Scriviamo all’Imperatore

keun

Pubblichiamo un estratto dal romanzo Una bambina da non frequentare della scrittrice tedesca Irmgard Keun, uscito per L’Orma, che ringraziamo.

di Irmgard Keun

Vorrei che l’imperatore portasse la pace. Allora gli scrivo che un imperatore può fare qualsiasi cosa, per questo è imperatore. La signorina Knoll ha detto che è come un dio in Terra e il signor Kleinerz ha detto che è anche pieno di soldi. Hans Lachs ha detto che bisogna immaginarselo così: dio buono, imperatore con la corona e per giunta con una barca di soldi. E l’ermellino? Che cos’è? Be’, lui ha anche quello. Dovrebbe far sì che su tutti gli alberi cresca pane bianco, che il Reno sia un fiume di marmellata, che in un battibaleno le persone abbiano quattro braccia, nel caso in cui un colpo di fucile gliene faccia saltare uno, e che tutti i soldati morti tornino in vita. Abbiamo letto qualcosa circa il nobile gioco della guerra e spesso ci abbiamo giocato anche noi con i fratelli Schweinwald, buttandoci per terra stecchiti. Però poi ci siamo sempre rialzati sulle nostre gambe, e quando una volta giocando mi è uscito il sangue dalla testa mio padre ha detto che non dovevamo esagerare.

Al signor Kleinerz un colpo gli ha fatto saltare un braccio. Dice che esiste di molto peggio, ma io non ci credo. Quando era ricoverato nel convento della Trinità io e mio padre andavamo a trovarlo ogni giorno. Gli abbiamo portato delle prugne verdi, tutte le nostre rose rosse rampicanti, giochi passatempo, a lui e anche agli altri feriti. Gli ho raccontato centinaia di storie sui lupi che hanno denti grandi come tronchi d’albero e che vogliono divorarsi prati e pecore, ma i fili d’erba diventano di colpo cardi spinosi e gli tagliuzzano le pance, quindi arriva una pecora gigante e con delle forbici gli apre la pancia, come in Cappuccetto Rosso. Gli ho raccontato anche cosa provo quando mi immergo nel mare e finisco su un’isola corallina, e gli squali mi nuotano attorno, ma non mi mordono perché gli do dei pezzetti d’ambra. Anche i feriti hanno raccontato delle storie, tutti abbiamo raccontato qualcosa, uno suonava piano l’armonica e cantava: «Mägdelein dai capelli neri…». Spesso sono andata da sola dai feriti, senza papà. Ma io non sono imperatrice. L’imperatrice posa benevola la sua dolce mano sulla fronte di un soldato febbricitante e tutti i feriti sono felici e vorrebbero morire di gioia. Io queste cose non le so fare.

Il signor Kleinerz mi ha raccontato che in tempo di pace si poteva avere tutto il pane bianco che si voleva, bastava solo andare nei negozi. Da bambini lo inzuppavano sempre nel latte. Piacerebbe anche a me farlo, perché con quello non ci si ammala mica. Il nostro medico di famiglia, il dottor Bohnenschmidt, è tremendamente vecchio e sa qualsiasi cosa, e mi ha detto che le piaghe sulle mie mani e sui miei piedi sono causate dal pane. Da allora sono terrorizzata all’idea di mangiarlo e anche mia madre non me ne dà più perché ne ha già passate tante con me. Per darmi del cibo che non mi fa male se lo toglie lei dalla sua bocca. Ora mi sono rimaste solo le cicatrici sulle gambe, che però non mi danno più fastidio. Ma prima, quando erano dei veri e propri buchi, usciva sempre il pus e dovevo metterci lo iodio. Faceva un male cane, la mattina al risveglio avevo già paura della sera. Quando lo iodio entrava nei buchi urlavo così forte che una volta è arrivata la polizia perché i vicini credevano che mi stessero maltrattando e volevano sporgere denuncia.

