eBook: l’insostenibile leggerezza della lettura digitale

È passato un anno dal lancio sul mercato americano dell’Ipad: un anno di pubblicistica sovreccitata, attese circospette, grandi speranze. Un anno in cui i problemi concreti sono spesso finiti in secondo piano di fronte al registro propagandistico (e comprensibilmente, visto lo stato dell’industria editoriale e il miraggio di una risurrezione digitale) delle discussioni relative. Davanti al recente scatenarsi di tante passioni e interessi, un libro come La quarta rivoluzione, sei lezioni sul futuro del libro (Laterza) di Gino Roncaglia, per lucidità teorica e completezza documentaria pare quasi un esercizio di stoicismo intellettuale. Certo generoso quanto a dettagli tecnici, La quarta rivoluzione resta un saggio divulgativo, sostenuto da una prosa colloquiale capace di spaziare con una buona dose di eclettismo e spirito ricreativo tra diversi ambiti e riferimenti, dalla storia della scrittura all’immaginario fantascientifico. Anzitutto Roncaglia ci mostra come dietro l’ultima trovata di Jobs ci sia una storia da scoprire, come un tablet proposto quasi fosse il dono di qualche entità iperurania casualmente collocata dalle parti di Cupertino debba la sua esistenza a una serie di ricerche, fallimenti, evoluzioni parallele, eterogenesi dei fini. Un cammino che, se ripercorso dalle origini, può rivelarci il senso delle sue direttrici e possibili linee di sviluppo. All’archeologia dei dispositivi tecnologici l’autore affianca la complementare storia della digitalizzazione e delle biblioteche virtuali, ma al di là di un sano bisogno di chiarezza (tecnica e storica), Roncaglia non rinuncia ad esprimere anche opinioni personali.

Se ad esempio non sembra dubitare del fatto che prima o poi (anche se, sostiene, ancora non ci siamo) la tecnologia arriverà a soddisfare le condizioni ergonomiche necessarie ad una gradevole lettura digitale, pare molto più scettico rispetto alle possibilità di una politica di gestione dei diritti affidata unicamente all’iniziativa dei privati e alla mano invisibile del mercato. Descrivendo la “balcanizzazione” dei formati ebook (la tendenza di ogni produttore/distributore a limitare la circolazione dei propri prodotti attraverso l’uso di formati proprietari) Roncaglia sembra in fondo orientarsi verso una prospettiva il più possibile open source, l’unica d’altronde che potrebbe “mimeticamente” rilanciare le prerogative dei vecchi libri. E di fronte alla complessità del problema economico non può che evocare il profilo di una riconfigurazione radicale all’insegna dell’intervento pubblico. Sulla delicata questione della proprietà intellettuale nel nuovo ambiente digitale Pirateria, di Adrian Johns, (Bollati Boringhieri) presenta soluzioni più articolate e sfumate di quelle (rapidamente) proposte da Roncaglia. Avvincente storia sociale ed economica dei “processi fondamentali che permettono di creare, distribuire e utilizzare idee e tecnologie”, Pirateria piuttosto che come una forma di trasgressione considera il fenomeno alla stregua di un elemento determinante e produttivo di quei processi e delle formalizzazioni (legali, concettuali) che ne sono derivate, dal XV secolo ad oggi. In questa prospettiva, Johns si sforza di imbastire un apparato teorico utile ad affrontare le sfide dei nuovi media.

