Scrittori e vita nazionale

di Carola Susani

Lo scrittore è una voce, un testimonial o una merce? Esiste ancora una autorevolezza degli scrittori? E perché? Di fronte a chi? L’intervista di Christian Raimo uscita qualche settimana fa sul Sole 24 Ore e il dibattito che ne è seguito giravano intorno a queste domande; pochi mesi fa è nata Alfabeta 2 con l’obiettivo essenziale di rivendicare il ruolo dell’intellettuale, che è un ruolo civile, e la responsabilità degli scrittori. Sono temi attorno ai quali da anni giriamo in molti, forse è arrivato il tempo di affrontarli. C’è un’insoddisfazione tra noi. Somiglia al disagio di una falena finita per sventatezza in una lampada. Sbatti le ali, sbatti e sbatti e non ne vieni fuori. In parte è l’insoddisfazione che corre nella società, il fastidio per politica, il disincanto, risalente, radicato, ormai una tradizione, un disagio che condividiamo con tutti quelli che tentano di agire e che hanno, di contro, l’impressione di finire contro il muro. In parte è un’insoddisfazione solo nostra. Cosa ci spinge a lasciare le pagine dei libri per metterci alla prova sui giornali, o addirittura ad andare in TV? Perché scrivere i nostri libri non ci placa? Cosa andiamo cercando? Anni fa, ai tempi del lancio dei cannibali, girava una foto di Tiziano Scarpa in grembiulino e grosso fiocco. Erano tempi, esattamente come questi, in cui le case editrici, gli uffici stampa, i giornalisti chiedevano agli scrittori di mostrarsi, di farsi personaggi. Tiziano, che era già un intellettuale maturo e critico, aveva scelto di accettare il gioco, di metterlo in discussione dall’interno attraverso l’ironia. Quell’immagine dello scrittore in grembiulino ha ancora una sua indigeribilità, che è la sua forza. Ma Scarpa negli anni deve essersi reso conto che l’ironia, la dissacrazione, sono strumenti spuntati in un’epoca come la nostra in cui il fondamento del potere non è l’impalcatura autoritaria e ipocrita, ma la riedizione totalitaria della favola del Lupo e dell’agnello, la riduzione di ogni relazione a rapporto di forza attraverso la corrosione autoritaria del senso, perciò quella che ha cercato è una voce pubblica seria e morale, ed è stato capace di ritrovare tutta la sua potenza comica nell’opera. Ho messo in contrapposizione voce pubblica e opera. Un paradosso. Ma non è per caso. L’Italia è un paese che ha le sue stranezze. Gli editori si trovano davanti alla tagliola per cui i lettori abituali di letteratura non sono in grado da soli di decretare il grande successo di un libro. Mi ricordo che anni fa, nel ’96 a Torino, Baricco calcolò la cifra massima dei lettori veri in 40.000. La cifra andrà tarata di volta in volta, ma è credibile. E non si appassionano tutti contemporaneamente allo stesso libro. I numeri della letteratura sono per lo più piccoli numeri. Residenti in Italia siamo 60.387.000.
Pochi editori possono avere la misura giusta per rivolgersi soltanto ai lettori forti. Per lo più cercano i best seller, e per centrare un best seller devono convincere i lettori occasionali, o addirittura i non-lettori. Noi lettori forti in Italia non abbiamo molta forza contrattuale, non siamo il fondamento dell’industria culturale. Possiamo tornare utili, certo, ma non siamo per nulla sufficienti. Per convincere i lettori occasionali e i non lettori c’è bisogno di tutto un immaginario extratestuale: uno scrittore arrabbiato e pazzo, una scrittrice giovane carina e scapestrata, temi contemporanei, pulsanti o se proprio va storto uno dei grandi premi nazionali, tutto tranne che la letteratura, tutto tranne che la forza che si trova nelle pagine. L’esiguità del numero dei lettori in Italia è una questione risalente: Pasolini, che la sentiva con potenza, a un certo punto ha scelto di fare cinema. Nemmeno l’età del benessere e la scuola di massa sono riuscite a chiudere la forbice. Ma qualcosa è cambiato. All’epoca di Pasolini e della Morante, i lettori si sovrapponevano suppergiù alla borghesia, piccola e grande, dal ceto civile ai ceti dirigenti: leggevano i professionisti, leggevano i professori, leggevano gli imprenditori, leggevano i dirigenti d’azienda, leggevano le signore di buona famiglia, leggevano i politici. E sapevano bene cosa leggere. Leggevano anche molti che venivano da altri ceti sociali e volevano emanciparsi. Il luogo della letteratura era un luogo potente, fastidioso ma doveroso, leggere accresceva il prestigio, ma anche: era lì che batteva il cuore della nazione, che la nazione si rivelava, nel bene e nel male, a se stessa. Scrivevi, venivi letto, potevi immaginare di avere un ruolo dentro una comunità più ampia, una comunità che si pensava anche illudendosi il centro attivo della vita nazionale, un ruolo specifico, non rassicurante, spesso sferzante, addirittura scandaloso, insomma, un ruolo. Parlavi con il centro del paese, o almeno con quello che si credeva tale, ma anche allora era un cuore pulsante così asfittico che a molti scrittori non bastava. Oggi non leggono i professionisti, i dirigenti d’azienda, gli imprenditori, non leggono i politici e spesso leggono poco docenti universitari (salvo quelli che lo fanno –anche- per mestiere), e addirittura leggono poco i professori delle scuole medie e superiori (ma qui, mi pare, le eccezioni sono più frequenti, ci sono lettori fortissimi tra i professori). Chi legge, allora? All’ultimo incontro annuale del bollettino di storia delle istituzioni Carte e storia promosso dal Mulino, Giorgio Rebuffa, ragionava della fine della società letteraria. Il mio primo istinto è stato di gratitudine, che si preoccupasse del destino della letteratura un docente di Filosofia del diritto, un po’ mi commuoveva. Poi mi è venuto di pensare: non è vero. Ci parliamo tra scrittori, ci leggiamo prima di uscire in libreria, ci giudichiamo l’uno l’altro, ci appassioniamo, abitiamo un mondo comune. E però, è vero: non siamo la società letteraria, non abbiamo la forza di stabilire gerarchie che valgano fuori dalla nostra ristretta cerchia, di imporre giudizi di valore alternativi rispetto a quelli imposti dal mercato. Non abbiamo la forza di proporli e non abbiamo neanche una società di lettori a cui proporli. Che abbiamo invece? O meglio, cosa siamo? Siamo una comunità ristretta di lettori e scrittori. Con i nostri lettori, lettori forti, figli di ogni ceto sociale, ma che condividono con noi una condizione marginale, abbiamo moltissimo in comune: un investimento radicale sulla letteratura, una coscienza critica, uno sguardo inquieto, indagatorio sul presente. I nostri lettori sono strutturalmente dalla nostra parte, qualunque nostra intemperanza se l’aspettano, sanno che non è un attacco a loro, sono complici. Siamo in grado di sorprenderli, non di scandalizzarli. E da un momento all’altro, saranno loro a prendere la penna in mano e saremo noi a leggerli. Questa comunità, di cui facciamo parte, è la nostra forza e la nostra debolezza. Tutti insieme, chiusi in questo confine, questa comunità che rischia di essere poco più di una community, ci sentiamo stretti, perché la porzione di mondo di cui siamo espressione, e che ci risponde, è minima e la nostra letteratura, per quanto rigorosa, per quanto onesta rischia di essere asfittica, senz’aria. E abbiamo l’impressione che la ricostruzione di un tessuto comunitario per noi scrittori sia vitale.

