Anna Achmatova: la rivoluzione vicina è così lontana

anna achmatova

L’ultimo numero di Nuovi Argomenti, uscito il 21 novembre, è dedicato alla Rivoluzione d’ottobre. Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un brano di Simona Dolce.

di Simona Dolce

Pietroburgo, 23 Febbraio 1917

Il gelo li avrebbe fermati, ne ero convinta. E invece il diluvio di uomini ha reso le strade fiumi in piena. Mille notti bianche e in bianco a ritrovarsi e incitarsi, una massa che si crea e si disfa senza controllo apparente, come pozzanghere sempre più alte. Mi dicesti che non mancava molto, che saresti tornato, per difendere la monarchia. Se uno come te aveva cacciato leoni in Africa, come avrebbero potuto spaventarti i bolscevichi?

Ora sei lontano.

Ho una tua lettera di molte settimane fa, quando il freddo era ancora più violento e le lanterne fioche sembravano lucciole morenti, quando anche il canale Caterina si era ghiacciato di una lastra sottile, trappola per camminatori. Il freddo non ha alcun rispetto delle gerarchie umane avrei voluto dirti, con la testa poggiata sulla tua spalla, e tu mi avresti sorriso e baciata, e pur sapendo che ti provocavo mi avresti risposto comunque, fedele alla tua visione del mondo e troppo serio, da soldato. Mi sembra di sentire il suono delle tue parole. «Senza ordine cosa siamo? Solo desiderio libero, la peggiore prigione. L’unica vera libertà è nella poesia». Avremmo litigato. E invece non è il suono della tua voce, quello che sento, Nikolaj, ma il suono poderoso dei migliaia che invadono le strade. Si dice che siano centomila, forse il doppio, e io non trovo la forza di gettare il mio corpo sulla strada. Eri in Macedonia, e ora? Dove sei? Rileggo versi che ho scritto tre anni fa. Se li sento miei anche stasera, che vuol dire? La mia vita è andata avanti?

Distacco

Ho davanti la via isoscele
della sera.
Già ieri, innamorato,
supplicava: “Non dimenticarmi”.
E adesso solamente i venti
e i gridi dei pastori
e i cedri agitati
sopra fresche fontane.
Pietroburgo, primavera 1914

È un bene che tu non sia a Pietroburgo, benché io non sappia dove e con chi sei. C’è un fermento irrefrenabile che sembra potersi diffondere più forte di un’epidemia di peste, e anche se non esco molto, solo per curare la corrispondenza con te, sento scosse negli animi della maggioranza. Scosse di gloria e cuori che battono come tamburi, e poi si canta, si canta sempre. Tutti cantano. «Il nostro oro sono le nostre voci squillanti dicono, le nostre armi le nostre canzoni», e vanno avanti a petto in fuori, e le bandiere rosse viste dall’alto sono imperiose, sembrano infiniti tagli sulla carcassa della città divorata, dilaniata, e se fossi stato qui, tormentato ti saresti chiesto «e allora?». Quando i proiettili dei cosacchi li pungeranno come uno sciame di vespe? Quando reagiranno i faraoni? Quando mostrerà tutto il suo potere Nicola II, per Grazia di Dio Imperatore e Autocrate di tutti gli zar di Polonia, di Mosca, di Kiev, di Vladimir, di Novgorod, di Kazan, di Astrachan e della Siberia, granduca di Finlandia e di Lituania, erede di Norvegia, signore e sovrano di Iberia, dell’Armenia e del Turkestan, duca dello Schleswig-Holstein, dello Stormarn, di Dithmarschen e dell’Oldenburg?

A vedere questo lassismo, a vedere i soldati a cavallo inermi, avresti titubato anche tu, più maturo e meno idealista di quando partisti volontario. Mi hai insegnato molto, a fare delle parole lame di bisturi, pura materia, come se la poesia fosse davvero il suono ultimo della voce di Dio.

Ma sei lontano. Com’è successo altre volte, come talvolta è inevitabile anche tra moglie e marito. Seppure mogli e mariti in questa Rivoluzione si creano e si disfano con una tale rapidità. E della fine della nostra unione io sono responsabile quanto te, non credere che non lo sappia. Shileyko non è solo uno dei miei tanti amanti passeggeri ma è una libera scelta. Mi sono sentita così impura… pensavo, è come entrare in un convento sapendo di perdere ogni libertà.

Eravamo in guerra, appena tre anni fa, e scrissi: Invecchiammo di cent’anni e accadde in un’ora soltanto.

Quell’ora ingoia tutto il futuro, persino adesso. Ricordi? Quanto tempo è che non scriviamo insieme? Che non ci leggiamo vicendevolmente?

