Su Venezia 75, a partire da Vox Lux di Brady Corbet

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Eccentrico, moralista, frammentario, irrisolto, hanno detto alcuni. Arrogante, debordante, frastornante, raffazzonato, hanno scritto altri. La stampa presente al Festival di Venezia 2018 ha accolto con giudizi severi Vox Lux, l’opera seconda di Brady Corbet con Natalie Portman.

Concorreva per il Leone nell’Official Competition. Le aspettative, del resto, erano molto alte. Poco conosciuto come attore (ha lavorato tra gli altri con Araki, Assayas, Haneke e Von Trier), Corbet si è imposto all’attenzione internazionale da regista con The Childhood of a Leader — L’infanzia di un capo, presentato nell’Orizzonti veneziana di due anni fa. Gli elogi, allora, furono pressoché unanimi. Vinse il Leone del futuro, un premio assegnato ogni anno alla migliore opera prima presentata in una delle selezioni ufficiali o parallele. Inoltre, la giuria, presieduta da Jonathan Demme, lo premiò per la regia.

Ed è proprio al grande Demme cui Corbet dedica questo suo nuovo lavoro: «perché ha cambiato la mia vita premiandomi qui a Venezia, poi si è preso cura di me e del mio film e ha fatto questa stessa cosa con tanti registi nella sua vita», ha detto l’autore appena trentenne in conferenza stampa. A Demme deve tutto insomma, probabilmente anche il coraggio per averci riprovato dietro la macchina da presa, l’aver osato un film che, toccando corde individuali e collettive, elabora la materia filmica con una personalità e una consapevolezza impressionanti. E Vox lux è molto più vicino alle fragilità e alla sostanza contraddittoria del nostro tempo, di quanto non fosse l’ispirato lavoro che lo ha preceduto.

La dedica a Demme mi ha confermato una sensazione maturata durante la visione: lo sguardo di Corbet è molto più rivolto a catturare la storia individuale, le venature del percorso psicologico della protagonista, che non a fotografare, rimarcando i motivi sociologici e di contesto, la storia collettiva, malgrado il sottotitolo assegnato al film, ritratto del XXI secolo, possa far pensare al contrario. Vox lux è la storia dei rapporti interpersonali di una ragazza traumatizzata dagli eventi della vita, tra il 1999 e il 2017, e poi (soltanto poi) la storia dell’ascesa di una stella della pop music sopravvissuta a una strage, nell’epoca del terrorismo.

L’11 settembre 2001, spartiacque storico dell’America del nostro secolo, cui si accenna in una scena di dialogo, è funzionale a contrassegnare innanzitutto il passaggio all’età adulta della protagonista. Si chiude la storia di Celeste-giovane (Raffey Cassidy), sopravvissuta a un massacro che ricorda quello di Columbine, ma non è Columbine, e si apre la storia di Celeste-adulta (Natalie Portman), una pop star dalla personalità problematica.

Dovendo rispondere pubblicamente rispetto a un atto terroristico che somiglia molto a quello subito, Celeste-adulta sceglie la fuga, l’omissione, sceglie il proverbiale “the show must go on” (la scena della conferenza stampa). Ancora una volta il film trasfigura un evento realmente accaduto: la strage di Sousse, avvenuta in Tunisia nel 2015. Ciò che Corbet riconsegna della Storia sono suggestioni, allusioni, cicatrici approssimative, tracce volutamente e consapevolmente, parziali.

Il suo interesse è tutto focalizzato sulla doppia vita di Celeste e su quanto, sia prima, sia poi, la forza e l’equilibrio del personaggio dipendano strettamente dalle persone che la circondano.

La sorella Eleanor (Stacy Martin), la controparte imprescindibile, la ghostwriter delle sue canzoni, la nemica più cara. Eleanor vegliava Celeste-giovane-sopravvissuta in ospedale, ed è la sola capace di rimettere in piedi la Celeste-adulta-pop star alterata dalle droghe. E poi c’è Il Manager (Jude Law), altro fil rouge che attraversa tutto il racconto. Il manager è la guida, il vertice di un triangolo, ma soprattutto il collante: colui che rimette insieme i cocci e scherma le fragilità di Celeste agli occhi del mondo. Perché Vox lux, in definitiva, è la storia dell’elaborazione di un trauma. Questo trauma allaccia indissolubilmente tutti i personaggi e li rimette davanti alla loro condizione di esseri umani viziati da una castigante, seppur naturale, parzialità.

