Perché il bar San Calisto è una scuola e in quanto tale non dovrebbe chiudere mai

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Venerdì scorso alle sette di sera sono sceso a Trastevere e ho passato un’ora a Piazza San Cosimato festeggiando il Bar San Calisto. Di una festa di strada, una festa improvvisata, si trattava. Non per il mezzo secolo del bar (che compirà esattamente fra un anno) ma per la bellezza e l’assoluta straordinarietà di un luogo che non è un semplice bar e che venerdì è stato chiuso su ordine del Questore per le seguenti motivazioni: malfrequentato (da “pregiudicati”) e causa di schiamazzi notturni (in particolare per via di una festa organizzata in piazza nella notte del 3 giugno da ragazzi che secondo le forze dell’ordine frequentano il bar). Il Decreto Regio del 18 giugno 1931, n. 773 è dietro all’articolo 100 del testo unico per la pubblica sicurezza (Tulps) che autorizza il questore a «sospendere la licenza di un esercizio» nel caso in cui sia «abituale ritrovo di persone pregiudicate» e «un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume».

Ma di questo non si è parlato pubblicamente, venerdì. È stata una bella festa di quartiere, anzi di rione, come ormai non ce ne sono più a Roma. Era la festa di una comunità. E poiché le comunità non esistono più in generale nelle metropoli, tutto mi è parso particolarmente commovente. Dalle canzoni romane ai balli accennati, alle chiacchiere fra giovani, vecchi, bambini di ogni provenienza e tutto quello su cui eviterò ogni retorica. Dico soltanto che la festa è nata su facebook grazie alla proposta di una frequentatrice appassionata del bar che per questo è stata invitata dalla Questura a spostare l’incontro, all’ultimo momento, da Piazza San Calisto a piazza San Cosimato. Ma di festa doveva trattarsi. E festa è stata.

Questo non toglie che ci si stiano facendo parecchie domande, in questi giorni, e non solo a causa dell’immensa storia di questo bar. Le elencherò senza approfondirle perché non è questo un articolo da giornalista d’inchiesta, anche se è questo un articolo che spero possa dare il via a qualcuno dei rarissimi giornalisti d’inchiesta ancora in attività per un lavoro come si deve, di quelli che fanno piacere a leggerli.

È difficile accettare che l’ordine di chiusura sia dovuto alle ragioni che ho già riportato. Non si capisce, innanzitutto, perché un pregiudicato (ovvero uno che è già stato giudicato dalla legge e dunque è persona con precedenti penali di cui ha pagato le conseguenze) non possa frequentare un bar. Fino a prova contraria, a livello assolutamente teorico, la pena dovrebbe servire a dissuadere la persona dal ripetere il crimine. Scontata la pena, il cosiddetto pregiudicato dovrebbe rientrare nella comunità e vivere normalmente. Se questa normalità viene negata al pregiudicato è difficile capire in che modo questi possa rientrare nella presunta comunità. Ma c’è di più: comunque sia del pregiudicato, anche nel caso fosse giusto bollarlo per sempre come un cattivo frequentatore di bar impedendogli dunque per sempre un’esistenza dignitosa, come può il proprietario del bar difendersi? Deve chiedere la fedina penale agli avventori? Deve fare un mestiere che non conosce? Deve assoldare guardie private che facciano una scrematura all’ingresso del suo locale? Evidentemente tutto ciò è non solo impossibile ma soprattutto grottesco.

Quanto all’altro corno della questione. Il disturbo della quiete pubblica di cui il bar è ritenuto responsabile ha a che fare con questa festa (da molti giornali ribattezzata “rave”) organizzata da ragazzi ritenuti frequentatori del bar. La festa, con tanto di amplificatori e strumentazione portata in piazza da un veicolo car sharing, è iniziata mentre il bar era ancora aperto e è andata avanti ben oltre la chiusura. Ora, come si può ritenere responsabile il bar per quel che è accaduto fuori dal bar, in una piazza dove affacciano altri bar e ristoranti, per opera di giovani che tuttavia si presume frequentino soltanto il Bar San Calisto? Se responsabile diventa il bar frequentato da un gruppo di persone per ciò che queste fanno fuori dal bar, non si deve risalire allora, oltre che al bar, ai maestri, ai genitori, alle scuole e così via? Anche in questo caso si sfiora il grottesco (e pensare che un quotidiano romano ha ribattezzato il San Calisto “rave-bar” – siamo alle comiche).

