Il mercato della voracità – Frammenti di un discorso politico tra una pizza veloce e un lentissimo gelato
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Sono lì, sto per finire la mia marinara doppio aglio e doppio origano, mentre il mio amico sta ancora parlando con una fetta ben arrotolata sulla punta delle dita. Si potrebbe dire del modo in cui ciascuno affronta le cose osservando il modo in cui affronta la pizza. C’è chi non ti guarda nemmeno e concentrato sul piatto procede come eseguendo un compito delicato. C’è chi la taglia in quattro e con quella precisione di croce spera di controllare il destino, chi scarta la periferia credendo di avere colto il meglio, chi si ferma ogni fetta, chi si perde a parlare e ti viene da dirgli che si fredda, chi voracemente ha già finito e tu sei ancora lì al primo spicchio.
Non c’è alcun criterio morale, la lentezza non è un disvalore, così come la rapidità non è un criterio. Arriva quello che ormai è il cameriere indottrinato dal mercato della velocità globale che non vede l’ora di portarmi via il piatto appena poggio le posate. Capita dappertutto. Non è questione di cura, o di attenzione. Né tanto meno di quella sbrigativa efficienza tanto cara al capitalismo anche se col capitalismo qualcosa deve pur avere a che fare. Che l’altro stia ancora lì a mangiare e tu non voglia star lì senza nulla davanti, è il piano. Ordina qualcos’altro? Vuole il menu? L’ansia con la quale si affrettano a farti sentire in colpa del vuoto davanti a te, della mancanza di consumazione, dell’inutilità del tuo stare lì senza consumare, è la strategia.
I tavoli vanno occupati, e liberati. Politica colonialista. E tutto deve avvenire in breve tempo. Più è breve più la sequenza occupazione liberazione viene ripetuta una raffica di volte. Mangiare è lo scopo. Convivialità? Cene per dirsi d’amore, ricordare, guardarsi, finirla lì, toccarsi? Stare anche solo ancora un po’ a chiacchierare? Lo spazio pubblico è lo spazio di una consumazione. Espletata la pratica, via. Fuori uno dentro l’altro. Una batteria di polli da allevamento.
Viene voglia di rileggere la storia di Erisictono, un re che per erigere il suo palazzo reale caccia gli abitanti – e già qui, come non pensare a certe strategie urbanistiche, via i cittadini, benvenuti turisti – e abbatte l’albero sacro a Demetra, la dea delle messi, a cui le ninfe della foresta danzavano intorno. L’ira della dea punisce l’arroganza del re con la fame, un soffio che gli entra nel corpo e che lo affama tutto il tempo. Più consuma, dice la storia, più la fame si infiamma come un fuoco che tutto divora. È una fame innaturale, perfino astratta, desiderativa di tutto, un tutto che non la soddisfa mai, una fame distruttiva e autodistruttiva. Comincia a mangiare sé stesso, pezzo a pezzo. Il re muore di fame nell’abbondanza di tutto. Non vorrei esagerare ma sembra tanto lo spettacolo di questo tardo capitalismo un po’ autofago.
La velocità è l’altra faccia della strategia della lentezza, mi dice l’amico mentre entriamo in una di quelle gelaterie sparse dappertutto, con quel diminutivo angelico da putto seicentesco. La lentezza è quella esasperante di chi è lì per issarti un gelato sopra un cono. Petali, uno per volta, spatola dopo spatola disegnando la rosa dei tuoi gusti, quelli che hai individuato stando in fila per il lungo tempo che ci vuole a far sbocciare ogni volta quel bocciolo innaturale.
Un tempo che serve, continua lui, a tenere sempre occupato non un tavolo ma l’intero spazio del negozio, a far pensare che ci sia sempre gente che aspetta ingolosita, a far desiderare di essere anche tu partecipe di quell’evento collettivo che passa dall’attesa desiderante all’esaltazione della conquista alla frustrazione che non puoi non provare leccando un gelato che da tanto bello non diventa poi così buono. Sarà che il mio amico ha preso fragola e limone come quando era bambino, e magari abbiamo solo voglia di ritornare a quel gelato in quel tempo della vita, ma qui la velocità con cui lo divora non ha a che fare con la frenesia di un cameriere pronto a sbarazzare la tavola e a sbarazzarsi di noi. L’attesa deve avere giocato la sua parte nell’acuire il desiderio.
Velocità e lentezza, non sembra ci sia modo di contrastare l’andamento. Ma non viene voglia di reagire, dissentendo?, Scusi, lasci, mi lasci contemplare il vuoto del mio piatto. Oppure, veramente essere lì in quella fila lenta ad aspettare un gelato crea l’illusione che sia il gelato più buono del mondo, e ci leghi tutti alla catena dello stesso marchio come vittime volontarie di un esperimento di massa?
Caterina Serra, scrittrice e sceneggiatrice. Ha vinto nel 2006 il premio Paola Biocca per il reportage letterario con “Chiusa in una stanza sempre aperta”, da cui ha avuto origine il romanzo-reportage Tilt (Einaudi, 2008). Il suo secondo libro “Padreterno” è uscito nel 2015 sempre per Einaudi.
È sceneggiatrice di film documentari come “Napoli Piazza Municipio” (Bruno Oliviero, Premio per il miglior film documentario al Festival del Cinema di Torino, 2008), di “Parla con lui” (Elisabetta Francia, 2010) e
autrice del soggetto e della sceneggiatura di “Piccola Patria” (Alessandro Rossetto, Venezia ’70 sezione Orizzonti, 2013). Con lo stesso regista ha lavorato al film in uscita “Effetto domino” tratto dal romanzo
di Romolo Bugaro, Einaudi.
Collabora all’ideazione di Immemoria con il coreografo e ballerino Francesco Ventriglia, Teatro alla Scala, Milano, maggio 2010. È autrice di Displacement – New Town No Town, (fotografie di Giovanni Cocco), un progetto di scrittura e fotografia, esposto al MACRO di Roma nell’ambito del Festival Internazionale della Fotografia 2015 (Quodlibet 2015), e in esposizione al Centre de la Photographie di Ginevra nel 2020. Scrive regolarmente per il settimanale “L’Espresso” e collabora come autrice con “La Repubblica” e con la rivista online “Minima&Moralia”.
Sta scrivendo il suo terzo romanzo.