generale di rinnovata vitalità, che induce a legittime speranze per il futuro. E mai, come nel corso dell’ultimo anno, si è verificato un predominio così assoluto di romanzi e racconti al femminile: se infatti almeno due tra gli autori maschi e bianchi di maggior successo ci hanno regalato un nuovo libro – mi riferisco a Purity e a Eccomi, rispettivamente quinto e terzo romanzo di Jonathan Franzen e di Jonathan Safran Foer -, le vere sorprese, e le opere forse più importanti, vanno cercate altrove. Basti pensare all’esordio di una narratrice giovanissima ma di stupefacente maturità e padronanza come Emma Cline (Le ragazze, Einaudi Stile libero); al colossale, turgido e potente melodramma di Hanya Yanagihara (Una vita come tante, Sellerio); al quarto libro di Lauren Groff (Fato e furia, Bompiani), definitiva consacrazione di un talento che aveva già dato ampia prova di sé con il precedente Arcadia.

Accanto a questi tre nomi, probabilmente destinati a far parlare ancora molto di sé, è indispensabile aggiungerne un quarto, che viene ad arricchire la grande tradizione del racconto americano e quella – non meno interessante e consolidata – delle riscoperte: degli autori, in altre parole, sostanzialmente ignorati in vita, oggetti tutt’al più di un culto tenace e minoritario, per poi essere rilanciati ed elevati al rango di classici solo dopo la morte.

È questo il caso di Lucia Berlin, nata nel 1936 e morta nel 2004, a sessantotto anni di età, che ha scritto sempre e soltanto short stories, pubblicandole per riviste o per case editrici di prestigio ma decisamente minori. Finché, grazie all’impegno di due grandissimi ammiratori, Stephen Emerson e Lydia Davis, un’ampia raccolta che include tutti i suoi migliori racconti è stata lanciata dalla prestigiosa Farrar, Straus and Giroux, ottenendo un clamoroso successo di critica e di pubblico, e inducendo i recensori a lanciarsi immediatamente alla ricerca di possibili modelli, partendo come sempre dai più ovvi – il sempiterno Chekhov e i maestri americani, da Hemingway a Cheever.

Tre nomi tutti al maschile, affiancati però, negli Stati Uniti e forse ancor più in Italia, da una sorta di genealogia parallela, tesa a esaltare la produzione di Berlin come nuovo, fondamentale snodo di una tradizione di racconto al femminile che prende le mosse, in pieno modernismo, da Katherine Anne Porter, Zora Neale Hurston e Eudora Welty, passando attraverso i capolavori di Flannery O’Connor e di Grace Paley e approdando alle magnifiche raccolte minimaliste di Joy Williams e di Ann Beattie.

È stato probabilmente proprio il desiderio di dare maggior risalto a questa discendenza tutta al femminile – e magari di trarre profitto dal successo di pubblico arriso a un’altra, grande autrice di racconti insignita a sorpresa del Premio Nobel, Alice Munro – a motivare la scelta della casa editrice italiana – Bollati Boringhieri – che ha proposto la raccolta della Berlin, nella traduzione, come sempre perfetta, di Federica Aceto.

La donna che scriveva racconti: questo il titolo dell’edizione italiana, infedele e anche un po’ fuorviante rispetto all’originale, A Manual for Cleaning Women. “Manuale per donne delle pulizie”, sarebbe stata la traduzione corretta; e insieme, con una lieve forzatura sintattica, “Manuale per pulire le donne”. E infatti, non c’è uno solo dei quarantatre racconti della raccolta che non si soffermi su un personaggio femminile immerso nella sporcizia e nella pena di una quotidianità dura e spietata, ma sempre animato dal bisogno di recuperare una qualche purezza, una verginità di sguardo che consenta di tornare o di continuare a vivere, giorno dopo giorno.

Donne delle pulizie, infermiere, madri alcolizzate alla deriva: queste le protagoniste delle short stories, tutte segnate da un’evidente matrice autobiografica. C’è, ne La donna che scriveva racconti, tutta la vita di Lucia Berlin: nata in Alaska, dove il padre lavorava come ingegnere minerario, e trasferitasi in Texas durante la Seconda guerra mondiale insieme alla madre e alla sorella minore, ha poi trascorso gli anni dell’adolescenza in Cile e quelli della maturità percorrendo in lungo e in largo gli Stati Uniti, sposandosi tre volte, mettendo al mondo quattro figli, tra continue ricadute nell’alcolismo, ricoveri in cliniche psichiatriche e gravi problemi di salute, che l’hanno ridotta, negli ultimi anni della sua vita, ad abitare in un camper, in condizioni di semi miseria. Non senza aver prima assistito, a Città del Messico, la sorella malata di tumore, recuperando un rapporto di amore e condivisione che viene evocato in alcuni dei suoi racconti più belli.