E poi c’è la figlia di Celeste, interpretata da Raffey Cassidy: la stessa attrice che aveva dato volto e corpo a Celeste-giovane, nella prima parte del film. Il doppio ruolo di Raffey Cassidy chiarifica l’operazione messa in atto da Corbet: Celeste-adulta non potrà mai affrancarsi da Celeste-giovane. La sequenza della spiaggia, che si chiude con un’inquadratura che vede Natalie Portman e RaffeyCassidy di spalle, l’una di fianco all’altra di fronte al mare, è l’emblema di una fatale sovrapposizione di ruoli, dello specchiamento che svela il cuore del film. Un giubbotto con su scritto «Celeste» diventa il perno attorno al quale ruota tutto: se il futuro dipende da ciò che siamo stati, da ciò che ci è accaduto, allora saremo sempre gli eredi innanzitutto di noi stessi.

Con The Childhood of a Leader Corbet aveva raccontato la costruzione di una personalità, lo sviluppo di una consapevolezza segnata da un’educazione troppo rigida, in Vox lux racconta gli effetti schiaccianti di un trauma e la frantumazione dell’individualità. Della superstar non vediamo l’ascesa arrembante, non godiamo della ricchezza e del benessere, e neppure la fiera noncuranza di chi ha raggiunto una posizione di successo e ne fa libero sfoggio e sfogo. Ciò che ci racconta il film è la dimensione disfunzionale della volontà. L’ascesa di un leader coincide allora con l’esplorazione delle contraddizioni e dei limiti del potere. Nei film di Corbet è la Storia che entra nella finzione, non il contrario. La sostanza primaria del suo discorso è umano, e psicanalitico.

In Vox Lux Corbet lavora sul doppio, e interviene sul tempo. Ecco perché le soluzioni formali scelte dal regista sono tante e così marcate. Lunghi piani sequenza si alternano a fast forward, e a ralenti. La voce narrante extradiegetica di Willem Dafoe sintetizza stralci di vita, talvolta colmando lacune, talvolta iniettando informazioni marginali. Le sottolineature visive si configurano espressioni di un punto di vista intimamente parziale, quello della protagonista, Celeste, il cui registro della memoria funziona esattamente come il nostro: è un testo confuso, lacunoso, talvolta frenetico, talvolta laconico, spesso ripetitivo, parossistico, contraddittorio, qualche volta addirittura ironicamente avulso da ciò che crediamo di essere.

Per concludere, Vox Lux mette in scena la parzialità percettiva ed elaborativa di un personaggio, sottolineandone la deriva oscura, discorde e ipocrita. Il finale rinnova e amplifica il meccanismo di rimozione che si erge a fondamento del racconto. Corbet allestisce l’unico finale possibile per questa storia, composta di ellissi e di cupo splendore, lo fa lavorando ancora una volta sul tempo. Sono minuti in cui non accade niente e succede tutto, in cui domina la continuità, minuti in cui il tempo della storia coincide finalmente con il tempo del racconto.

È nell’insistenza nell’osservare un’azione che non produce fatti che si avvera il compimento. E in una Natalie Portman capace, per la sua parte del film, di incarnare l’eco delle luci della ribalta e insieme la carnalità dell’errore grossolano. Angelo dell’abisso e demone fallito, fragile e dissimulatrice, perfida e arrendevole, eccentrica e robotica. In una Portman capace di sintetizzare con il suo lavoro la parola contraddizione, si estende un finale che batte il tempo epico del qui e ora.

Tutto allora ha il sapore della riconciliazione transitoria, dell’illusione ipnotica, del riscatto fantasmatico, dentro e fuori lo schermo. Perché quante volte, calcando il palcoscenico della nostra unica piccola vita, capita di dirci: the show must go on. Poi, per diversi minuti, ci alleggeriamo, ci muoviamo, resettiamo i pensieri, per non sentire il bisogno di ammetterlo che sta accedendo, e allora non ce lo diciamo più, lo viviamo e basta, il momento, il presente, rimandando tutto il resto a domani. Lo viviamo e basta, nella maniera più satura e avvolgente: the show must go on.