Alla locanda dei Mengers c’è un soldato straniero che zappa la terra. È un prigioniero e appartiene ai tedeschi. Se nel locale non c’è nessuno, a volte la signora Mengers mi lascia giocare con le palle del biliardo. Allora immagino che le palle siano fiori e che io le faccia rotolare su un grande prato verde. Non ho il permesso di spingerle con quella lunga stecca, ma solo con le mani, così non rischio di rompere niente. Un giorno la signora Mengers mi ha chiesto di portare il caffè al prigioniero fuori nel campo, d’altronde era pur sempre un essere umano. All’inizio avevo paura, in fin dei conti era comunque un nemico. Però se ne stava seduto tranquillo su una pietra e stringeva la vanga nelle mani, gli occhi stanchi e inespressivi, il mento grigio e nemmeno l’ombra di un sorriso, solo un’infinita tristezza. Ero lì in piedi con il caffè, il cielo era immenso e azzurro, il campo marrone e sterminato. Nell’aria non volava nemmeno un uccello, ero completamente sola con il prigioniero. Il suo berretto era poggiato per terra, i capelli sembravano erba appassita mossa dal vento. Voleva andare a casa, di di sicuro se ne voleva andare a casa. Non ha detto una parola, ma sono certa che volesse tornare a casa. Viene da un altro Paese. Gli altri Paesi sono lontani, a scuola non li ho ancora studiati, ma me l’ha detto papà. Una volta lui è stato anche in Romania e a mamma ha portato una camicetta ricamata. La Romania: ma dov’è la Romania? E poi esiste anche l’Africa, dove ci sono gli uomini neri, ma proprio tutti neri, e il sole batte fortissimo. Loro non devono aspettare la villeggiatura per essere abbronzati, lo sono naturalmente e molto di più della signorina Löwenich che per questo motivo è andata apposta a Borkum, tanto che le signore del circolo le hanno detto: «Ma sembri africana!». Qualche volta mia madre si mette sul balcone, affonda nella vecchia sedia a sdraio, si ritrova con dei lividi sul corpo, batte i denti dal freddo e piagnucolando dice a mio padre: «Dio mio, Victor! Anche il sole di marzo picchia eccome!».

Se solo avessi potuto parlare con quel prigioniero straniero. Ho cercato di ripescare qualche parola straniera dalla mia testa. Ho detto «Simsalabim», «Apriti sesamo», «Abdullah», «Vodka», «Oh là là, mademoiselle», «Madagascar», «Thurn und Taxis», che è una collezione di francobolli, e in quel momento non mi è venuto in mente altro. Il prigioniero mi ha fissato senza dire nulla. Ma ha fatto dei gesti amichevoli e ha bevuto tutto il caffè con un lungo sorso. Poi si è rimesso il berretto e mi ha regalato un piccolo crocifisso d’avorio.

Volevo giocare ancora a biliardo, ma le palle rotolavano tristi. Mi sono affacciata alla finestra: in lontananza il prigioniero ha ripreso a scavare e non ha più smesso. Avrei tanto voluto che potesse tornare a casa. Non vorrei essere prigioniera, buon Dio, non vorrei mai essere prigioniera e non poter tornare a casa.

Quando verrà la pace, il prigioniero potrà andare a casa e i nostri soldati torneranno a casa, tutti potranno andare a casa. Anche il mio soldato potrà tornare a casa. È in Francia, e io non lo conosco. Ho fatto un pacchetto per un soldato rimasto solo, senza più genitori. A scuola il signor cappellano ci ha dato gli indirizzi dei soldati rimasti soli. Quello mi ha risposto, e ora gli scrivo tutte le settimane. Una volta abbiamo cucinato un piccolo arrosto, ne abbiamo mangiato metà e l’altra metà l’ho spedita al mio soldato. Mi ha mandato delle magnifiche cartoline disegnate da lui, con carri armati, montagne ricoperte di reticoli e prati pieni di filo spinato. Le ho incollate tutte su un bell’album, ma a dir la verità non credo che mi piacerebbe vivere laggiù.

Le nostre lettere all’imperatore sono venute molto lunghe. Io gli ho scritto su della carta rosa, Hans su un foglio azzurro. I francobolli non li abbiamo messi, abbiamo pensato che tanto all’imperatore si può scrivere anche così.

Stavolta però ci è andata particolarmente male. Mentre aspettavamo una risposta eravamo felici, mai avremmo pensato che una roba del genere potesse andare di nuovo storta. Ma il fatto è che a Berlino dei signori importanti hanno intercettato le nostre lettere e non le hanno consegnate all’imperatore, io e Hans Lachs siamo assolutamente certi che sia andata così. Come diavolo faranno a essere tanto cattivi? Per colpa delle lettere il professor Lachs e mio padre devono recarsi ogni giorno al presidio di polizia. Sono convinti che i nostri padri fossero a conoscenza di tutto. Come se noi bambini fossimo incapaci di mantenere un segreto! E ora i nostri papà ci odiano come non mai, hanno la testa piena di rabbia e di preoccupazioni, e per colpa nostra hanno dovuto affrontare pericoli tremendi e interminabili odissee. Avrebbero inoltrato le lettere anche alla scuola, così da farci cacciare. Mia madre non voleva vivere questa vergogna, i nostri padri dovevano sistemare tutto. Noi mica intendevamo fare qualcosa di male, al contrario; tra l’altro nessuno ci ha mai detto cosa ci fosse di male, hanno solo continuato a ripetere quanto siamo tremendi, talmente tanto che non si può dire.