Dopo la sua morte, come ci ricorda Lydia Davis in uno splendido contributo tradotto sul Corriere della Sera, uno dei quattro figli ha dichiarato, “Mamma scriveva storie vere, che non erano necessariamente autobiografiche ma poco si scostavano”, per poi aggiungere: “Le storie e i ricordi della nostra famiglia sono stati poco a poco riplasmati, abbelliti e corretti al punto che non so più con certezza cosa sia realmente successo. Lucia diceva che non aveva importanza: ciò che conta è la storia”. C’è, in quest’affermazione, una verità così profonda nella sua semplicità da lasciare stupefatti: la storia, la forza del racconto, non ha niente a che spartire con “ciò che è realmente successo”, e tutto, invece, con quei dettagli minimi, a volte secondari, quelle notazioni minute che spalancano un mondo, e ci rivelano l’anima dei personaggi. In “Cara Conchi”, la protagonista e voce narrante frequenta dei corsi di giornalismo all’università, sognando di diventare scrittrice, ma è costretta ben presto a rendersi conto di aver fatto la scelta sbagliata:

“Le lezioni di giornalismo procedono bene, gli insegnanti sono eccezionali, somigliano addirittura ai reporter dei vecchi film. Io però comincio ad avere una strana sensazione. Ho scelto giornalismo perché volevo fare la scrittrice, ma il giornalismo consiste nell’eliminare dalle storie tutte le cose più interessanti…”

Che cos’è, allora, a rendere interessante una storia se non il dettaglio apparentemente più vieto e tedioso, il tempo morto, lo scorrere vuoto delle ore, o magari un incontro che, proprio perché irrilevante e narrativamente povero di conseguenze, acquista il valore di una vera e propria epifania? Nei racconti di Lucia Berlin, è proprio da momenti come questi, dagli interstizi di vite qualunque, che irradia un’energia contagiosa, capace di illuminare il lettore e proiettarlo al centro di un mondo sublime nella sua apparente banalità.

Dagli interstizi di vite, si diceva: e ancor più dai luoghi, a loro volta banali, in cui le vite delle persone si svolgono, senza scosse, fino alla morte. Si pensi al superbo incipit di “Lutto”, nel quale la protagonista ci spiega in cosa consista il suo mestiere: “Amo le case, le cose che mi raccontano, e questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace fare la donna delle pulizie. È proprio come leggere un libro. Da un po’ lavoro per Arlene, al Central Reality. Perlopiù pulisco case vuote, ma anche le case vuote hanno le loro storie, i loro indizi. Una lettera d’amore nascosta in fondo a un armadio, bottiglie vuote di whisky dietro l’asciugatrice, liste della spesa…”

Partendo da dettagli come questi, o raccontando le ore trascorse in una lavanderia a gettoni, in un centro di disintossicazione, al capezzale di una donna malata, Lucia Berlin costruisce piccoli prodigi narrativi, tranche de vie che hanno il sapore aspro e intenso del realismo più crudo e che mantengono quasi sempre un perfetto equilibrio tra empatia e distacco, cinismo e commozione. In “Carpe Diem”, per esempio, è proprio una delle tante lavanderie di cui è popolata l’intera raccolta a trasformarsi, per la protagonista, nel luogo di un’indesiderata resa dei conti:

“E le lavanderie a gettoni. Ma quelle erano un problema anche quando ero giovane. Richiedono troppo tempo, persino quelle della catena Speed Queen. Mentre stai seduto lì, tutta la vita ti passa davanti agli occhi, come se stessi affogando”.

Non affogano però mai, i personaggi di La donna che scriveva racconti. Prodigi di resilienza, scoprono nel dolore occasioni di riscatto e dignità, e imparano a non vivere di passato, a non cercare di raccogliere i pezzi delle loro esistenze con la pretesa che recuperino una qualche integrità. Per citare le splendide parole della protagonista di “Ritorno a casa”:

Cos’altro mi sono persa? Quante volte nella vita sono stata, per così dire, sul portico dietro casa invece che su quello davanti? Cosa mi è stato detto che non ho sentito? Quale amore potrei non aver percepito?

Queste domande sono senza senso. L’unico motivo per cui ho vissuto tanto a lungo è che ho lasciato andare il passato. Ho chiuso la porta in faccia al dolore, al pentimento, al rimorso. Se li lascio entrare, se apro anche solo una piccolissima fessura in un attimo di autoindulgenza, bum, ecco la porta spalancarsi, ed entrare bufere di sofferenza che mi devastano il cuore e mi oscurano gli occhi di vergogna e rompono tazze e bottiglie buttano a terra barattoli frantumano i vetri delle finestre e io inciampo grondante sangue sullo zucchero versato e i vetri rotti e rimango terrorizzata senza fiato finché tremando e con un ultimo singhiozzo non richiudo la pesante porta.

Lasciano andare il passato, le donne di Lucia Berlin. Prendono la vita come viene, cercando di non fare danni, e portandosi il proprio dolore e i propri fallimenti chiusi dietro una porta. Sono le tempeste che si agitano dietro quella porta chiusa a innescare la tensione che, di pagina in pagina, travolge e trascina il lettore, grazie all’intensità di un autobiografismo sublimato dall’arte del racconto.

Autobiografismo, vitalità quasi elettrica, sublimazione del dolore: tutti elementi che, al di là dei tanti ascendenti su cui si è scervellata la critica, fanno nascere istintivo l’accostamento ad altri due maestri come John Fante e soprattutto Charles Bukowski: pubblicati entrambi, e forse non a caso, da quella stessa Black Sparrow Press che, ben prima di Farrar Straus e di ogni fama postuma, ha sostenuto e mantenuto in stampa per anni i meravigliosi racconti di Lucia Berlin.

Commenti
2 Commenti a “Americana/7: Lucia Berlin”
  1. Sandra ha detto:

    Stupendous Lucia Berlin e non dimentichiamo Joan Didion…..

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