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Del nostro tempo

Nuestro tiempo è il titolo di un altro film meraviglioso passato in concorso a Venezia quest’anno. Lo ha firmato Carlos Reygadas mettendoci tutto sé stesso dentro: la moglie, il matrimonio, i figli, il ranch, la sua vita – sé stesso come protagonista, appunto. Dura 180 minuti, racconta l’amore e la frustrazione. Racconta le fessure della terra arida irrorata di perline e l’acqua torbida e fangosa dei laghi del Messico. Racconta di un amore che si frantuma e ricompone per poi frantumarsi di nuovo: l’amore che vuole essere libero e nel volersi ma non potersi far libero, incatena ancora di più a sé. Il regista – il meno fortunato e forse il più meritevole in gara – raccontava l’ostinazione e il dubbio e, insieme, il verso inconsulto e stizzito dei tori. Chissà se mai lo vedremo in Italia questo lavoro di Reygadas, me lo auguro tanto.

Cicatrici approssimative e cicatrici generative

La parabola che Celeste compie in Vox Lux rivela quanto sia precario il controllo che il personaggio esercita sulla propria vita e quanto di fatto siano parziali, inesatte, incomplete le cicatrici che Corbet consegna della Storia. Non sono certo le cicatrici mostruose, generative e viscerali di Luca Guadagnino, che usa la danza per stabilire una connessione tra la grazia della finzione e le fratture indelebili della Storia: il nazismo. In Suspiria, liberamente basato sul film di Dario Argento del 1977, Guadagnino e lo sceneggiatore David Kajganich – con lo stesso metodo utilizzato in A Bigger Splash – ci immergono in un microcosmo avvolgente e ambiguo, per poi abbandonarci all’evidenza di ciò si cela sotto: una metaforica e cerebrale coniugazione del Terribile.

La doppia vita

Double vies di Oliver Assayas è un altro gioiello passato a Venezia 75, uscirà in sala a gennaio 2019 con il titolo Non-ficton. Lavorando in maniera lieve e sofisticatissima sugli aspetti cruciali del sistema culturale contemporaneo, il regista francese racconta con ironia punti deboli e verità sgradevoli dei rapporti di coppia. Una commedia degli equivoci scritta con un’attenzione folgorante per i dettagli, che offre spunti di riflessione praticamente in ogni scena. Ne raccolgo uno. In quest’epoca di democrazia culturale – in cui Google potrebbe diventare presto il detentore della memoria letteraria collettiva – e di democrazia sentimentale – per cui il capitale privato potrebbe sfilacciarsi a colpi di inganni e autoinganni – il corto circuito comunicativo è sempre in agguato, forse, semplicemente, perché «abbiamo smesso di credere, non ci fidiamo più».

La Storia che entra nella finzione

«Ci sono periodi nella storia che lasciano cicatrici nella società, e momenti nella vita che ci trasformano come individui. Tempo e spazio ci limitano, ma allo stesso tempo definiscono chi siamo, creando inspiegabili legami con altre persone che passano con noi per gli stessi luoghi nello stesso momento», ha detto Alfonso Cuarón in merito al suo Roma. Mi servo delle parole di Cuarón per sottolineare un tema ricorrente di Venezia 75: il rapporto tra storia e finzione, l’influenza della memoria sul presente, il passato quale monito per l’avvenire; e per chiudere il parallelo aperto sopra. A me sembra che Corbet con Vox Lux abbia voluto raccontare la seconda parte dell’assunto di Cuarón: tracciare lacunosamente i momenti della vita che ci trasformano come individui; Guadagnino e Kajganich, con Suspiria, la prima parte: sublimare i periodi della Storia che lasciano cicatrici nella società. Suspiria uscirà nelle sale italiane a gennaio 2019, Vox Lux, al momento in cui questo pezzo va online, non ha una distribuzione.

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