La parola sospesa tra il dire e il mare

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Questo pezzo è apparso su Pagina 99. (Immagine: Caleb George via Unsplash)

Quando lessi per la prima volta il celebre primo capitolo di “Moby Dick”, quello sulla potenza del mare e dell’acqua, pensai che fosse intrigante ma un po’ esagerato. Troppo americano. Troppo retorico. “Perché quasi ogni ragazzo sano e robusto, che abbia dentro in se uno spirito sano e robusto”, si chiedeva Melville, “prima o poi ammattisce dalla voglia di mettersi in mare? Perché al tempo del vostro primo viaggio come passeggero, avete sentito in voi un tal brivido mistico, non appena vi hanno detto che la nave e voi stesso eravate fuori vista da terra?”. Innegabile che Melville sia un grande scrittore, eppure la sua mistica del mare mi suonò pomposa. “Acqua e meditazione sono sposate per sempre”, declamava Melville sempre in quel celebre primo capitolo.

Anni dopo, durante una traversata oceanica – per la quale non avevo alcuna preparazione né psicologica né nautica né avevo mai praticato la meditazione – la faccenda mi fu chiara: era quell’assenza di tempo, o meglio quel tempo svuotato da pensieri ossessivi, quella incredibile, benefica, riposante pulizia mentale. Quello stato di benessere, a cui in fondo noi tutti aspiriamo quotidianamente, chi facendo yoga, chi lavando i piatti, chi leggendo self help. Non era poi così misticheggiante Melville; e in ogni caso molto meglio della lirica disperazione di John Masefield, il poeta inglese e ex capitano di Marina che scrisse “Sea fever”: “Devo tornare sul mare, alla vita / di zingaro vagabondo; alla via/ delle balene e degli uccelli marini,/ dove il vento è una lama tagliente”.

Di ritorno dalla mia traversata, per spiegare ai “normali terrestri” la qualità della concentrazione che si ha in mezzo al mare, dicevo che se avessi voluto in quei giorni avrei potuto imparare il giapponese. Non è facile da far comprendere a chi non ha vissuto il mare aperto, anche soltanto un “primo viaggio come passeggero“. Fiumi di inchiostro sono stati scritti nel frattempo sugli effetti benefici dal mare. Conferenze, studi universitari, ricerche scientifiche. Il mare fa bene. “Il mare può ripulire da ogni male”, diceva Ifigenia, riferendosi al fratello Oreste dopo dall’assassinio di sua madre, lei davvero un po’ iperbolica.

Ne “La traversata” (Bompiani) di Andrew Miller, una donna silenziosa e anaffettiva, dopo il peggiore dei lutti, si mette in mare, da sola e attraversa l’oceano Atlantico, in un “viaggio nella ferita” a dir poco estremo. Se la navigazione in solitario è “uno stato d’animo”, come scrive Miller, e di certo non è per tutti, lo stato mentale “blue mind” è raccontato da in egual misura surfisti, velisti, pescatori, nuotatori in mare aperto: il mare è una medicina potente, è pura adrenalina, una droga, perfino.

Lo sostengono medici, neuro-scienziati, biologi, psicologi, cartoni animati. Nel lungometraggio d’animazione “Oceania” il mare è un autentico personaggio, muto ma determinato. Un po’ come il tappeto volante di Aladdin è compagno fidato della protagonista, è trasparente e dispettoso o salvifico. I creatori del film (gli stessi de “La Sirenetta”, che tra l’altro nella versione di Andersen è una delle storie di mare più seminali e struggenti di sempre) sono andati nel Pacifico e hanno studiato costumi e leggende locali, forse semplificandole un po’, ma il risultato è eccellente. Nella versione originale il cartone s’intitola “Moana”, come il nome della protagonista (in quella italiana si chiama meno rischiosamente Vaiana), che significa “nel blu più profondo”: secondo la cosmologia polinesiana infatti “moana” è l’ottavo e ultimo strato dell’oceano. In buona sostanza, per costruire una storia moderna sul mito dell’Oceano, gli americani sono andati proprio alla ricerca di quelle culture antichissime – polinesiana e maori – dove il culto del mare è un fatto assodato. E dai quali, sembrano dirci, quelli della Disney un po’ disneyamente, dovremmo imparare anche noi occidentali.

