Brevi appunti sul mercato dell’attenzione

di Christian Raimo

La proporzione tra uffici stampa e giornalisti vent’anni fa era uno a sette.
Oggi è quattro a uno.

Nel mondo culturale ci sono molti uffici stampa che hanno una preparazione infinitamente più alta dei giornalisti, spesso perché vengono pagati meglio, spesso perché vengono pagati.
Molte persone che conosco fanno entrambi i mestieri, o provano a farlo.

Di molti libri, film, etc… escono una grande quantità di reazioni che sono una ricopiatura fatta male del materiale stampa, che spesso invece è fatto bene.

La critica culturale come disciplina sta evidentemente messa malaccio in Italia. Legare in maniera così forte la conoscenza e il piacere ai consumi culturali non può che avere questo risultato.
Spesso di alcuni prodotti culturali l’autore produce tutta la filiera: idea un libro, lo scrive, lo impagina, lo stampa, lo promuove, se lo rilegge, lo recensisce.

Il mercato culturale è talmente asfittico che spesso parlare molto bene di un libro o di un film o di uno spettacolo parlare molto bene di molti libri o di molti film o di molti spettacoli crea un indotto di attenzione, una moneta preziosa, un credito che potrà esigito (o esatto, come dice Treccani) al tempo giusto – quando uscirà *finalmente* il *mio* libro, film, album, spettacolo.
Lo stesso vale – anche ovviamente in maniera minore – sul parlare spesso male di libri, film, artisti. Tanti.
La quantità, la serialità è funzionale a un mercato compulsivo e additivo.

Il mercato è oggi un mercato dell’attenzione, non della conoscenza.
Così nascono avanguardie che si riducono a deboli tentativi di autopromozione (vedi il caso degli Imperdonabili), così i bookinfluencer sostituiscono i critici, così i critici rivendicano una loro centralità facendo la faccia truce.

Bontà o cattiveria, retoriche del pride o del politicamente scorretto diventano categorie estetiche, mentre invece spesso non sono che riflessi di un tentativo di posizionamento diverso nel mercato dell’attenzione.

Il mercato dell’attenzione sussume tutto, anche la nostra rabbia, la nostra intelligenza, persino i nostri disastri e le nostre autoumiliazioni.

Questo processo può avvenire in cattiva fede o, nella maggior parte dei casi, in buona fede.

Bourdieu è morto troppi anni fa per scrivere qualcosa sui social network. Fare il gaggio citando Bourdieu è il mio posizionamento nel campo dell’attenzione; speriamo che qualche editor sfaccendato di qualche casa editrice si immagini dopo questo post che sono un esperto di Bourdieu e mi chieda di scrivere una prefazione e mi paghi 300 euro.

Ps. Cosa si può fare? Lottare per università gratuite, borse di studio, affitti più bassi, servizi gratuiti, per avere più tempo per studiare e tutto il resto.

Commenti
3 Commenti a “Brevi appunti sul mercato dell’attenzione”
  1. Elena Grammann ha detto:

    “parlare molto bene di un libro o di un film o di uno spettacolo parlare molto bene di molti libri o di molti film o di molti spettacoli crea un indotto di attenzione…”
    Manca qualcosa (al limite una virgola), o c’è qualcosa di troppo? (O la disattenzione è freudiana e tematica?). Non è pignoleria, è che vorrei essere sicura di aver capito bene (l’attenzione al linguaggio a questo serve, a assicurare una comprensione il più possibile corretta).
    Da anni frequento raramente e malvolentieri le librerie (diversamente da quanto accadeva in gioventù), perché la valanga di narrativa che materialmente accoglie chi entra mi crea fastidiosi problemi di asfissia psico-fisica. Il punto secondo me non è la ricerca ossessiva e esclusiva dell’attenzione, ma è che a fronte di un dissennato proliferare del pubblicato (e non sto parlando di autopubblicazioni, ma di pubblicazione da parte di editori “seri”), la ricerca ossessiva dell’attenzione si genera automaticamente come corollario.
    Sono i danni collaterali della democrazia. L’alternativa quale sarebbe? Uno sdegnoso lathe biosas? A me può anche andare bene, ma sociologicamente di sicuro non è una soluzione.
    In questo senso, lei è forse un po’ troppo severo con gli Imperdonabili. Magari sono in buona fede e ci provano davvero. (Ma poi no, perché severo? In fondo lei gli ha solo fatto un po’ di pubblicità…)

    (Ammetto che non ho capito il suo Ps. Non ho capito il nesso fra il problema e i rimedi da lei suggeriti.)

  2. Marco Bertoli ha detto:

    — parlare molto bene di un libro o di un film o di uno spettacolo parlare molto bene di molti libri o di molti film o di molti spettacoli —

    La virgola regolamentare dopo «spettacolo» è, mi pare, omessa di proposito a scopo espressivo, per sortire un effetto di accumulo e per sottolineare l’indifferenza, sul “mercato dell’attenzione”, del parlare bene e del parlare male.

  3. Elena Grammann ha detto:

    @ Marco Bertoli

    Probabilmente è come dice lei, benché nella frase citata (e in tutto il paragrafo) il punto non sia parlare bene v. parlare male (questo è detto dopo), ma parlare di un libro… v. parlare di molti libri… . Per questo mi era sembrato che ci fosse un’opposizione (e dunque un’incongruenza) fra parlare di un solo libro (che ha attirato la mia attenzione per motivi seri ed esclusivi) e parlare di molti libri unicamente per crearmi un credito da riscuotere più tardi sull’attenzione altrui.
    In un articolo di per sé già piuttosto fumoso forse era meglio rinunciare a sortire un effetto e adeguarsi all’uso della virgola regolamentare, e in generale piegarsi alla bassa manovalanza dell’argomentazione, anziché procedere per sprazzi di espressionistici bagliori e lasciare al lettore l’onere di collegarli (sempre che i collegamenti logici siano possibili, il che non è garantito).
    (Es.: “Spesso di alcuni prodotti culturali l’autore produce tutta la filiera: idea un libro, lo scrive, lo impagina, lo stampa, lo promuove, se lo rilegge, lo recensisce.”
    Cioè? Visto che nessuno mi pubblica, mi pubblico io; visto che nessuno mi legge, mi leggo io, visto che nessuno mi recensisce, mi recensisco io? Se è da intendere così, questo è un fenomeno (diffusissimo) di psicologia individuale e sociale; accostarlo senza transizione al fenomeno, che si vuole culturale, delle novantanove virgola nove recensioni positive su cento, spesso scopiazzate da quel che mandano dagli uffici stampa e pubblicate sui media che contano per ogni cazzo di romanzo che esce con un qualsiasi editore non a pagamento (quelle negative, secondo dice l’articolo, da ricondurre ai critici che fanno la faccia truce) mi sembra privo di senso.)

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