Le «Lezioni americane» di Calvino 25 anni dopo: una pietra sopra? (Seconda parte)

di Claudio Giunta

4.

Gore Vidal ha scritto degli effetti non del tutto positivi che il soggiorno a Parigi negli anni Sessanta ha avuto sulla scrittura e sulle idee di Calvino. Mi sembra che a questo fumoso aggiornamento vadano imputate alcune delle pose più fastidiose che Calvino assume in questo libro. Sotto la patina scientista dei quark e del principio di Heisenberg c’è un nucleo di irrazionalità che affiora in tutti quei passaggi nei quali Calvino evoca, senza davvero affrontarli, i temi del folklore e del magico. A proposito delle funzioni della fiaba secondo Propp scrive:

Non mi pare una forzatura connettere questa funzione sciamanica e stregonesca documentata dall’etnologia e dal folklore con l’immaginario letterario; al contrario penso che la razionalità più profonda implicita in ogni operazione letteraria vada cercata nelle necessità antropologiche a cui essa corrisponde (p. 654).

A proposito degli oggetti rappresentati nel racconto (l’elmo di Mambrino, le cose che Robinson Crusoe salva dal naufragio) scrive:

Diremmo che dal momento in cui un oggetto compare in una narrazione, si carica d’una forza speciale, diventa come il polo d’un campo magnetico, un nodo d’una rete di rapporti invisibili. Il simbolismo d’un oggetto può essere più o meno esplicito, ma esiste sempre. Potremmo dire che in una narrazione un oggetto è sempre un oggetto magico (p. 658).

Ma è chiaro che si tratta, in entrambi i casi, di esagerazioni. Il discorso sul rapporto tra racconto e «necessità antropologiche» (cioè «costanti antropologiche»?) andrebbe, perlomeno, articolato nel tempo, dato che quello che vale per le fiabe può non valere per organismi più complessi come Alla ricerca del tempo perduto. E non è vero che nella narrazione ogni oggetto possa o debba essere trasfigurato in simbolo: qui, di nuovo, Calvino sembra pensare che le regole elementari di scomposizione dei racconti popolari possano darci la chiave anche di opere che stanno su tutt’altro piano di complessità e di consapevolezza. Il fatto è che il tentativo di sussumere i tanti esempi disparati sotto un unico comune denominatore porta Calvino a costruire generalizzazioni che sono evidentemente false.

E anche l’uso della mitologia classica, che piace molto ai nostalgici del liceo perché facilita il ‘collegamento’ tra l’antichità e noi, non mira a mettere in luce ciò che della visione del mondo classico è interessante e vitale per noi (il tipo di profitto che si ottiene leggendo, per esempio, i libri di Momigliano o di Vernant). I miti sono figurine archetipiche che hanno perso ogni relazione con la civiltà che le ha prodotte e funzionano semplicemente come sontuose perifrasi messe al posto di concetti che, tradotti in plain prose, sono piuttosto banali (Mercurio = Leggerezza, Vulcano = Ponderatezza):

La concentrazione e la craftmanship di Vulcano sono le condizioni necessarie per scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono le condizioni necessarie perché le fatiche interminabili di Vulcano diventino portatrici di significato, e dalla ganga minerale informe prendano forma gli attributi degli dei, cetre o tridenti, lance o diademi. Il lavoro dello scrittore deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano (p. 676).

Mercurio, con le ali ai piedi, leggero e aereo, abile e agile e adattabile e disinvolto, stabilisce le relazioni degli dèi tra loro e quelle tra gli dèi e gli uomini, tra le leggi universali e i casi individuali, tra le forze della natura e le forme della cultura, tra tutti gli oggetti del mondo e tra tutti i soggetti pensanti (pp. 673-74).

Molti lettori hanno indicato in passaggi come questi una linea di pensiero e d’argomentazione da tener ferma nella discussione sull’attualità dei classici, la difesa dei classici. Invece questa è retorica, e anche cattiva retorica (il secondo brano, con la sua rete di legami immaginari tra leggi e casi, forze e forme, non significa, a rileggerlo con un po’ d’attenzione, niente). È difficile dire quale possa essere, oggi, un ‘buon uso dei classici’. Ma certamente non è quello di chi li saccheggia alla ricerca di metafore buone per ammobiliare il discorso.

Le Lezioni americane sono – non bisogna stancarsi di ripeterlo, per essere esatti e per essere giusti – degli appunti. I difetti di stile (la mancanza di coesione tra le parti, i salti logici, l’accumulo di citazioni irrelate, le spiegazioni appena accennate e subito troncate dall’esempio successivo) sono i difetti che normalmente gli appunti hanno. Lo stesso Calvino, scrivendo, avverte più di una volta questo impaccio:

Mi rendo conto che questa conferenza, fondata sulle connessioni invisibili, si è ramificata in diverse direzioni rischiando la dispersione (p. 673).

Questa conferenza non si lascia guidare nella direzione che m’ero proposto (p. 686).