Del resto, come ho detto, è difficile accettare l’idea che queste siano le vere cause della chiusura che suona come un avvertimento o un ultimatum (e ricordiamoci sempre che il Decreto Regio in questione è datato 1931). È più probabile quel che si sente ripetere in giro, ovvero che la scusa per il provvedimento sia dettata più che altro dalla necessità di offrire una risposta chiara alle numerose denunce. Ma da dove provengono queste denunce? Qui si aprono gli argomenti più chiacchierati. Riporto le due voci principali. Si tratta di voci su cui io non ho la minima idea e il minimo giudizio anche perché, come sarà evidente, quello che mi preoccupa e su cui mi sento di poter tentare un’analisi è altro.

Si dice che due possano essere le cause più reali che sono dietro l’attacco al San Calisto. Da una parte, l’invidia di altri locali che assistono inerti e allibiti al successo di un bar dove è ancora possibile pagare un caffè ottanta centesimi, un gelato un euro e una birra un euro e cinquanta. Dall’altra, ci sarebbe la strategia di invasione del centro e svuotamento dei suoi locali storici da parte delle mafie che stanno assediando la città.

Non ho idea di cosa stia davvero succedendo. Insisto che solo un serio giornalismo d’inchiesta potrebbe chiarire le idee a chi allibito assiste a un evento eccezionale e sconcertante. Quello che io posso registrare e raccontare, però, è altro. E mi piacerebbe partire da una delle frasi che il celebre creatore, proprietario e anima del Bar, Marcello Forti, detto Marcellino, ha pronunciato ieri ai cronisti che lo intervistavano in piazza. Se ne può avere uno stralcio qui. “Mi hanno chiesto anche di non lasciar sedere chi non consuma”.

Impedire la frequentazione del bar a chi non consuma.

Più paradossale di così si muore.

Viviamo tempi in cui tutto è monetizzato. A livelli talmente inumani che viene da gridare di disgusto. La regola, nella fattispecie, è: se consumi un caffè a un tavolino del centro (tavolini selvaggi spesso, ma non quelli del San Calisto che sono stati più volte controllati e non hanno mai sforato la misura) paghi almeno il doppio del prezzo del banco. Abbiamo accettato tranquillamente questa regola. E ci siamo talmente abituati che pare assurdo trovare un bar dove questo non accade. Fortuna che bar del genere ce ne siano ancora. Al San Calisto, ti siedi e, sia che tu abbia preso la tazzina, il bicchiere, il gelato o quel che è al bancone, sia che te lo abbiano portato, il prezzo non cambia. Che grave colpa non imporre una tassa a chi siede! Ma non è neanche questo il punto.

Se passi al Calisto e vedi qualcuno lì seduto e ti avvicini e magari ti siedi un attimo a chiacchierare (un attimo che può diventare un’ora o quanto sarà) non arriva nessuno a chiederti cosa vuoi consumare o addirittura a pregarti di lasciare il posto se non hai intenzione di farlo. Che gravissimo reato! In questo bar – non a caso considerato un’oasi di umanità, di multiculturalismo, di accoglienza, rispetto ecc. (tutti aspetti che potrete trovare in rete nei numerosi articoli usciti in questi giorni) – non vale la legge sovrana del protestantesimo capitalista che impone di produrre, pagare, monetizzare il tempo, non perderlo mai, il tempo, pur di lavorare lavorare lavorare e guadagnare e così conquistarsi il presunto paradiso. Si tratta di una colpa culturale, dunque. E di questo io vorrei parlare.