A La Paz in Bolivia si festeggia ogni anno il Día del Mar, il 23 marzo. Ma il mare non c’è. O meglio non c’è più, da quando nel 1979 durante la Guerra del Pacifico i boliviani persero la loro costa in guerra contro il Cile. La ferita nella Nazione è talmente grossa che di recente è stata fatta un appello alla Corte Costituzionale dell’Aia per riavere l’accesso al mare, che nondimeno portava enormi vantaggi economici. La Bolivia ha ancora una marina militare che si tira i pollici sul Lago Titicaca. Ogni anni “bambini e soldati vanno in parata per le strade della capitale, perché solo ciò che è perduto ci appartiene in eterno, e forse neanche quello”, scrive Morten A. Stroksnes ne “Il libro del mare” (Iperborea). “Il mare se la cava bene senza di noi, siamo noi che senza di lui non ce la caviamo”, continua.

Nel libro di Ströksnes, che tiene in sé il simbolismo tipico della letteratura di mare, non c’è la balena bianca o il pescespada di Hemingway, ma lo squalo della Groenlandia, un essere ancestrale, l’animale più longevo del pianeta. Storia vera: due amici – uno dei quali è l’autore stesso – che vanno a pescare il pesce impossibile, ma si capisce che sono tutte scuse per raccontare gli abissi ancora inesplorati dall’uomo, l’ossessione per la preda, l’ansia dei marinai di tornare in mare (“I marinai a terra fanno pensare a ospiti irrequieti”) e ancora una volta il desiderio lacerante di tornare in mare.

Ströksnes ci spiega il mare in modo moderno, sottolineando anche l’emergenza ambientale che lo circonda, ma “senza piagnucolare su quanto è cattivo l’essere umano”, come ha scritto Fredrik Sjöberg. Per lo scrittore norvegese rimane il fatto che il mare è sostanzialmente crudele e indifferente (quella “sua insondabile crudeltà”, per dirla con Conrad): “Il mare nero, profondo e salato ci rotola incontro, freddo e indifferente, privo di qualsiasi empatia. Non di proposito, è solo se stesso. È ciò che fa ogni giorno, anche senza di noi, non si preoccupa delle nostre speranze, né delle nostre paure – e non gli importa niente delle nostre descrizioni. L’oscura pesantezza dell’oceano è una forza superiore. Molti si sono ritrovati in questa situazione, da quando alcuni nostri temerari antenati misero in acqua un tronco scavato, partirono pagaiando sulle onde sonnecchianti e arrivarono lontano, troppo lontano, dove le correnti erano più forti delle braccia e della pagaia. O forse, come noi, furono sorpresi da una burrasca. Dovettero provare tutti la stessa sensazione, lo stesso brivido freddo, quando capirono che il mare non ha sentimenti né memoria”.

Anche per Andrew Miller il mare è solo “la curva del mondo”. O forse addirittura, azzarda lo scrittore britannico, il mare ci fa così bene, ci riposa la mente e cura il cuore, proprio per la sua mancanza di senso: “Quando chiude gli occhi vede solo il mare, il suo moto incessante, né duro né calmo, né contrario né propizio, una visione libera da qualsiasi cosa che somigli a un senso”.

C’è anche chi come David Foster Wallace ne ha terrore e lo considera “come un nada primordiale, senza fondo – abissi popolati da esseri con denti affilati che risalgono verso di te alla velocità di una piuma che cade”. Per Wallace l’oceano è “salato come l’inferno e non è altro che “una gigantesca macchina di decomposizione”. Allora forse stiamo bene al mare, lo cerchiamo, ne facciamo un luogo del desiderio, cerchiamo il suo abbraccio nuotandoci dentro, proprio perché lui non ci chiede nulla in cambio, come un amante senza richieste. “Chi o cosa l’ha mai abbracciata come fa il mare?”, scrive ancora Miller.

Nuotare nel mare, come fa la protagonista de “La traversata”, ti connette con la tua mortalità. “Ti ricorda che potresti morire”, come mi ha raccontato una volta Philip Hoare, il più grande cantore contemporaneo del mare, a proposito delle sue folli nuotate al buio. Del resto “il mare è l’origine”, come scrive oggi Ströksnes, senza suonare niente affatto pomposo.

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