Molti fili si sono intrecciati nel mio discorso? Quale filo devo tirare per trovarmi tra le mani la conclusione? C’è un filo che collega la Luna, Leopardi, Newton, la gravitazione e la levitazione… C’è il filo di Lucrezio, l’atomismo, la filosofia dell’amore di Cavalcanti, la magia rinascimentale, Cyrano… (p. 652).

Se però il discorso si organizza, per ammissione dell’autore stesso, come una serie di appunti, di schede giustapposte, lo stile di questo discorso non è generalmente un corsivo, disimpegnato stile ‘da appunto’. Asor Rosa ha parlato di una «manifestazione abbastanza prodigiosa (soprattutto per l’area culturale italiana) di stile alto senza particolari difficoltà interpretative» (p. 965). Non direi. A parte la scrittura incondita, da appunto, che affiora qua e là, nelle Lezioni americane prevalgono due altri registri. Il primo è una prosa tecnica punteggiata di termini e di espressioni che appartengono alla teoria letteraria e alla critica accademica, una prosa più da professore che da scrittore. T.S. Eliot «dissolve il disegno teologico nella leggerezza dell’ironia e nel vertiginoso incantesimo verbale». Joyce convoglia «la molteplicità polifonica nel tessuto verbale del Finnegans Wake» (p. 727). Per il secondo registro di scrittura è difficile trovare una definizione più economica e più esatta di kitsch: la strana miscela di snobismo, vaghezza concettuale, commozione che si trova in molti dei passi citati in precedenza, e in overdose in un finale di capitolo come questo:

Comunque, tutte le ‘realtà’ e le ‘fantasie’ possono prendere forma solo attraverso la scrittura, nella quale esteriorità e interiorità, mondo e io, esperienza e fantasia appaiono composte colla stessa materia verbale; le visioni polimorfe degli occhi e dell’anima si trovano contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi; pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo in una superficie sempre uguale e sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto (p. 714).

L’elenco a rotta di collo, le coppie di opposti, i clichés («sempre uguale e sempre diversa»), le similitudini evocative trite (i granelli di sabbia, le dune del deserto): questa non è buona prosa, men che meno un prodigio di «stile alto», anche se – ci torneremo tra poco – questa prosa piace. E non è solo questione di stile di scrittura: è kitsch anche il modo in cui Calvino tratta le cose, i libri; è kitsch il suo uso della mitologia classica; ed è kitsch l’esotico adoperato come cammeo, la storiella cinese raccontata alla fine del capitolo sulla Rapidità:

Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. «Ho bisogno di altri cinque anni», disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto» (p. 676).

 

5.

Ci sono le Lezioni americane, questo libro mediocre che non è un libro. Poi ci sono le reazioni alle Lezioni americane, e le reazioni sono infinitamente più interessanti del libro. Le reazioni hanno un fuori e un dentro, cioè sono state determinate in parte da ciò che Calvino rappresentava alla fine della sua vita; e in parte dal fatto che Calvino era in sintonia col tipo di approccio non tanto alla letteratura quanto al discorso sulla letteratura che oggi molti sembrano apprezzare.

Calvino era entrato nel canone scolastico molto prima di morire. I nostri antenati, le fiabe, le Cosmicomiche, Marcovaldo erano libri di testo già negli anni Settanta, ed erano libri amati. Anche l’uomo era molto amato. Era schivo, modesto, ironico, non si dava arie da intellettuale, non era magniloquente, non pretendeva di incarnare lo spirito del tempo, scriveva chiaro: alla metà degli anni Ottanta non era soltanto il nostro scrittore più celebre ma anche quello più autenticamente popolare. Vidal fu colpito dal modo in cui la gente comune, in Italia e in Europa, partecipò al lutto per la sua morte:

Europe regarded Calvino’s death as a calamity for culture. A literary critic, as opposed to theorist, wrote at lenght in Le Monde, while in Italy itself, each day for two weeks, bulletins from the hospital at Siena were published, and the whole country was suddenly united in its esteem not only for a great writer but for someone who reached not only primary schoolchildren through his collections of folk and fairy tales but, at one time or another, everyone else who reads[1].

Fu così. Nel 1985 avevo quattordici anni e ricordo i giorni di settembre in cui Calvino morì. Fu forse l’ultima volta che la commozione popolare si accese per la morte di uno scrittore: di lì in poi quel destino sarebbe toccato soltanto alle star dello spettacolo.