Allontaniamoci un attimo da questo bar dove in molti siamo cresciuti diventando quello che siamo. Voltiamo l’angolo. Usciamo dalla piazza. Entriamo nella magnifica piazza S. Maria in Trastevere. Non fermiamoci neppure lì a indignarci per certe insegne al neon che quelle sì andrebbero perseguite da una politica sana se contasse la bellezza e non il decoro, ma no, lasciamo perdere e voltiamo ancora l’angolo, entriamo in via della Paglia. Stiamo varcando un portone infernale. Chiunque conosca Trastevere e ne abbia seguito l’evoluzione in questi ultimi vent’anni sa bene di cosa parlo. Per gli altri poche informazioni. La pedonalizzazione all’italiana di certe vie ha prodotto la loro disintegrazione umana in nome del commercio, del ciarpame turistico, dell’affollamento globale, omologato, sradicato, insensato. Inutile raccontare come certi storici locali siano stati divorati e trasformati in angoli di nulla dove il carattere della città è completamente assente e la natura di ciò che è in vendita, come la natura degli arredi, dei comportamenti e di tutto il resto, costituisce un luogo/non-luogo che potrebbe ricordare qualsiasi paese del mondo ai tempi della globalizzazione imperante e del monoculturalismo. Ma sono cose che sappiamo tutti, in fondo.

Entriamo ancora di più nel cuore della questione, però. E facciamolo andando ancora avanti sulle strade di quella che fu Trastevere. Superiamo anche piazza Sant’Egidio e imbocchiamo via della Scala oppure voltiamo a destra su vicolo de’ Cinque. Quel che troviamo è il trionfo dei locali anglosassoni (ossia pensati per avventori anglosassoni, soprattutto per gli studenti di scuole e università anglosassoni dei dintorni o per i turisti anglosassoni che vengono a Trastevere in cerca dell’anima di Roma e finiscono per fermarsi nei locali che li rassicurano ricordando loro i paesi da cui sono partiti). È il trionfo di due “concetti” fondamentali, entrambi nominabili solo in inglese (giusto che sia così anche perché si tratta in fondo di soluzioni a noi culturalmente estranee): lo shot e l’happy hour. Per chi non ne sapesse nulla, lo shot (il colpo, la pallottola assassina, il tiro secco) è una miniporzione di superalcolico da buttar giù in un istante; l’happy hour invece è l’ “ora felice” in cui i prezzi per gli alcolici calano vertiginosamente inducendo truppe di avventori a concentrarsi per consumare il più possibile. Qual è il senso di questa visione della vita? L’ho già detto, in sostanza. Si tratta dell’ideale sommo del protestantesimo capitalista (si veda sempre il caposaldo di Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo). Ottimizzare il tempo. Risparmiare tempo e denaro in vista del lavoro e della produzione. Perché chi più lavora e più guadagna si conquista il paradiso dei virtuosi. Lavorare, produrre, lavorare e produrre. E poiché però la vita così diventa dura e a volte, se anche non si è drogati di lavoro (altro concetto per il quale esiste solo una parola inglese e un motivo c’è: workaholic), diventa addirittura insopportabile, ecco dietro l’angolo la possibilità di stordirsi, dimenticare, uccidersi di economici shot, colpirsi al cuore con superalcolici di bassa lega per perdere la propria coscienza che a volte nonostante tutto ci ricorda che la vita è breve e forse andrebbe vissuta diversamente e che lavorare e basta in definitiva non ha senso. Eccole qui le orde di anglosassoni o meglio: di uomini e donne succubi di questa cultura protestante che si è immolata alla produttività. Fatevi un giro di sera per queste vie e ascoltateli gridare, intonare cori ubriachi, spintonarsi, darsi pacche sulle spalle e gridare gridare gridare la loro felicità per aver un attimo almeno dimenticato la vita che stano sprecando.

