Una storia di solitudine e coraggio: “Malintesi” di Bertrand Leclair

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Un istante di voluttà cieca rivela un evento tragico che travalica ogni previsione: precede la consapevolezza dell’imminente capovolgimento e metamorfosi dell’esistenza. Si insinua in quello scarto temporale Bertrand Leclair per investigare, attraverso Malintesi (traduzione di Marco Lapenna, Quodlibet, 2019), gli esiti di una storia individuale rilevante perché sintomatica della storia dei sordi del Novecento, dominata dalla “tendenza degli uomini a disintegrare l’umano, a condannare ciò che di vivo c’è nel vivente”.

Leclair raffigura la percezione di profonda solitudine vissuta dal suo protagonista, Julien, figlio secondogenito di Yves Laporte e di Marie-Claude Legrand nato con una sordità profonda nei primi anni Sessanta a Lille. “L’altro si rivela identico eppure diverso, irriducibilmente, perché nessuno saprà mai cosa vuol dire essere sordi se non è sordo”.

Eroe della Resistenza, ambizioso e dotato di uno spiccato intuito per gli affari in ambito tipografico, Yves Laporte non intendeva accettare quella diagnosi. Decise di accanirsi contro la sordità isolando suo figlio dal mondo per garantirgli un’istruzione privata ed evitare quella che riteneva una rischiosa contaminazione con la lingua dei segni. La sua ostinazione, acuita da una personale revisione storica nell’assurgere a modello Alexander Graham Bell, confluisce nei tentativi di contrastare la sordità e renderla un’occasione per nuove invenzioni. Dedicherà quasi vent’anni a quest’obiettivo, costringendo la moglie a perseguirlo con lui ingenerando, così, un clima di terrore perenne.

Privato di qualsiasi relazione con l’esterno, Julien credeva di non poter contrastare in alcun modo l’autorità di un uomo come Yves Laporte e ribellarsi all’imposizione di sfiancanti sedute giornaliere con il logopedista accompagnate dall’inserimento di una sonda infilata in bocca dal dottor Thibault per imparare la meccanica dei suoni, come una “litania di versi assurdi e ripetitivi per ore”.

Scoprirà casualmente solo a otto anni di non essere l’unico sordo esistente quando, fuori dalla libreria Furet du Nord a Lille con sua madre, noterà sconcertato due persone esprimersi a gesti.

La narrazione di Leclair si insinua nelle pieghe emotive di chi vive la debolezza e il disorientamento di una notizia improvvisa capace di destabilizzare un equilibrio famigliare all’apparenza solido, per dare centralità all’elemento tragico, capace “con un singolo gesto accecante di strappare i veli che abbiamo tessuto nel quotidiano dei pensieri meccanici, sul telaio delle frasi, con il filo delle parole che per una vita disponiamo in trame, il velo dell’illusione come il velo del sapere”.

In tale ottica l’euforia appare come strettamente connessa all’istante tragico inteso come rivelazione e reso nelle ripercussioni sugli altri. Dalla madre, descritta come una donna brillante che presto si sarebbe spenta nella dimensione domestica, con la percezione di vivere ai “margini della strada della vita” e preda di un senso di colpa originario da espiare con abnegazione; al figlio maggiore Xavier, i cui successi scolastici sarebbero stati sempre annebbiati dalla centralità data al fratello, generando una spiccata gelosia; a Françoise, la sorella minore, l’unica a preservare un canale di comunicazione con Julien negli spazi segreti di una capanna sull’albero in cui rifugiarsi e ricevere le sue storie disegnate a matita.

A innervare la narrazione il sentimento dominante dell’odio: quello vissuto da Yves Laporte nei riguardi dell’handicap e quello viscerale di Julien che si manifesta retrospettivamente nella scelta di imporre un distacco fisico e emotivo da una concezione della propria sordità che percepisce come estranea.

Attraverso la vicenda del suo protagonista, Leclair compie un’indagine sociale e storica della realtà dei sordi: dall’operato, nella seconda metà del Settecento, del fondatore della Scuola di Parigi per sordi l’Abbé de L’Épée, all’azione di Thomas Hopkins Gallaudet nel portare la lingua dei segni francese negli Stati Uniti e fondare la prima università al mondo per sordi, sino alla svolta oralista imposta dal Congresso di Milano nel 1880.

Nell’intento di “restituire il sordomuto alla società”, l’imposizione dell’oralità aveva come preciso scopo il raggiungimento della parola pura attraverso un processo di apprendimento che andava preservato dall’inquinamento dei segni, e che ha origine nelle disposizioni imposte in merito all’espressione primaria con la parola.

Un metodo che si rivelò ben presto fallimentare: il rifiuto degli educatori di insegnare a leggere e scrivere agli allievi che non riuscivano ad articolare generò pesanti ripercussioni culturali per l’inevitabile impoverimento intellettuale e la crescente emarginazione sociale.

