La poesia negli oggetti

Pubblichiamo di seguito una recensione apparsa su Alias della raccolta che riunisce tutti i racconti pubblicati da Hanif Kureishi negli ultimi quindici anni. La traduzione del volume è a cura di Ivan Cotroneo e Andrea Silverstri.

Non stupisce più di tanto leggere nella postfazione/testimonianza che chiude Tutti i racconti di Hanif Kureishi, firmata da Ivan Cotroneo (traduttore di buona parte dei testi dello scrittore inglese), questa timida confessione: “i suoi racconti, i suoi romanzi, mi hanno coinvolto troppo, e in alcuni casi (Intimacy, Il mio orecchio sul suo cuore) hanno cambiato la mia vita in un senso troppo personale per parlarne qui.” I testi citati da Cotroneo sono senz’altro da considerarsi tra le cose migliori che abbia mai scritto Kureishi, in particolare Intimacy, un libro duro, difficile, davvero capace, a differenza di altri suoi lavori più appagati e compiacenti, di mostrarci “il lato rotto delle cose” (è un’espressione del protagonista dello stesso romanzo). Kureishi è un autore la cui forza, la cui capacità di suggestionarci sembra direttamente proporzionale al suo scarso interesse per un’elaborazione in senso strettamente stilistico della propria scrittura. Complice probabilmente la sua ricca attività di drammaturgo e sceneggiatore, la parola di questo scrittore tende a nascondersi, a sparire come una lente cristallina dietro l’immagine mentale e nel flusso delle emozioni, permettendo al narratore di lasciare campo libero alla sua straordinaria abilità nello scolpire personaggi dai volti immediatamente riconoscibili e umani, nel porre il lettore davanti ai loro occhi e alle loro voci (e la forte vena “behaviourista”, di matrice hemingwaiana, di certe sue pagine fitte di dialoghi, elisioni, silenzi, risalta particolarmente nella produzione novellistica). Capace infine di suscitare nel lettore empatico tutte le gioie e i tormenti dell’identificazione: lasciandolo spesso, una volta chiuso il volume, a fare i conti con i fantasmi di una vita più autentica, più intensa, più “avventurosa”. Ecco perché pare naturale pensare che quello di Cotroneo non sia l’unico caso di “lettura fatale” dell’opera di un autore di grande successo e dotato di un talento raro nello scatenare i bovarismi e i donchisciottismi tipici di un’epoca affamata di autenticità.