Ora tornate indietro al San Calisto, o il Calisto, o il Sanca, come tutti noi che ci siamo cresciuti lo abbiamo chiamato a seconda delle epoche che abbiamo attraversato. La vita lì scorre lenta. In questi giorni molti lo hanno raccontato. In versi lo ha fatto divinamente Ivano De Matteo, regista trasteverino, autore di un documentario cult: Barricata San Calisto, in cui già più di quindici anni fa mostrava chiaramente in che modo questo luogo rappresenti un argine contro il conformismo, la globalizzazione e la monocultura. Un altro regista trasteverino, Gianni Di Gregorio, sta girando, proprio fra il San Calisto e poche altre location rionali, il suo nuovo film, protagonista fra gli altri il celebre Vichingo, uno dei più presenti avventori del bar per decenni. Forse il Vichingo e la sua vita potrebbero spiegare meglio di chiunque altro l’anima del San Calisto. Si chiamava Luigi Marchetti e il motivo per cui fosse per tutti il Vichingo è un mistero discusso. Ha vissuto di espedienti fino al febbraio scorso quando è morto settantaduenne. A Roma a chiunque abbia girato per Trastevere era noto. Fuori di Roma certo molti lo hanno visto nel film più fortunato di Di Gregorio: Pranzo di ferragosto. Lo chiamavano “il sampietrino mejio piazzato de Roma” per la sua capacità di restarsene immobile per ore, farsi una birra, acchiappare qualcuno con cui passare il tempo chiacchierando fino a sera. Ma il film in cui doveva interpretare se stesso – Cittadini del mondo  – ve lo mostrerà meglio di queste poche righe, speriamo presto. O forse ne potrete trovare qualcosa sull’ultimo numero della rivista che da qualche tempo circola per Trastevere: Il Ventriloco, come sull’ultimo numero de Gli Asini nei bellissimi testi di Di Gregorio e Marco Pettenello (sceneggiatore del film in lavorazione).

Quel che posso dire io è che il bar San Calisto, in questo tempo libero e dilatato destinato alle chiacchiere, al non far nulla, al non lavorare, all’incontrarsi e scambiare parole con chiunque ti capiti a fianco, o nel passare il tempo senza ulteriori fini, tutti dediti alla contemplazione, al teatro del mondo, alla vita che scorre e alle enormi domande che questo stare nel mondo pone, il bar San Calisto proprio in questa sua anima così estranea a ogni tempo, è e resta la vera incarnazione di ciò che deve essere una scuola. E non sorridete. Non esagero affatto. Certo, in questi giorni molti di noi l’hanno definita una scuola di vita, proprio per questo carattere. Ma immagino che non tutti siano consapevoli del fatto che una scuola è etimologicamente e storicamente proprio questo. Scuola è una parola che deriva dal greco scholè. Se aprite un vocabolario scoprirete che scholè significa “tempo libero”. Per i greci era questo il tempo più importante concesso all’essere umano. Il tempo libero dagli impegni, ossia dalle necessità materiali per procurarsi di che vivere, ossia dal lavoro. Tanto che il lavoro era nominato con termini che richiamavano un’assenza: l’assenza del tempo nobile, del tempo libero, ossia l’ascholìa (l’alfa – detta privativa – che nega la scholè).

Quando si lavora non si può pensare ai grandi temi della nostra esistenza. Secondo Socrate, Platone e Aristotele, ovvero le fondamenta della nostra storia culturale, solo nel tempo libero dal lavoro è possibile pensare a se stessi, confrontarsi con gli altri, cercare di capire se stiamo vivendo una vita dignitosa o meno, capire se sia possibile migliorare, essere più felici, seguire strade diverse. Solo nel tempo libero dal lavoro è possibile interrogarsi, mettersi in discussione, mettersi in crisi (la krìsis: la necessità di scegliere, di decidere, il bivio, cioè qualcosa di positivo e non di drammatico come ci lasciano intendere oggi). Solo nel tempo libero dal lavoro è possibile fare e farsi domande, capire il nostro posto nel mondo, con noi stessi e con chi ci capita di passare le nostre vite. Solo nel tempo libero. La scholè. Ovvero la scuola. Quel luogo che nella nostra storia i ragazzi frequentano quando non sono (o non dovrebbero essere) costretti a lavorare. Per crescere, formarsi, costruirsi come individui, come persone.

Tutto questo ci dice immediatamente una cosa evidente. Innanzitutto che quel che i politici italiani negli ultimi anni hanno esaltato come una delle punte di diamante dei loro modesti ragionamenti, ossia l’alternanza scuola-lavoro, è una boiata pazzesca. Ma lasciamo perdere le quisquilie. Quel che ci dice tutto questo è che esistono oasi, luoghi, realtà in cui, fuori dalle organizzazioni istituzionali sempre più sbrindellate e culturalmente carenti, noi abbiamo la possibilità di sviluppare quella straordinaria arma che è sempre stata la nota decisiva della nostra cultura occidentale, mediterranea, vitale e indomita: lo spirito critico. La capacità di metterci in discussione, di cambiare opinione, di criticare, di non dare nulla per scontato, non accettare dogmi, non credere in ciò che ci viene spiegato da qualche presunta autorità.