Hans Lachs è scoppiato a piangere e ha detto che ora anche lui è convinto di essere tremendo. Allora gli ho risposto che dovevamo rimediare dei soldi per andare di persona dall’imperatore e fargli sapere che gli leggono la posta. Questo non si fa, lo so bene da quando mia zia Millie ha provato a leggere una lettera di mia madre. Hans Lachs ha smesso subito di piangere e ha concordato con me sulla necessità di andare dall’imperatore. Per procurarci i soldi, però, ci toccava batterci con gli orsi.

Sul prato di fronte allo Stadtwald, infatti, si è sistemato il circo Platoni, che viene tutti gli anni e ogni volta diventa sempre più piccolo. Mio padre ha detto che era penoso, minuscolo e deserto. Io invece lo trovo magnifico, con quella capra che sa contare, l’uomo dei serpenti e l’orso sempre pronto a combattere. Il signor Platoni è un clown e spruzza acqua dalla bocca su un altro clown, ma a far questo sono capace anche io. Poi però si mette a lottare con l’orso e riesce a scaraventarlo a terra. E chi fra il pubblico ha il coraggio di sfidare il bestione vince un mucchio di soldi.

Ce ne stavamo davanti al circo. Otto Weber, i fratelli Schweinwald più grandi, Hans Lachs e io. Nessuno di noi fiatava, io e Hans Lachs abbiamo tirato a sorte lanciando in alto una lattina di birra. Ho perso, e gli altri hanno detto: «Tocca a te». Allora l’ho fatto. Ero impietrita dalla paura, non sapevo più niente, non riuscivo a pensare ed ero come morta, eppure l’ho fatto. Sono corsa dentro al circo, davanti a tutti, fino al clown e all’orso.

Volevo combattere con il bestione, il clown era lì vicino. Ho afferrato l’orso dalle orecchie per tirargli giù la testa. E quello mi ha guardata con degli occhi tristissimi ed è crollato a terra. L’avevo a malapena toccato, era molto più debole di me. Più tardi quelli del circo hanno detto che l’orso era stremato. È tanto tempo che patisce la fame, senza pesce né altro da mangiare. Hans Lachs ha preteso la giusta ricompensa per la lotta, ma non ci hanno dato un fico secco. È stata una cattiveria, però in fin dei conti non avevo combattuto per davvero. Inoltre l’orso avrebbe sì potuto mangiarmi, ma non l’ha fatto. Non sono riuscita a fare a meno di piangere per quell’orso triste, così come Hans Lachs per l’ingiustizia subita, i fratelli Schweinwald erano tutti attorno a noi ma non piangevano affatto. Ce ne stavamo sul prato, nell’erba i piedi si bagnano; era già tardi, anche stavolta ci avrebbero fatto una ramanzina. In quel momento si è avvicinato un soldato in licenza che aveva assistito alla scena, e mi ha regalato un marco. Eravamo così felici di aver rimediato un marco, che c’importava ora dell’imperatore? E poi, anche senza le nostre lettere, avrebbe dovuto sapere tutto anche da solo, sennò voleva dire che non valeva chissà quanto. Hans Lachs ha detto che forse era molto più interessante il signor Zeppelin: con lui c’era più azione, bisognava scrivergli! Volevamo comprare un succedaneo del miele per il povero orso, sicuramente l’avrebbe mangiato volentieri. E poi volevamo andare all’Angolo d’oro a fare un giro sull’altalena, sempre più in alto, altissimi, fino alle nuvole. Non c’è niente di più bello.

A casa tutti erano già al corrente dell’orso. Mamma mi ha abbracciata. C’era anche il signor Kleinerz, il quale ha detto vivaddio che in questo mondo ci sono ancora bambini come me e Hans Lachs, pronti a rischiare i pericoli che abbiamo corso: è grazie a noi se l’umanità non si estinguerà tanto presto. «Per favore, signor Kleinerz, non dica scempiaggini di fronte a questi bambini orribili» ha commentato zia Millie.

Papà è venuto con noi dall’orso, volevamo portargli il miele finto. Ma il bestione era morto. Chissà da quanto non mangiava più pesce, è tutta colpa della guerra, quanto sarebbe bello se ci fosse la pace, se l’orso fosse vivo… Voglio che l’orso sia vivo di nuovo.

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