Appurata l’ineluttabilità di uno sviluppo digitale di massa della lettura, il principale motivo di intervento sociale del libro di Roncaglia risiede tuttavia nella necessità di preservare determinate caratteristiche del cartaceo anche in questo nuovo “mondo”, per non dimenticare “i piaceri delle forme di testualità legate alla cultura del libro”. Sarà fondamentale, soprattutto per i cosiddetti digital born (le persone nate e cresciute in un ambiente già saturo di tecnologia digitale), non abbandonare la ricezione al dominio esclusivo del multimediale. Su questo punto Roncaglia è molto fermo ma anche, forse, poco realistico. Bibliotecari e addetti ai lavori potranno e dovranno certo operare in questo senso, con azioni di tipo tecnico e specialistico, ma difficilmente si otterrà molto se non si saprà allo stesso tempo instillare nell’organismo sociale una sensibilità per molti versi controcorrente rispetto alla vulgata sviluppista e tecno-feticista onnipresente nel nostro paesaggio mediatico. Allo stato delle cose, si fatica a immaginare come i nuovi strumenti tecnologici potranno salvaguardare le risorse del vecchio libro senza trasformare la lettura in un consumo di “orpelli multimediali” (l’espressione è di Roncaglia) dispersivi e dissipanti. Chi vorrà, ad esempio, comprare un dispositivo specifico di lettura quando potrà avere a prezzi simili (come presto sarà) un tablet capace di navigare e supportare qualsiasi genere di applicazione, trasformando perciò stesso il luogo della lettura in piattaforma multitasking e social media: caratteristiche diametralmente opposte a quelle attraverso cui si è venuta formando la mentalità libresca, ciò che Steiner chiamava bookishness (cioè monocodalità e ricezione solitaria)? L’editore torinese Codice ha da poco pubblicato l’ultimo libro di Clay Shirky, uno dei più noti e seguiti studiosi del web. Il titolo, Surplus cognitivo, allude all’eccedenza di potenzialità creative e sociali propiziate dal web e disponibili per operazioni più o meno intelligenti e orientate alla partecipazione civile. Shirky offre numerosi esempi virtuosi, da Wikipedia alla militanza politica, persuaso tuttavia che “caricare su youtube video di gattini seduti su un aspirapolvere e scrivere sui blog post magniloquenti (siano) comunque atti più creativi e generosi che guardare la tv”. L’assimilazione a puro consumismo di qualsiasi forma non interattiva di trasmissione culturale e la celebrazione della “creatività” e della “socialità” a tutti i costi credo mostrino bene come anche tra i più avvertiti osservatori dei new media si conceda un credito praticamente incondizionato alle nuove forme della comunicazione digitale. Ha certamente ragione Roncaglia a lavorare per un’alfabetizzazione informatica che sia rispettosa anche del nostro passato libresco ma l’impressione è che dal surplus al sovraccarico cognitivo (Information overload) il passo sia breve e che, dati certi presupposti culturali, sarà bestia rara, in un prossimo futuro, chi vorrà invitare i più giovani a spegnere la panoplia delle applicazioni iperstimolanti e iperrelazionali per dedicarsi ad un’unica attività in maniera rilassata e concentrata. È questa l’opinione anche di Nicholas Carr, che in un articolo assai discusso dal titolo “Is Google making us stupid” (poi diventato un libro: Il lato oscuro della rete, Rizzoli. L’articolo potete leggerlo qui: ha espresso senza mezzi termini le sue preoccupazioni per l’impatto cognitivo determinato dallo zapping frenetico cui siamo ormai abituati in quanto navigatori a tempo pieno e utenti di servizi sempre più automatizzati. Studi psicologici alla mano, Carr mostra come concentrazione e memorizzazione saranno gravemente danneggiate dalla logica quantitativa che regge il sistema tecnico del web, sistema che lo studioso non esita a considerare come un’estensione del modello taylorista al dominio dell’attività mentale. Anche da un punto di vista economico, dice Carr, il web funziona bene se gli utenti transitano rapidamente da un luogo all’altro: “Più velocemente navighiamo – più link clicchiamo e pagine vediamo – più opportunità Google e altre compagnie hanno di raccogliere informazioni su di noi e di offrirci pubblicità”. La distrazione di cui Benjamin parlava quasi un secolo fa è diventata consustanziale all’ecosistema digitale: che si tratti della dimensione partecipativa elogiata da Shirky o di quella informativa, rappresentata oggi dalla mastodontica impresa dei fondatori di Google, fedeli a una vecchia ossessione occidentale: l’utopia di una “intelligenza artificiale” ottenuta attraverso una (mega) macchina dotata di tante e tali conoscenze sui comportamenti di ogni singolo utente “da essere in condizione di fornire per ogni ricerca una sola risposta: perfetta” (prendo la citazione dal bel libro di Ken Auletta: Effetto Google, la fine del mondo come lo conosciamo, Garzanti). Determinazione tecnica della personalità (ormai in tempo reale), rapsodia interminabile tra le onde di un sapere sempre più disincarnato e preciso, di una mediazione sempre più densa e allo stesso tempo occultata, accelerazione frenetica del regime della comunicazione e quindi anche dei suoi “precipitati” artistici o letterari. Meglio sapremo oggi mettere in discussione quel modello di perfezione e il contesto che lo rende desiderabile, più possibilità ci saranno forse domani di trovare ancora qualcuno (e non soltanto uno studioso o un nostalgico umanista auto-emarginatosi dentro polverose biblioteche) capace di leggere, apprezzare, godersi una descrizione di Conrad, un dialogo di Dostoevskij, una pagina di Flaubert (per non parlare di tutto il resto).

Questo articolo è uscito su Alias

Commenti
5 Commenti a “eBook: l’insostenibile leggerezza della lettura digitale”
  1. ernestoA ha detto:

    “Chi vorrà, ad esempio, comprare un dispositivo specifico di lettura quando potrà avere a prezzi simili (come presto sarà) un tablet capace di navigare e supportare qualsiasi genere di applicazione…?”