Ora, che in questi tempi, lo spirito critico, l’autonomia intellettuale, l’indipendenza di pensiero e tutti i luoghi in cui queste attitudini possono svilupparsi siano sotto attacco non rappresenta una sorpresa. Né è sorprendente che mentre si esalta una presunta identità culturale del nostro occidente, si sia dimenticato di cosa si trattasse. Ma sono discorsi, questi, che non si possono sfiorare in un articolo come quello che state leggendo. Sono discorsi da fare al bar. In tranquillità. Magari addirittura non consumando nulla. Non facendosi shot, certo. Magari solo con un bicchier d’acqua. Perché quello nei posti seri non lo si nega a nessuno.

E così siamo arrivati all’ultima piccola significativa questione che solleva questa scuola che è stato, è e deve continuare a essere il bar San Calisto. Fra un discorso e l’altro, in questi giorni, Marcello Forti ha ripetuto una cosa. Io non chiedo a nessuno chi sia, da dove venga, cosa faccia. Non glielo voglio chiedere. Non m’interessa. Chi ha letto l’Odissea sa benissimo che è proprio quel che si faceva anticamente. Si chiamava Xenìa, ossia Ospitalità. Era quasi un’istituzione. Il forestiero non malintenzionato veniva fatto sedere e non gli si domandava mai il nome, né da dove venisse, cosa facesse o dove andasse. Lo si invitava a sedere e gli si offriva da bere. Almeno un bicchier d’acqua. È una pratica ancora molto diffusa nel Sud Europa, fra Grecia, Italia meridionale, Spagna aperta sul mare. È qualcosa che abbiamo nelle vene. Perché da sempre ci è entrata dentro l’idea antica, anche senza dover sapere che xènos significava straniero, certo, ma soprattutto ospite. Così tendiamo a rifiutare la spontanea ignoranza con cui quel termine oggi viene ancora utilizzato. Perché xenos compare ancora nei discorsi contemporanei, ma soltanto in un composto miope, di bassa lega e dalle potenziali drammatiche conseguenze. Quel termine è xenofobia.

Commenti
19 Commenti a “Perché il bar San Calisto è una scuola e in quanto tale non dovrebbe chiudere mai”
  1. Ivana ha detto:

    Una piccola, forse inutile, precisazione.
    Vorrei che l’alternanza Scuola/lavoro fosse demandata definitivamente alla sola Formazione Professionale.
    Ecco, tutto lì.
    Complimenti, l’articolo è bellissimo. Bravo

  2. Alessandro ha detto:

    un commento forse stupido da vecchio studente del classico. non e` che la cosa nasce (anche) dal fatto che la civilta` greca era frammentata, locale, aperta agli scambi, e xenos era una sola parola per ospite e straniero.
    mentre la civilta` imperiale romana, e poi la sua prosecuzione cristiana, era appunto imperiale, dominante ed ha creato il concetto di “alienus”, estraneo, ancor piu` che` straniero?
    (si ok, anche in grecia c’era la distinzione tra poleites e metekos…)
    vabbe` me sto zitto che e` meglio 🙂

  3. Alberta ha detto:

    Grazie Matteo per le tue parole! Ho vissuto dodici anni a Roma e il Sanca è sempre stato casa.

  4. Davide ha detto:

    Grazie per l’ottimo articolo, Matteo. Ci vediamo Al Bar Alle Cinque (scherzo) 😀

  5. Eleonora ha detto:

    la prima volta che, da adulta, vidi Roma, vidi anche il San Callisto e ne rimasi folgorata. Lì era possibile leggere e parlare e far nulla e guardare e tutto questo insieme, in piena comunione con tutti.
    Uno dei luoghi migliori per capire Roma e a cui ritornare sempre.
    Grazie per avermelo ricordato, ora che non ci vivo più.
    Splendido articolo che condividerò.

  6. Marco ha detto:

    Ho vissuto a Trastevere, dietro al Bar San Callisto fino a pochi anni fa e quello che è riportato in questo articolo è tutto profondamente vero. Ho assistito in questi anni allo spopolare dei locali all’anglosassone e al diffondersi di uno stile di vita che non ci appartiene, ma anche a una straordinaria risposta a non farsi omologare da parte di tutti i cittadini di Trastevere. Daje!!

