Almanacco del giorno stesso: il 23 marzo

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L’Almanacco del Giorno Stesso celebra la memorabilità di ciascuno dei giorni in cui si svolge BOOK PRIDE, la Fiera nazionale dell’editoria indipendente che si tiene a Milano da oggi fino al 25 marzo. Mescola fatti accaduti e fatti del tutto immaginati (dove l’accaduto può apparire inverosimile e l’immaginato del tutto verosimile), facendo del tempo ciò che in effetti è, vale a dire un’invenzione. Il tutto assume la forma di un reading con accompagnamento musicale. Il reading – con Enrico Gabrielli e Sabastiano De Gennaro – è previsto alle 18,00 di venerdì 23 marzo nello Spazio A di Base. Pubblichiamo un estratto del testo di Chiara Valerio.

di Chiara Valerio

Il 23 è un numero dispari, è un numero difettivo (è maggiore della la somma dei suoi divisori), è un numero primo ed è un numero primo fattoriale (la sua scomposizione è 4! -1). Il 23 è un numero primo sicuro (23-1)/2 è ancora un numero primo, il fattoriale di 23, ha esattamente 23 cifre, ed è tra tutti i naturali il primo (di soli due numeri, l’altro è 239) che richiedono esattamente 9 cubi positivi per essere rappresentati (due volte 2 alla terza, più 7 volte 1 alla terza e in effetti detto così non è molto interessante).

Il 23 però è anche l’anno in cui Strabone, storico romano che amavo moltissimo perché mi faceva ridere il nome, pubblica la Geographica, opera nella quale descrive il mondo così come era conosciuto sotto l’Imperatore Augusto. L’atlante, se così possiamo definirlo, compilato da Strabone è l’unico atlante che sia rimasto di quel periodo. Dunque, in effetti, noi non conosciamo il mondo sotto Augusto, noi conosciamo i confini del mondo che Strabone pensava ci fossero sotto Augusto, e che forse ha inventato. L’idea che Strabone potesse essere strabico, per assonanza, o miope, astigmatico, ipermetrope o addirittura Cieco, come Omero, la coltivo come una pianta grassa che cresce nonostante io non sia in grado di curare niente. Il 23 inoltre, nella smorfia napoletana è lo scemo, come mi veniva ripetuto ogni volta che usciva a Natale quando giocavamo a tombola. Chiedevo con un certo timore cosa fosse o chi fosse lo scemo.

Uno che lo è o uno che lo fa – d’altronde, nei rimproveri durante la nostra adolescenza, i miei genitori avrebbero cominciato o avevano già cominciato a spuntare l’iterazione, quasi il ritornello Ma ci sei o ci fai? (a non capire una cosa o un’altra) – , dunque il 23 indica uno che è uno scemo o che fa lo scemo? Che non capisce proprio o che non vuole capire, dunque che non ha l’intenzione di capire? Io, nonostante l’intenzione, la faccenda dello scemo non l’ho mai capita. Tuttavia, nei lunghi anni di matematica, facoltà nella quale e per la quale capitava di incappare nel 23 anche senza giocare a tombola, ogni volta che incontravo un 23 mi ricordavo dello scemo. E un pomeriggio, al professore di algebra doveva essere sovvenuta la stessa vecchia, risalente, ormai confortevole curiosità perché, interrompendo la litania sui campi e gli anelli aveva detto Il 23 nella smorfia napoletana è quello che vende le mele cotte, un po’ sciancato, un po’ scazonte, come certi metri latini. In effetti, le mele cotte senza cannella, zucchero e buccia di limone, le mele cotte sono sceme, scipite. Lo scemo, insomma, è uno che non è in relazione con gli altri. Quod erat demonstrandum.

