Ipotesi sulla grande pietra

di Enrico De Zordo

Profondità

Da qualche giorno mi assilla la visione di un tizio che scava: la sua testa è minuscola, quasi non si vede; ha le braccia e le spalle ipertroficamente sviluppate rispetto alle altre parti del corpo, se ne sta inginocchiato su un lastrone di roccia e non fa che scavare. In mano tiene una specie di piccola pala: potrebbe essere un cucchiaio, non di metallo però, ma di plastica, come quelli che si usano alle feste di compleanno.
L’uomo batte sempre sullo stesso punto, un colpo dopo l’altro, con ritmo e forza uguali, senza mostrare segni di stanchezza.

– Perché scavi? – gli chiedo.
– Scavavano i miei genitori, amo la profondità.
Osservando le sua dita senza unghie si capisce che prima di usare il cucchiaio ha scavato con le mani.
– Scavi da tanto tempo?
– Un tempo in cui non scavavo non esiste.

L’esigua superficie di roccia tempestata dai suoi colpi non presenta graffi né scalfitture, ma nemmeno questo lo scoraggia.
– Non me n’ero accorto, – dice. – Intanto scavo, poi si vedrà.

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Ipotesi sulla grande pietra

Il masso sospeso sulla città, largo quanto l’intero centro abitato che sovrasta e alto come i sette strati urbani sovrapposti su cui sorge la metropoli attuale, dista ottocento metri dal suolo.

Perfettamente immoto, fermo tra nubi fisse in un cielo senza vento, il macigno potrebbe essere un corpo gassoso più leggero dell’aria agganciato a terra con un filo invisibile, oppure un imponente ammasso roccioso, incastonato in giganteschi cubi d’aria pietrificati, il cui peso presunto è pari a diversi milioni di tonnellate.
Si dice inoltre che, mentre la grande pietra precipitava, la forza di gravità si sia distratta un attimo e sia andata a prendersi un aperitivo.
La teoria secondo cui il macigno sarebbe un’immensa tettoia di granito, o un riparo senza appoggi finito lì chissà come affinché la cittadinanza potesse ripararsi dalla pioggia senza dover ricorrere all’ombrello, è invece avversata dagli abitanti del luogo; i quali, per ragioni ancora da verificare, stanno lasciando la città.

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Un romanzo colossale

Un anno fa, sparsi sui tavoli e sul pavimento di un alloggio di periferia, furono trovati trecentonovantacinquemilaventiquattro foglietti a righe di formato rettangolare, cm 10,5 x 7, in carta bianca e numerati in progressione.
Il primo foglio è datato 12 agosto 1979, l’ultimo 27 aprile 2015. Sulle pagine non c’è scritto nulla, ma si capisce che le cose sarebbero potute andare diversamente.
Tra gli addetti ai lavori, nessuno dubita che si tratti di un romanzo colossale.
Il giorno prima di sparire, l’autore dei foglietti disse che il compimento di un’opera coincide con la raccolta minuziosa degli strumenti utili alla sua realizzazione.

Dai giornali sappiamo che nell’appartamento furono rinvenute 4723 penne a sfera, 7 scrittoi, 18 computer chiusi negli scatoloni, 9564 taccuini inutilizzati, 57 corsi di scrittura creativa in DVD, 18 dizionari analogici e 16 dei sinonimi e contrari.
Il Comune ha messo a disposizione uno scantinato per sistemare le risme di carta e le enciclopedie.

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Turbamenti di uno spolveratore

È sconsolato, l’eroe del nostro tempo. Le persone che lo incontrano si rivolgono a lui con deferenza chiamandolo signor spolveratore.

«La polvere non finirà mai, – pensava, – sulla polvere si potrà sempre contare».
Erano gli anni del suo apprendistato e oggi si deve ammettere che aveva ragione. Infatti eccolo lì, immerso nel più esteso polverone che si possa immaginare.
Polvere, polvere a perdita d’occhio, ma nessun mobile in vista. Dove sono finiti i comodini, le librerie, le scarpiere? E pensare che per essere felice gli basterebbe un mobile, uno solo! Si accontenterebbe di una maniglia, o di un portasigari di nessun valore.
Chiede forse troppo? Basterebbe che questa polvere trovasse un po’ di pace, che si depositasse su un ripiano qualsiasi. Allora lui si armerebbe dei suoi panni e tutti capirebbero di che pasta è fatto.
– Ma così no, no! – dice. – Così proprio non va.
E, disperandosi, stringe i pugni con forza, finché il manico in noce del suo spolverino gli si spezza tra le dita.

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La bara

Nei mesi scorsi mi è cresciuta addosso una bara, lucida e coriacea come la scorza di una castagna diricciata.
È a norma di legge, impermeabile. La cassa esterna è di legno massiccio, quella interna di zinco, senza imbottiture. Se aderisse al mio corpo, non ci sarebbe niente di strano. Putroppo è molto lunga, troppo larga, e io ci ballo dentro.
Quando cammino per la strada, sbatto contro le pareti interne del feretro; il risultato è che ogni volta mi sbuccio la fronte e le ginocchia.
Fare pipì, considerando che la bara è sigillata, diventa una seccatura, ma anche parlare è complicato: le mie parole si fermano sulla lastra di zinco; non escono dalla cassa, non tornano indietro. Allora è meglio tacere.

L’altro ieri sono andato da un falegname per farmi accorciare la bara, anche per stringerla un po’; lui però ha tergiversato.

– È così, va bene così, – ha detto, – le sta a pennello, cosa vuole da me? È la moda. Quest’inverno vanno le bare ampie, abbondanti, per le attillate bisogna aspettare.

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Enrico de Zordo è nato a Brunico nel 1969. Ha pubblicato la raccolta di versi Perimetri (L’Autore Libri Firenze, 1998). È stato insegnante di italiano in una scuola di economia domestica e commerciante di vini. Dal 2010 lavora nell’ambito dei servizi sociali. Divertimenti tristi (Edizioni Alphabeta, 2018), è un’opera in prosa appartenente al genere letterario del «racconto rotto». Raccoglie un centinaio di prose minime tenute insieme con lo scotch. Sotto le strisce traslucide del nastro adesivo si vedono le linee di rottura di un racconto che non si aggiusta più.

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