L’aspetto più accattivante di Kureishi sta proprio in questo chiamarci direttamente in causa, spingerci nella mischia suscitando in noi reazioni forti, istintive, viscerali. Nell’intervista introduttiva con Elisabetta Sgarbi lo scrittore definisce un racconto ben riuscito come “uno schiaffo” e una “sferzata di energia”. Tenderei dunque ad attribuire a una simile reazione (o piuttosto al rifiuto difensivo della stessa), il fatto che di questa raccolta che riunisce i racconti pubblicati da Kureishi negli ultimi quindici anni quelli che più che mi sono piaciuti, quelli che ho trovato davvero perfetti, non siano quelli più immediati e più spesso citati, non quelli più “sferzanti” e famosi (e pure molto belli: Con la tua lingua nella mia gola, Mio figlio è un fanatico, Goodbye mother, Maggie, per esempio) ma altri che, per una coincidenza non credo casuale, portano nel titolo dei nomi di oggetti: Lampada da notte, Quattro sedie blu, L’ombrello. Cosa si nasconde dietro questi titoli da nature morte? Ne Il corpo, il più lungo testo qui compreso e unica incursione (piuttosto debole) nel territorio del fantastico, una poetessa dilettante – introversa, marginale, priva di sensualità – prima di leggere le sue composizioni al protagonista-narratore (quasi un alter-ego dell’autore) lo avverte che “la sua poesia riguarda soprattutto le cose”. La ragione di questa scelta è che il linguaggio avrebbe ormai “sopravanzato il vocabolario dei sentimenti e dello scambio emozionale. E se il linguaggio del sé era avvelenato, era disastroso per un poeta. Questo non era ancora accaduto agli oggetti senza anima, sui quali aveva deciso di concentrare il suo talento”. Credo che nelle parole di questa ipotetica epigona di Ponge si nasconda una vera e propria reazione all’immensa alfabetizzazione emotiva che la scrittura di Kureishi, come quella di molti tra i più importanti narratori della sua generazione, ha contribuito a rappresentare e diffondere. E credo che Kureishi stia qui cercando in qualche modo di elaborare una sorta di autocritica, o di autolimitazione. Lui, uno dei più attenti osservatori delle trasformazioni dell’intimità nelle società moderne, sembra dichiararci la possibilità di uscire dall’educazione sentimentale per affacciarsi su un mondo completamente diverso: una sorta di necessario complemento o compensazione all’accaldata interiorità, all’aggrovigliata e promiscua relazionalità che le sue storie hanno ostinatamente messo in scena. Quegli oggetti dei titoli, e la bellezza dei racconti che vi sono legati, potrebbero allora essere il modo attraverso cui lo scrittore dialoga con le esigenze espresse dalla poetessa. Tradiscono il bisogno di condurre, in nome di una qualche indefinita esteriorità, le sue “fette di vita” al di là del linguaggio introspettivo, iper-emotivo, di quei personaggi che ci invitano a indossare le loro pulsioni, a entrare nei loro mondi e nei loro corpi. Quegli oggetti assumono insomma un portato simile a quello attribuito da Debenedetti agli animali in certa narrativa del primo novecento (e non mancano gli animali anche in Kureishi, su tutti Le mosche – riuscitissima rivisitazione della calviniana Formica argentina): tale da spingere la parola, il ricco vocabolario del sé, al di là dei suoi confini ordinari, oltre il complesso culturale abbracciato dallo scrittore, verso un luogo diverso, in qualche modo “disumano” ma anche profondamente consustanziale all’arte del narrare. Viene in mente Carver, e come certi oggetti (o animali) anche lì possano guidare il testo oltre la trasparenza della psicologia, oltre i conflitti della comunicazione, in territori più opachi e misteriosi. È la misura del racconto, nella sua precisa chiusura, che sembra trovare allora una dimensione a sua volta “oggettuale”: diventare cioè capace, come quei simboli nascosti nella trama, di trascendere lo spaccato antropologico e sublimarlo nella perfezione formale e quasi tecnica della narrazione. Molti tra i più bravi scrittori di racconti hanno fatto qualcosa di simile: Maupassant, Checov, Borges, Tozzi, O’Connor. Piccoli enigmi compiuti in mezzo al lucido caos della vita; i brucianti irrisolti conflitti della modernità momentaneamente messi a tacere nello svolgersi determinato, ottuso, metronomico, di una serie di movimenti che si chiudono a cerchio intorno a quel nucleo incandescente. Non sono più, o non soltanto, degli uomini e delle donne “come noi” quelli che osserviamo, non più il loro dibattersi, le avventure dell’individualismo, l’insostenibile fragilità dell’esistenza contemporanea. Ma qualcosa di ancora più fragile e sottile, di più riposante e forse regressivo, che il narratore riesce a mostrarci a latere nella precisione oscura e compatta di un racconto perfettamente congegnato. Qualcosa che basta a se stesso, come un oggetto appunto, e che non sollecita nessun mimetismo. Che non domanda spiegazioni, che non pretende amore. Qualcosa anche che percorre più o meno segretamente la storia della letteratura, riallacciandola a più antiche e inestinte pulsioni: uno stato di abbandono, una sosta del senso, la quiete di un punto cieco, l’immagine sfocata e ammaliante di un mondo ancora lontano dall’umano bisogno di conoscenza e trasparenza, dalla prometeica volontà di sentire, vedere, aprire: “Le dissi che una poesia sulle finestre sarebbe stata bella” – replica, dopo avere ascoltato la poetessa, il narratore de Il corpo – “Finestre?” risponde lei “Ma che dici?”.

Commenti
Un commento a “La poesia negli oggetti”
  1. bobryder ha detto:

    ciao, volevo segnalarti il mio blog d poesie

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