Questo articolo è uscito sul settimanale Gli altri

Commenti
4 Commenti a “Scrittori e vita nazionale”
  1. Stefano Costa ha detto:

    Buongiorno, il pezzo presenta tanti spunti di riflessione, e su uno di questi mi piacerebbe chiedere in merito. Quando c’è scritto “Nemmeno l’età del benessere e la scuola di massa sono riuscite a chiudere la forbice. Ma qualcosa è cambiato”. Anch’io la penso così, nel senso che persino un Leopardi, se non ricordo male nelle Operette Morali, sosteneva che quando si alza il livello medio di cultura in un Paese ad alzarsi sarà sempre il livello medio di cultura. E ciò mi pare oggi più che mai molto attuale. Ora, senza bisogno di disquisire su Leopardi che porto come esempio, credo che se non si può pretendere – e mi pare ovvio – che in un Paese si diventi tutti premi Nobel dall’oggi al domani si potrebbe almeno pretendere di poter godere di una considerazione maggiormente allargata che tocchi quantitativamente più intellettuali rispetto a ciò che accade invece oggi. Una considerazione parallela è questa: se decenni fa le persone colte appartenevano a gruppi sociali meno allargati, oggi proprio la scuola (pubblica) di massa e gli obblighi di frequentazione sino a una certa età ci consentono di dire che oggi anche il povero è colto (o può ragionevolmente esserlo), nonostante questo si ha sempre l’impressione che l’impegno letterario sia sottovalutato, come mi pare suggerisca questo articolo. Allora chiedo, secondo voi quali possono essere le vie (o quale può essere la via) per far sì che la comunità letteraria italiana possa allargarsi, in un momento in cui anche la selvaggia proliferazione di titoli in libreria sembra non bastare e anzi produrre un effetto inverso tale per cui l’offerta supera abbondantemente la domanda (si pubblicano molti più libri di quanti non se ne legga veramente)? Chiedo per sapere, per confrontarmi con qualcuno. Grazie.