  7. maria teresa bono ha detto:

    splendido! grazie. è importante pensare a quello che succede e non stare in silenzio. tu l’hai fatto con una generosa abbondanza di ragionamenti e di particolari.

  8. Gabriela Salvadori ha detto:

    Un articolo molto bello e molto interessante, che davvero ci fa riflettere! Conosco Trastevere, anche se non ci ho mai vissuto e ho riscontratto quanto hai scritto. Grazie Matteo!

  9. andrea ha detto:

    Grazie Matteo! In questi tempi il tuo articolo è una boccata di ossogeno; e poi grazie anche perché mi hai riportato per 5 minuti ai pomeriggi del liceo, quando si perdeva il tempo a parlare e conoscersi per strada.
    L’ho girato a molti amici per parlarne insieme e alla fine non avendo il San callisto e non avendo tempo per vederli tutti, mi tocca farlo per wazzup (che tristezza!)

  10. Licia ha detto:

    Articolo bellissimo,interessante è che dovrebbe far riflettere.

  11. paolo morelli ha detto:

    un articolo molto bello, con una precisazione ‘storica’, a questo punto: il filosofo autentico bazzicante a Callisto non era certo Luigi Marchetti, al quale non sono mai state attribuite elaborazioni teoriche (il soprannome di Vikingo viene dal soma e da una capigliatura ‘ad elmo’ che portava da giovane), bensì Armando Natalucci, figlio di un fiumarolo e di una delle più note caratteriste romanesche del cinema neo-realista, morto il 10 ottobre 1917 e sepolto a Velletri in quanto, meno fortunato del Vikingo, è stato deportato ad Acilia durante la gentrification. marxista ma prima di tutto stoico, era dotato della qualità della pre-nozione stoica ed anzi sosteneva che bastasse nascere qui per averla. da lui infatti si potevano avere sintesi su come si sarebbero svolti i fatti, sul piano nazionale e internazionale, che apparivano mirabolanti sul momento ma poi si rivelavano esatte. di crisi economica, di crisi nel mondo del lavoro, di glebalizzazione ad esempio ne ha parlato già negli anni ’70.
    aveva l’abitudine di parlare a voce molto alta, e anzi sosteneva che il segno del cambiamento dei tempi lo aveva notato nel fatto che la gente non si salutasse più a centinaia ma solo a pochi metri di distanza.
    a lui ho dedicato un libro dal titolo Classifica di notti gagliarde.
    è morto da stoico, così come ha vissuto.

  12. Carlo ha detto:

    A San Callisto c’è il mondo . E a me piace guardare il mondo. Questo bar ha un’anima e un colore caldo che ti accoglie con grande familiarità.Ho qui a Milano sulla scrivania una bellissima tazza che raffigura San Callisto in una giornata di sole ,me la sono comprata il mese scorso per potere immaginare di stare seduto ad uno dei tavolini verdi anche quando non sono a Trastevere. Torno a Trastevere ogni mese per stare una o due settimane con due nipotini gemelli trsteverini e due sono i luoghi che mi sono cari : San Callisto e la trattoria da Augusto. Grazie Matteo per aver usato parole greche per trattare un argomento cosi’ universale Carlo.

  13. Antonella marchesini ha detto:

    Bellissimo articolo… non vedo l’ ora di prendere un buon caffè in quel bar ….per provare a vivere direttamente le belle emozioni di cui l’ articolo parla….
    Per scoprire un altro meraviglioso scorcio della mia bella roma….

