Ritratto di Charles D’Ambrosio, scrittore colto e disperato

charles-dambrosio-

Questo articolo è apparso su Robinson – la Repubblica. Charles D’Ambrosio è in Italia, ospite della Primavera Torinese del Salone Internazionale del Libro: dal 29 marzo al 2 aprile incontra i lettori a Torino, Milano, Vigevano, Roma e Palermo. Tutte le tappe del tour.

I saggi autobiografici, spiega Charles D’Ambrosio nella prefazione a Perdersi – pubblicato in Italia da minimum fax nella traduzione, come sempre ineccepibile, di Martina Testa – sono confessioni di individui incerti, solitari, liberi; “e anche in quelli meglio riusciti c’è sempre un che di incompiuto, una nota di esitazione che li rende più accessibili”. Non sapere dove si sta andando, puntualizza più avanti citando Lutero, è la vera conoscenza.

Per questa programmatica mancanza di certezze e assertività, necessarie invece nel caso di un romanzo o racconti, l’autore sceglie una lingua sontuosa, amplissima, cosi solida da potersi prendere tutto il tempo e l’inventiva che vuole senza vacillare. Sembra quasi che il linguaggio immaginifico, seduttivo e avvolgente, sia lì anche per occupare lo spazio della finzione, lasciata fuori dalla pagina.

Charles D’Ambrosio – già autore di due raccolte di racconti entrambe pubblicate da minimum fax – è uno scrittore colto e disperato, che usa un linguaggio alto ed elaborato per consegnarci pezzi di carne viva, scorci di umanità mutilata e dolente. Fratelli e sorelle, dice lui, e corpi. La saggistica autobiografica, scrive infatti, è collusa col corpo dell’autore più di qualsiasi altro genere letterario, impossibile tirarsi indietro.

D’Ambrioso è nato a Seattle nel 1958. Prima dell’avvento del grunge, dei Nirvana, della musica che l’avrebbero redenta e resa famosa: negli anni settanta Seattle, scrive l’autore nel primo dei saggi intitolato “Seattle, 1974”, era semplicemente “il punto più basso di qualsiasi cosa”. I suoi miti locali erano un tizio che sfasciava macchine con un martello da fabbro in televisione e Ivar, che gestiva un ristorante di pesce e suonava l’ukulele in modo melenso, convinto che cultura e frutti di mare potessero in qualche modo coniugarsi.

Geograficamente in esilio, ha l’angosciante consapevolezza che tutto si stia svolgendo da un’altra parte, laggiù a Est, forse in Francia. Legge Henry James, Joyce, Pound, Eliot, aspetta l’autobus sotto una pioggia infinita, e si consacra a qualsiasi forma di fallimento.

Sappiamo bene come la provincialità, unita all’ossessione per l’altrove, sia un infallibile motore letterario. Da noi, solo per fare qualche esempio, ne hanno fatto malattia della loro esistenza e talento di scrittori Luciano Bianciardi, Beppe Fenoglio, Pavese, ognuno impegnato nella sua personale solitudine… “dov’erano tutte le altre persone che non sapevano, che non capivano. Noi esitanti, noi combattuti, siamo tutti soli?…” si chiede per l’appunto D’Ambrosio. E intanto sfodera l’altra maledetta affezione dell’anima: la famiglia. Col suo carico di angoscia, infallibile macchina di tortura dalla quale è impossibile affrancarsi.

Danny, il fratello di D’Ambrosio, si è ucciso sparandosi in testa. Mike, l’altra fratello, è schizofrenico, e una mattina è saltato giù dall’Aurora Bridge, e sbattendo sull’acqua si è sfracellato il bacino e la vescica, slogato una spalla. Ma è sopravvissuto.

Non sorprende quindi che uno dei saggi di Perdersi, “Salinger e singhiozzi”, sia dedicato al Giovane Holden che D’Ambrosio legge come un libro sul suicidio e sul silenzio. E dall’invenzione di Seymour (il più vecchio dei fratelli Glass morto in un racconto intitolato “Un giorno ideale per i pesci banana”) in poi, tutta l’opera di Salinger sarebbe una riflessione sul suicidio, avvitata sulla fede nella famiglia. E in particolare sulla famiglia numerosa con un’affettività di tipo orizzontale: fratelli e sorelle, come i Glass, uniti contro l’imperfezione insopportabile dell’esistenza.

E non è un caso che uno dei saggi più belli di questa raccolta, piena di intelligenza, umorismo e empatia (parola che ricorre con frequenza), racconti di una visita all’orfanotrofio di Svir’stroj, cinque ore di strada da San Pietroburgo. Dove una comunità di bambini vive nella rovina, dentro un alloggio costruito per i piloti di addestramento e poi usato per i prigionieri di guerra tedeschi e ungheresi. Un universo a parte che ha conservato un sapore carcerario negli oggetti e nei modi, la cui estetica della nostalgia è determinata dalla totale e sconvolgente assenza di modernità capitalistica: la merce viene scambiata perché manca il denaro, si allevano topi come animali domestici, le foto ritagliate dai giornali nascondono le crepe dei muri. Nell’album di fotografie di Yana, sedici anni, ci sono soltanto i ritratti che le hanno scattato gli sconosciuti in visita. Sempre sullo sfondo dell’orfanotrofio una ragazza in posa, mai stata bambina, né altrove.

Ma se sei un grande scrittore, com’è senza dubbio D’Ambrosio, la stessa sperduta marginalità la trovi in un orfano, in te stesso, e persino in una tribù di nativi americani cacciatori di balene. Esiliati dal nostro rispetto per abitudini che fino a ieri erano considerate innocenti.

Così nel magnifico “Caccia alle balene nel profondo ovest”, dove lo scrittore si interroga sulla violenza della nostra pietà. C’è un aspetto messianico, una purezza superiore e sacra difficile da digerire nella retorica di chi si sente ostinatamente dalla parte del giusto. Di chi pensa di voler salvare le balene e abbandonare alla disperazione villaggi di persone che di balene si sono cibati da secoli. “L’amore astratto è il vicino ficcanaso dell’odio stretto: ciascuno guarda dentro le finestre dell’altro e si trovano sempre d’accordo su tutto.”

Commenti
Un commento a “Ritratto di Charles D’Ambrosio, scrittore colto e disperato”
Aggiungi un commento