C’è nell’intimità degli uomini un confine
che né l’amore, né la passione possono osare:
le labbra si fondono nel terribile silenzio
e il cuore si spezza per amore.
Anche l’amicizia qui è impotente, e gli anni
pieni di felicità alta infiammata,
quando l’anima è libera e distratta
dal lento languore della voluttà.
Pazzo è colui che vi si appresta,
raggiungerlo è morire d’angoscia…
Ora puoi capire perché non batte
il mio cuore sotto la tua mano.
Pietroburgo, maggio 1915

Mi manchi, e mi manca Osip (Mandel’štam).

Una parte di questo fervore di cui sono oggi solo spettatrice, pochi anni fa era il nostro. Non lottavamo contro il prezzo inarrivabile della carne o nel pane, e nemmeno per togliere dal fango della guerra più di quindici milioni di russi. Volevamo solo nuove possibilità espressive che appartenessero a un continuum, non russo, ma mondiale.

Blok dirà che ciò che ha ucciso Puškin non è stato il proiettile di d’Anthes ma la mancanza di aria. La mancanza di pace e di libertà creativa.

Era in questo che credevamo. Pensieri inchiodati alle parole, ma liberi e immateriali. Io non sono come te, Nikolaj, non ho certezze sul bene collettivo, non ho teorie. Fuori vedo giochi di potere e non ho voluttà di farne parte. Ma so vedere quando il cielo si annoia delle stelle. E ciò che oggi osservo dalla mia finestra, lo avevo visto molti anni fa. Me lo ha ricordato proprio Osip, in una lettera. Un mio vecchio verso, che diceva:

S’avvicina il secolo ventesimo/ autentico, non da calendario.

È scoppiato quel secolo e tu non ne fai parte. È esploso in fiumi di bandiere rosse dovunque. Poi crepiteranno nel sangue di strade e città intere, ma non ancora, non questa sera.

Non hai visto tuo figlio Lev che poche e brevi volte, non ne conosci la curiosità vivace né la parlantina. E neanche io riesco a raggiungerlo a Slepnevo dove si trova con mia madre.

Tra molto tempo, un giorno, sarò anch’io una di quelle madri senza certezze in fila fuori dal carcere. Un giorno per lui porterò pacchi alla guardia. Saranno pietre pesanti come l’attesa di sapere se lo hanno ucciso o no, se vivrà oppure no. E gioirò senza sorrisi quando la guardia accetterà il mio pacco perché allora vorrà dire che forse è ancora in vita. Ci aggrapperemo a

queste credenze, a questi sottintesi, ai non detti. Piomberemo in un secolo in cui le parole significano altro, ogni singola parola significa sempre qualcos’altro.

Mentre oggi ancora il fiume rosso scorre impetuoso sui ponti e io posso sentirmi angosciata per la tua sola assenza, ancora ignara di tutto.

Lo scricchiolio delle cose che conoscevamo, le speranze incrinate e le scommesse a dadi con la fame non mi hanno ancora raggiunta, è ancora troppo presto per sentire la corsa della morte alle mie spalle. Fuggire dalla Russia? Non io, non posso lasciare orfana una madre.

Sento comizi che iniziano fiochi e attraggono piccole moltitudini, teste alte e superbe. «Laveremo le città dei mondi!» urlano, e seguono i boati. Si dice che lo zar sia lontano, a Mogilёv, e che pur inviando ordini sbiaditi alla fine si sia arreso. Il caos è pieno di corpi sdraiati ai margini delle strade. La nostra letteratura muore con loro. Si parla di cooperative di prestito e di produzione, e io non ho dentro me nessuna parola che non sento vuota, recalcitrante, inerme. Che sarà di voi? Di te e di Osip? Che sarà di Lev? Di mia madre, di mia sorella Iya? Che ne sarà dei miei amati fratelli, di Victor e di Andrej? Rimpiango l’Italia, i viaggi, rimpiango Modigliani e le risate. Rimpiango i vent’anni io che ne ho ventotto appena. Ma la vita prosegue, verso l’irosa primavera dai tigli fruscianti, e come sempre voglio amarla. Come se fosse una passeggiata al Bois de Boulogne, una poesia di Verlaine sulla panchina del Lussemburgo. Un momento ancora, uno solo, lo concedo al ricordo della tua assenza. Poi mentre il mondo procede nel cambiare, guarderò silente l’orizzonte del tuo ritorno.

Lo stormo bianco

Non so se sei vivo
o sei perduto per sempre,
se posso ancora cercarti nel mondo
o ti debbo piangere mestamente
come morto nei pensieri della sera.

Ti ho dato tutto: la quotidiana preghiera
e la struggente febbre dell’insonnia,
lo stormo bianco dei miei versi
e l’azzurro incendio degli occhi.

Nessuno mi è stato più intimo di te,
nessuno mi ha reso più triste,
nemmeno chi mi ha tradita fino al tormento,
nemmeno chi mi ha lusingata e poi dimenticata.
Slepnevo, 1915

Aggiungi un commento