  14. paolo morelli ha detto:

    naturalmente, o quasi, Armando Natalucci è morto l’anno scorso, cioè il 10 ottobre 2017…

  15. Giuseppe ha detto:

    Ho vissuto tutta la mia vita sopra a Trastevere. Ho amato sempre questo Rione così vero e così Romano. Da piccolo ricordo i pranzi da Checco er Carrettiere…più grande i drink a Ombre Rosse e altri. Non ho mai frequentato troppo il San Callisto non ero di quel giro (non ero di nessun giro forse troppo sulle mie…) ma il San Calisto l’ho sempre amato. Mi é sempre piaciuto sapere ci fosse un oasi di romanità vera in mezzo al profilerare di bar e pub fatti per far soldi e di dubbio gusto e sapere che ci sia ancora e che ci sarà sempre é confortante per chi vorrebbe Trastevere non cambiasse mai

  16. massimo ha detto:

    c’erano bar, tanti bar, dove qualcuno sedeva vedendo passare qualcuno e niente mai succedeva; dove la noia cantava la stessa canzone, più o meno leggera; dove la gente, più o meno la stessa, di giorno, di sera, beveva caffè, oppure birra, oppure niente. A volte non c’era neppure la gente; a volte i bar rimanevano vuoti, allora uscivi e te ne stavi in mezzo via, come un lampione in periferia.

  17. Elena ha detto:

    Grazie per questo sostegno e al luogo e alla modus vivendi che consente.
    Una chiusura forzata avrà sicuramente trovato il fondamento in un dimostrato ritrovo abituale della criminalità, e non in una eventuale mera e occasionale presenza di pregiudicati, oltre che certamente in plurimi e non episodici eventi tumultuosi connotati da gravità e capaci di costituire allarme per la collettività a causa della loro pericolosità concreta e attuale, quali sono i presupposti per una legittima sospensione di una licenza commerciale.
    Ma non voglio sindacare, senza tra l’altro conoscere nel dettaglio gli atti.
    Solo il mio punto di vista sul luogo o meglio sull’esperienza.
    Vorrei che ci fossero anche politiche premiative accanto a quelle repressive, che pur devono sussistere quando legittime. Sì, perché il Bar San Calisto dovrebbe ricevere un riconoscimento: io non sono di Roma, sono un’adottata e ho avuto l’occasione, grazie ad un amico romano romano, di venire al Bar San Calisto a Pasquetta e fare colazione con uova sode e corallo. Ho vissuto una tradizione locale che altrimenti, priva di radici romane, non avrei conosciuto. Ma non solo: ogni tanto vado al Bar proprio per il suo ancora istinto autentico, per la capacità che ha di farti sentire a Roma e non in una qualsiasi altra città. Mi piace far finta di essere una locale quando il proprietario gentilmente scambia una battuta familiare anche con me che sono un’estranea; mi piace poter rimanere lì senza nessun cameriere incalzante. Un luogo dove hai la bella sensazione di essere accolto e al contempo ignorato, dove risalta il valore dello scambio nelle parole di una breve chiacchiera più che del loro contenuto, dove emergono volti, corpi, gesti e sembra un film muto sulla romanità. Ciò è quanto ho appreso in questo spazio-tempo che è il San Calisto, luogo di quell’educazione diffusa che vede gli angoli delle città come aule scolastiche.

  18. Piero Meogrossi ha detto:

    Un contributo …alla vita reale ed ai sogni…vissuti tra i bar neitra i bar di Trastevere. “Quanno voi pensa’ , all’ombra dei ricordi freschi, tocca anna’ de mattina mattina al bar de la gran piazza dove n’arbero gigante sovrasta l’ommini e le cose. La gente de Trastevere, quella poca che c’e’ ancora, se siede ai tavoli, beve, parla, gioca, sorride e se dispera. Quelli guardano l’artri e se credono che so persone fiche, quelli se credono de capi’ er monno coi giornali, tutti che voiono quarcosa pe pote’ vive mejio. Ma possibile ch’er vento de la piazza, i rumori tutt’intorno, er chiacchiericcio de la gente, er gelato de Sacchetti non li svejia tutti quanti….e je fa’ mischia’ er vero co li sogni? (Piero Meogrossi 1984)

  19. Massimiliano ha detto:

    La notte di giovedì sono passato davanti a questo bar e pur non sapendo nulla della sua gloriosa storia sono rimasto rapito dall’energia che sprigionava …ho trascorso un’ora a chiacchierare con studenti che si trovavano all’esterno e da subito mi sono immedesimato nelle loro storie ….casualmente ho reso omaggio ai 50 Anni di Storia del locale e ne sono orgoglioso . Viva il SanCa e d’ora in poi quando passo da Roma verrò in questo luogo unico magico e senza età….

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