  2. marco mantello ha detto:

    Carola il tuo pezzo pone un problema di fondo, molto sentito anche in ‘poesia’: quale sia il margine (e se esista un margine) fra il rimanere parte di una comunità, con le sue ‘comuni passioni’ e affinità elettive (ma anche con le sue gerarchie, esplicite o implicite, i suoi amichevoli rapporti di potere, i suoi spazi riservati per ‘scrittori’ alle feste di qualche casa editrice) e il chiudersi in un recinto, con le sue staccionate e le sue porticine, da cui si entra e si esce, come sdoppiati fra ‘vita di tutti i giorni’ e ‘mondo letterario’.
    Me lo sono chiesto molte volte, quale sia questo margine, se esista davvero, mi sono chiesto quanto una possibile comunanza di ‘linguaggi’, ‘luoghi’, ‘persone’, ‘città’, ‘gruppi’ possa creare l’una, e al contempo l’altra cosa, contemporaneamente. La comunità e il recinto.
    Non ho risposte. Forse un po’ di misantropia ogni tanto fa bene, non lo so a me ha fatto bene, anche se non credo di essere un buon esempio di relazioni sociali, credo che mi abbia aiutato a vedere un po’ di cose dal di fuori, con un minimo di distacco in più, oltre a permettermi di scrivere tanto. Un saluto berlinese. Marco

  3. carolina ha detto:

    Bellissimo articolo, pieno di spunti importanti. Ma quello che mi ha più colpita è la questione dello scrittore/personaggio, che è la punta dell’iceberg del potere esercitato dal dio mercato anche sulla letteratura di oggi. Fa bene la Susani a sottolineare come l’ultimo dei problemi sembra essere proprio il VALORE del testo. Sembra che molti autori purtroppo si stiano adeguando a questo andazzo: piuttosto che scrivere pensando a far godere il lettore e alla propria soddisfazione e crescita narrativa, sembra che scrivano in funzione di quanto siano spendibili mediaticamente il loro lavoro e il loro nome, anche perché altrimenti sarebbero ignorati dagli editori. Io stessa a volte mi accorgo che mentre valuto l’idea per una storia, o mentre la sto scrivendo, mi domando non tanto quanto un lettore possa esserne catturato, ma quanto possa essere “venduta”. Mi rattristo ogni volta che me ne rendo conto e cerco di correggere il tiro, ma se mi succede, al di là della consapevolezza, vuol dire che ci sono dentro fino al collo. Questo cancro mentale è tanto più triste perché inutile, sono convinta che se c’è davvero del talento in un autore (ma qui non parlo certo di me), paradossalmente basterebbe seguirlo per risultare poi, rigorosamente a posteriori, vendibile, anche se magari solo sul lungo periodo. Non so se sono vittima di una sorta di ingenuità romantica, per cui se non credessi che il talento autentico prima o poi trionferà cadrei in una depressione immobilizzante, e allora continuo a crederci. Mi sembra tuttavia irrealistico pensare che il mercato schiacci tutto. La resistenza, la reazione allo status quo, anche se in una minoranza, da qualche parte deve nascere per forza, è la natura umana. La qualità letteraria esiste ed esisterà sempre malgrado tutto. E allora sta a noi lettori cercarla e seguirla e contribuire a sostenerla e a non farla morire. Per migliorare la qualità della scrittura e dei libri che si pubblicano, la chiave è nel lettore. Dunque nel ruolo cruciale della scuola, come giustamente fa presente la Susani. Quando frequentavo le scuole medie l’insegnante di lettere portò in classe una cinquantina di libri di sua proprietà, li sistemò su una mensola, e ci impose come compito di scegliere e di leggere un libro al mese, una volta finito dovevamo scrivere un tema sul libro in questione. Non le sarò mai abbastanza grata, ho cominciato ad amare la lettura proprio allora, e ancora adesso, quando sono in libreria e studio cosa portarmi a casa, e mi domando quale libro mi darà più soddisfazione, a volte rivivo il momento in cui in classe spulciavo i titoli sulla mensola alla ricerca del libro giusto da portarmi a casa.

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  1. […] articolo interessante apparso sul blog “Scrittori in Causa“, che a sua volta riprende un post scritto da Carola Susani e pubblicato sul blog di Minimum Fax. In entrambi i pezzi si parla di […]



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