A portare avanti una battaglia per far proibire la lingua dei segni tra il finire dell’Ottocento e i primi del Novecento sarà proprio Bell che finanziò associazioni che si proponevano di debellarne l’uso nell’educazione. Segretario del consiglio scientifico dell’Eugenics Record Office e presidente onorario del Secondo congresso internazionale di eugenetica, Bell propose il divieto di matrimonio tra sordi e favorì una politica eugenetica di sterilizzazione praticata negli Stati Uniti negli anni Venti e Trenta. A sensibilizzare l’opinione pubblica francese, qualche decennio più tardi, contribuiranno le iniziative di protesta compiute da gruppi di sordi per sollevare il tema dei diritti lungamente negati da una condizione di emarginazione, rivendicare la propria alterità e richiamare al contempo l’urgenza di favorire il linguaggio dei segni nell’istruzione.

In tale prospettiva l’attenzione di Leclair nei confronti di storie come quella di Julien, anche sulla spinta della propria esperienza famigliare, lo condurranno a compiere ricerche sulla scorta dell’esperienza dei laboratori condotti all’IVT, compagnia teatrale specializzata in ricerca linguistica e pedagogica sulla lingua dei segni internazionale, con la direttrice Emmanuelle Laborit: “scoprivo un mondo di sordi che avevano deciso di vivere energicamente la loro lingua, un mondo di alterità radicale, un mondo in cui si pensa con le mani, a volte anche violento, perché sviluppato in relazione a una società intollerante se non razzista”.

Richiamando l’assunto alla base della definizione di parola pura, Leclair mira a scardinarne le fondamenta compiendo un’indagine linguistica a partire dal riconoscimento, come lingua, dell’espressione con i segni: il nodo della guerra tra oralismo e lingua dei segni, sostiene, risiede proprio nell’incapacità di riconoscere quest’ultima come portatrice di parola. Lo stesso protagonista assumerà come missione primaria, da intellettuale, quella di compiere una ricerca sulla lingua in relazione allo scarto tra l’oralità e i segni.

Un romanzo che nella scelta formale mostra un continuo sfasamento del piano temporale nell’interesse a sviluppare una storia che appare scandita non dalla mera consequenzialità degli eventi ma dalla sovrapposizione emotiva e dalle contraddizioni che ne caratterizzano l’evoluzione.

Leclair utilizza l’elemento autobiografico per raccontare una vicenda che prende le mosse da una storia legata alla realtà francese degli anni Sessanta per fondersi con l’artificio narrativo dell’invenzione e ripercorrere, così, il tortuoso cammino storico di emancipazione dalla marginalità sociale e culturale e delineare al contempo quello privato. Così l’autore stesso, a tratti, esce dalla vicenda narrata per rivolgersi direttamente al lettore e avvicinarlo ai motivi della sua scrittura nella necessità di narrare quella storia, reale seppur alterata a causa di incomprensioni, appuntata sul suo quaderno Clairefontaine. Arriverà a delineare, accanto a quello dei suoi protagonisti, il proprio sconcerto davanti alla notizia della sordità di sua figlia e l’impossibilità di narrarlo se non a distanza di quasi vent’anni e dopo una dozzina di altri libri pubblicati. “Avevo cominciato annotando una frase, una sola, nel mio grande, immenso, torbido dolore. Cercare salvezza sulla pagina?”.

Al pari dell’urgenza di affrontare tali temi, emerge quella di definire i sentimenti dominanti alla base della sua scrittura, definita come una mania di giocare a costruire torri di scrittura nel bel mezzo della vita reale: “quando cerco un terreno di scrittura, ho un vero talento per scegliere il più infido, dove confluiscono le acque della vita e della narrazione, e a volte sotto il sole le due correnti si distinguono perfettamente, altre volte è tutta una fanghiglia. Ho la mania di innalzare torri, mi ci arrampico nella speranza di vedere qualcosa almeno dall’alto, quando realizzo che in queste vite indomabili e selvagge non c’è verso di capire un bel niente”.

La profonda originalità di Malintesi, oltre che nella scelta formale risiede nell’intento di svincolarsi da una stringente definizione di genere per muoversi tra riferimenti storici, digressioni e approfondimenti. Si interroga sulla rappresentazione della sordità in letteratura, e a partire da alcuni tra gli esempi più significativi, da François Rabelais a Antonio Lobo Antunes, Salvatore Quasimodo, Victor Hugo, Jean-Marie-Gustave Le Clézio, Carson McCullers, John Singer, per chiedersi se una minore rappresentazione letteraria rispetto a quella cinematografica e con figure marginali sia legata alla difficoltà di rappresentare sulla pagina “la qualità invisibile della sordità”.

La circolarità della scrittura di Leclair lo ricondurrà costantemente su filo della narrazione per delineare anzitutto il tessuto emotivo che ruota attorno al grande tema del confronto col passato e con i demoni dell’infanzia riesumati venticinque anni dopo, nella scoperta improvvisa di “un sentimento che non avrebbe chiamato nostalgia, il dolore del ritorno impossibile”, un ritorno abbozzato in quell’ultima storia disegnata, lasciata sotto la porta di Françoise. Aveva ritratto sé stesso prima della partenza, Julien, uno zaino in spalla e il dito puntato in lontananza, dritto davanti a sé.

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