Il 23 Marzo del 1946, tu hai due giorni, tre nomi propri e sei in una bella casa vicino Bruxelles, probabilmente in braccio a qualcuno. Una madre, una balia, un parente. Sei un neonato con gli occhi chiari, ma tutti i bambini sembrano avere gli occhi chiari, e sei paffuta, cosa che, probabilmente, non sarai più per tutto il resto della tua vita. Gli occhi chiari invece sono rimasti, verde acqua, verde salvia, verdi. Probabilmente sei vestita di bianco, o forse non sei vestita, sei avvolta in fasce. Probabilmente non piangi nemmeno appena nata, nemmeno per protestare, e tu, in effetti, non piangi, ti si inumidiscono gli occhi, semmai. Gli occhi sono verdi, aggiungo, come è verde una certa acqua di una certa baia di Palmarola, ma devo crederti, e ti credo, perché ancora non  siamo andate. Però, mi dici però, devo portarti mentre spegni il motore della barca, sorridi al mare e vai a stenderti a prua, continuando a sorridere al sole, all’aria, al blu, al giallo, al verde.

Qualche volta, dici rivolta all’acqua, in Grecia, da ragazza, mi tuffavo dalla barca, arrivavo a terra a nuoto ed entravo nelle chiese ortodosse per salutare le iconostasi. Se il 23 Marzo del 1946 non ci siamo ancora incontrate, il 23 Marzo del 2017 siamo insieme a Galatina, in Puglia e c’è il sole. Siamo venute per la cattedrale. Tu non sei mai stata in Puglia e io devo tenere una lezione. Così. Due fatti e un servizio come si dice dalle mie parti invece di Due piccioni con una fava. Una lezione su che cosa sia la voce di un autore nel romanzo. Se la grammatica è per uno scrittore ciò che i colori sono per un pittore, allora la voce di uno scrittore, quella di cui si può parlare senza apparire vaghi, è la grammatica.

Così prendo in rassegna tre romanzi. I promessi sposi di Alessandro Manzoni, dove i protagonisti sono descritti in terza persona. Il Barone rampante di Italo Calvino nel quale il protagonista è descritto in seconda persona e I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy nel quale la protagonista parla in prima persona di sé e di Frédérique che è la ragazza che avrebbe voluto essere. Parlo delle voci verbali dell’autore. Le uniche declinabili. Ti guardo mentre mi ascolti e ti sorrido. Cerco di parlare lentamente e di mantenere dritte le spalle, forse ti sembro un bambino, compito, alla recita di Natale, ma imperterrite, io e la mia buffa autorevolezza ti sorridiamo. Anche il 23 Marzo del 2017 sei vestita di bianco, questo non lo ipotizzo, lo so. Ti sto guardando. Intuisco però che le parole non mi basteranno, così ti scatto una foto. Foto che poi posterò su Istagram di modo che se anche i miei ricordi si riveleranno insufficienti, ci saranno comunque quelli degli altri. Dunque, ti guardo. Stai in piedi con la testa rivolta verso l’alto, un pantalone bianco corto sulla caviglia, un piumino bianco, scarpe di tela bianche con la para scura, una sciarpa morbida e senape avvolta intorno al collo, ferma in mezzo alla navata centrale, guardi in alto.

In realtà, la cattedrale di Galatina non è una cattedrale, è una basilica, mi domandi la differenza ma rispondo vaga, questioni di vescovi e arcivescovi, dico. Gli archi sono a sesto acuto, le navate sono tre e i muri e i soffitti e le lunette sono coperte di affreschi. Tutto è colorato e questa è la luce. Il ciclo principale è l’Apocalisse. Poi c’è la Genesi, i Sette Sacramenti, angeli in ranghi serrati e coperti, forse gli evangelisti. Non riconosco tutti, né loro me. Io e te ci incantiamo su piccoli draghi, mostri minuti, grandi pesci piumati che trasformano la chiesa – siamo solo noi e loro – in un acquario. La superficie del tuo piumino bianco riflette i colori degli affreschi.

Guardo ancora le figure, i mostri, i pesci, gli angeli e il Padreterno e poi te, sempre più colorata. Dico Però adesso andiamocene, ti volti interrogativa e io non rispondo. Ho paura che la basilica di Galatina, colorandoti, ti tenga con sé. E chissà che tutti questi altri che ci stanno sopra la testa, ormai bidimensionali sui muri, non siano entrati proprio come noi, solo per guardare, e non siano più riusciti ad andare via, finendo per essere guardati.

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