Fabrizio e Luigi

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Ricordando che questa sera e domani verrà trasmessa su Raiuno la miniserie Fabrizio De André – Principe libero, dedichiamo questa giornata a De André (fonte immagine).

Uno era straordinariamente epico, con punte alla Chanson de Roland, l’altro sommessamente lirico. Uno giocava con le parole, fino a renderle più raffinate di quelle che erano, l’altro, forse per timore, quasi le nascondeva, consapevole che si possono raccontare gli amori del mondo anche per sottrazione. Uno era un ombroso borghese con il montgomery diventato presto un solitario anarchico, alla Brassens più che alla Bakunin, l’altro un sognatore anticonformista riduttivamente etichettato come comunista. Uno si ispirava ad un certo tipo di sonorità francese, che qualcuno allora aveva chiamato esistenzialista, l’altro era affascinato dal cool jazz e passava gran parte del suo tempo ad ascoltare Route 66 di Nat King Cole, che poi rifaceva splendidamente. Entrambi però viaggiavano in direzione ostinata e contraria. Quella tra Fabrizio De André e Luigi Tenco fu un’amicizia fragile, raffinata ed eterea come possono esserlo sole le cose che hanno vita breve.

Si incontrarono al massimo una ventina di volte, ma sufficienti a creare una legame profondo in quella Genova di inizio anni Sessanta dove tutto odorava di conservazione: la città, la borghesia, la Chiesa (con il Cardinal Siri a tirare le fila) e anche quel partito Comunista a forte trazione operaia che mal digeriva insofferenze e spifferi di ribellione. Naturalmente da buoni viveur avevano i loro posti prediletti: come il celebre baretto di corso Italia, che Faber aveva etichettato “il covo di fasci”, dove provocatoriamente discutevano di politica, o la spiaggia della foce, dove i ragionamenti intorno ai massimi sistemi o le discussioni su uno dei loro film preferiti, “La Battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo, potevano protrarsi fino al giorno successivo, a patto che ad accompagnarli ci fossero svariate bottiglie di cognac e e ingenti scorte di tabacco.

Musicalmente si erano conosciuti al Modern Jazz Club sul finire degli anni Cinquanta, dove De André aveva iniziato a suonare la chitarra in un gruppo jazz guidato dal pianista Mario De Sanctis. Sonorità west coast, principalmente, con incursioni nel be-pop. Luigi Tenco vi partecipava occasionalmente suonando il sax, ma mostrando poca voglia di socializzare. “A quel tempo ci conoscevamo appena, con lui le prove non le ho mai fatte – ha rivelato De André a Luigi Viva, autore dell’ottima biografia ‘Non per un dio ma nemmeno per gioco’ – arrivava, suonava e subito dopo se ne andava”.

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La stima reciproca arriverà un paio di anni più tardi, ma l’inizio del loro rapporto è legato ad un episodio curioso. Fabrizio De André, più giovane di qualche anno e meno conosciuto del collega, pare se ne vada in giro ciondolante e con quella sua aria trasognata per i carruggi genovesi sussurrando a inermi fanciulle il testo di una canzone che inizia così: “Quando-il mio amore-tornerà da me-nel cielo-una stella spenderà”. E’ “Quando”, la canzone che consegna Tenco alla storia della musica autoriale italiana. La voce comincia a circolare e Tenco decide di mettersi alla ricerca di quel giovane ragazzo. Pretende spiegazioni. Lo incontrerà una sera alla Cambusa, locale del centro cittadino. Faber, preso alla sprovvista, non nega: “Lo faccio per far colpo sulle ragazze”. E’ la fine di un litigio mai avvenuto e l’inizio di una amicizia vera.

“Più che cercare di aiutarmi mi stimava”, ha raccontato Faber. Alla sua prima uscita con puny (la futura prima moglie Enrica Rignon), nel giugno del ’61, la porta ai bagni Tre Pini ad ascoltare l’orchestra di Luigi Tenco, che a metà serata costringe il timido De André a salire sul palco, imbracciare la chitarra e suonare “La ballata del Michè”, il primo capolavoro del cantautore genovese, dove sono già evidenti le influenze della canzone francese e alcune delle tematiche che approfondirà in futuro (il rapporto con la Chiesa, l’indulgenza, il suicidio). “Quella canzone mi ha salvato la vita. Se non l’avessi scritta – ha detto una volta – probabilmente, invece di diventare un discreto cantautore sarei diventato un pessimo penalista”. E fu sempre Tenco a litigare con il regista Luciano Salce per inserire “La ballata dell’eroe” nella colonna sonora del film “La Cuccagna”. “Ti va se ti piglio la ballata dell’eroe?” gli aveva chiesto preventivamente al telefono Tenco. “Ma figurati, Luigi, mi fa piacere”.

Avrebbero voluto lavorare insieme, provare a comporre qualcosa di importante, ne parlarono una volta seduti ai tavolini del baretto di cosa Italia, ma quel disco “anarchico” o “comunista” non vide mai la luce. S’incontrarono l’ultima volta pochi giorni prima di quel maledetto festival di Sanremo, tirando come di consueto fino a tardi. “Mi parlò della sua angoscia di affrontare la bolgia del Festival”, raccontò in seguito un incredulo De André. Non appena gli comunicarono la notizia di quell’assurdo suicidio si precipitò all’obitorio in compagnia di puny e Anna Paoli. “Quando lo vidi lì disteso, con questo turbante di garza insanguinato, mi colpirono il pallore della morte e il colore viola scuro delle sue labbra carnose”.

Nel viaggio di ritorno a Genova, ispirandosi a una poesia dell’autore francese Francis Jammes, Faber compose mentalmente “Preghiera in gennaio”, la più straordinaria preghiera laica della canzone italiana. Ma per evitare strumentalizzazioni solo anni dopo dichiarò di averla scritta per il suo amico Luigi Tenco. “Signori benpensanti /spero non vi dispiaccia /se in cielo, in mezzo ai Santi/Dio, fra le sue braccia/soffocherà il singhiozzo/di quelle labbra smorte/che all’odio e all’ignoranza/preferirono la morte”.

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