    La risposta è abbastanza semplice, ed è allo stesso tempo di carattere tecnico e culturale.
    I “dispositivi specifici di lettura” sono incapaci di fare tutte quelle cose che sono generalmente ritenute indispensabili in un oggetto elettronico: niente multimedialità, navigazione internet penosa, non scattano foto né fanno telefonate etc. In compenso, poiché non emettono radiazioni luminose verso i nostri occhi, permettono di leggere libri, cioè di leggere a lungo – cosa che con gli schermi LCD dei tablet non è possibile (provate a leggervi Guerra e pace sull’Ipad, poi ne riparliamo). Sono oggetti il cui uso mantiene inalterate le caratteristiche tipiche della fruizione del libro: la concentrazione su un solo testo per volta, la linearità della lettura. Quindi, anche se integrano alcuni vantaggi tipici dell’era dell’informatica e del web (possibilità di immagazzinare centinaia o migliaia di testi, possibilità di procurarseli in un attimo, disponibilità di risorse gratuite) sono essenzialmente nuovi supporti per i vecchi libri. Diciamo che rendono più facile, innestandovi tutta la velocità della rete, l’approvvigionamento della nostra biblioteca. Ma sono destinati a chi ha familiarità con il libro e desideri continuare a praticare l’esperienza della lettura così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Dunque una minoranza, nonostante il grande successo del Kindle e di altri dispositivi.

    Il titolo del pezzo, tra l’altro, risulta fuorviante: l’ebook e la sua lettura non hanno niente a che vedere con il saltellare da un link all’altro e da un messaggio all’altro che caratterizza l’uso della rete e che – come credo l’esperienza di ciascuno possa provare – dopo poche decine di minuti riduce le nostre capacità di concentrazione a quelle di un neonato. La “lettura digitale” è sotto l’aspetto cognitivo esattamente uguale alla lettura tradizionale: concentrazione, “monotasking”, linearità, monocodalità.

  2. carlo mazza galanti ha detto:

    Ernesto,
    devo confessarti che mi capita sempre più spesso di leggere bozze di romanzi in pdf sul mio macbook e anche dopo ore di lettura i miei occhi stanno benone, non ne risentono. Oltretutto, come spiega bene Roncaglia, nuove tecnologie alternative all’epaper sono in dirittura d’arrivo e saranno le stesse adottate da ebook reader e tablet. Ma non capisco bene la tua obiezione, che forse non è un’obiezione. Tu dici che gli utenti di lettori ebook specifici saranno una minoranza, be’ è quello che penso pure io. Il libro, o il suo surrogato (il dispositivo elettronico specifico appunto, anche se è da vedere per quanto continueranno a produrne), da medium principe per l’oggetto testuale potrebbe diventare (forse è già diventato) un medium di nicchia. Al suo posto ci saranno i computer, in forma di tablet o palmare o laptop o chissà che altro, e in quanto tali, come dico nell’articolo, saranno multitasking e multimediali (anche se l’ipad ancora non è veramente multitasking, la direzione è chiaramente quella). A me non interessava tanto pensare al futuro della minoranza di affezionati all’oggetto libro (che probabilmente continueranno a comprarsi libri di carta e non lettori ebook) ma a tutti quelli (verosimilmente la stragrande maggioranza) che sedotti dalle nuove tecnologie preferiranno fare tutto, compreso leggere libri, a partire dalla loro “tavoletta” elettronica. E sul rischio di dispersione cognitiva che ne deriva mi pare che siamo d’accordo.
    Aggiungo che io stesso oggi, dovendo comprare un dispositivo utile per la lettura digitale, credo che tenderei a prendere un tablet multifunzionale. Il Kindle e gli altri ebook reader costano intorno ai 200 euro, un mio amico programmatore ha comprato un tablet cinese (che monta android) a 130 euro su internet e mi pare che sia soddisfatto. Stando così le cose…

  3. ernestoA ha detto:

    certo, più che un’obiezione era una risposta alla domanda riportata tra virgolette.

  4. Ti. ha detto:

    Kindle costa 139 dollari, ovvero 100 euro!

  5. carlo mazza galanti ha detto:

    vero Ti. Il modello base costa poco, meno degli altri reader.
    C’è sempre quel tablet cinese di cui parlavo, comunque:
    http://www.lightinthebox.com/it/APAD—Android-2-1-tavoletta-a-met–con-7-pollici-touchscreen-HD—wifi_p153385.html
    E chissà quanti altri.
    (Non apriamo però qui una discussione sui prezzi dei lettori ebook. Per quello ci sono altri luoghi! ciao)

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