Ma naturalmente Calvino non era soltanto uno scrittore popolare. A rileggerne oggi la biografia si ha l’impressione che abbia sempre fatto, per tutta la vita, la cosa giusta al momento giusto. Partigiano nella Brigata Garibaldi; dirigente all’Einaudi tra Torino e Parigi; iscritto al partito comunista fino al 1956, poi solo simpatizzante. Si era occupato di politica, ne aveva scritto, ma era riuscito a tenersi lontano dalla politica dei partiti, non era entrato in Parlamento come avevano fatto altri intellettuali della sua generazione, e non aveva dovuto pentirsene dopo; aveva conosciuto Che Guevara, era diventato amico degli intellettuali francesi in voga ma senza venirne fagocitato, pubblicava quello che voleva, quando voleva, prima sul «Corriere della Sera» poi su «La Repubblica». E poi, naturalmente, era un vero scrittore, capace di adeguarsi ai tempi cambiando stile, temi, punto di vista, sempre con l’ironia di chi non ci crede troppo, di chi passa accanto alle mode lasciandosi influenzare ma non catturare: il neorealismo, il nouveau roman, la semiotica, la neoavanguardia, Borges. Calvino, insomma, piaceva.

Tutto questo va tenuto presente quando consideriamo il modo in cui venne accolto questo suo libro postumo. Dell’accoglienza si occuparono soprattutto gli amici di Calvino, nelle case editrici, nei giornali e nelle università. È possibile che l’amicizia e la commozione abbiano fatto velo a un obiettivo giudizio di merito? Ho conservato l’articolo che Eugenio Scalfari, compagno di scuola di Calvino, dedicò alle Lezioni americane su «La Repubblica», 2 giugno 1988: una colonna in prima pagina e continuazione nelle pagine centrali della cultura (E una sera Calvino, sulle ali di Mercurio…), un rilievo e uno spazio assolutamente eccezionali per una recensione.

Accade talvolta che il libro più significativo d’uno scrittore sia l’ultimo e addirittura postumo, poiché soltanto in esso egli raggiunge il culmine dell’opera sua, la pienezza dei suoi mezzi espressivi e si rivela compiutamente a se stesso […]. Leggendo le Lezioni americane […] la sensazione è che, al termine della vita, Calvino abbia prodotto il suo capolavoro, superiore di gran lunga alle molte opere di saggistica e di narrativa che pure ne avevano fatto lo scrittore europeo forse di maggiore spicco degli ultimi trent’anni: un capolavoro sopra il quale è morto (credo che quest’ipotesi sia molto probabile dal punto di vista clinico e sia certissimamente esatta dal punto di vista artistico e creativo) per lo sforzo immane di concentrazione cui si è sottoposto per produrlo […]. Le pagine che Calvino ha scritto a partire dalla sua opera prima, Il sentiero dei nidi di ragno […], qui, in queste lezioni, raggiungono una compiutezza e un dominio formale non eguagliati da nessuna delle altre […]. Questo fu il suo modo di difendersi dalla morte. E per questo la morte lo ha colto nel momento in cui l’operazione artistica si è compiuta.

È difficile negarlo: l’amicizia e la commozione non hanno soltanto fatto velo a un obiettivo giudizio di merito, lo hanno esautorato.

Su «La Repubblica» il libro venne ri-recensito due mesi dopo da Alberto Asor Rosa (2 agosto 1988, Se un albero parlasse a primavera), recensione poi assorbita nel citato saggio per le Opere della Letteratura italiana Einaudi. Il tono di Asor Rosa è leggermente più misurato di quello di Scalfari, ma siamo ancora stabilmente nel regno dell’iperbole: le Lezioni americane assumono «il valore pieno di un testamentum» (p. 955); sono un «bilancio della propria carriera» (p. 956); ma anche «un libro sulla civiltà e sull’esistenza» (p. 989); e la loro è una «tonalità discreta e problematica, che è la più tipica del discorso saggistico calviniano» (p. 955), il che è vero se il discorso saggistico è quello di Una pietra sopra; ma nelle Lezioni americane il tono è più spesso questo, né discreto né problematico: «La letteratura […] è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere» (p. 678).

E, prima ancora di Scalfari e Asor Rosa, del libro – dell’edizione americana del libro – aveva parlato Alberto Arbasino (Calvino memorandum, «La Repubblica», 1 marzo 1988):

Ecco le creature fantastiche di Shakespeare: Puck, Ariele, la Regina Mab raccontano dell’aereo Mercuzio (un altro Cavalcanti?) in un sogno fatato. E i voli settecenteschi di Cyrano de Bergerac e del Barone di Münchausen, quando l’immaginazione rococò oltrepassa coi suoi svolazzi le trasvolate d’Ariosto, di Luciano di Samosata, però i buoni studi aritmetici di Swift e Voltaire sostengono per aria l’isola di Laputa e il gigante Micromega (ah, la letteratura come mongolfiera…).

Ed è stata un’illuminazione. A che cosa mi facevano pensare, che cosa mi ricordavano, nelle Lezioni americane, il continuo name dropping, il precipizio degli elenchi, gli ammiccamenti, i nessi logici bruciati, i puntini di sospensione allusivi? L’ho capito leggendo la recensione di Arbasino: ad Arbasino. Le Lezioni americane hanno tutte le caratteristiche che io trovo urtanti nella prosa di Arbasino: le Lezioni americane sono un’extended version della recensione di Arbasino alle Lezioni americane.

Naturalmente sarebbe sciocco dire che all’origine del successo delle Lezioni americane c’è la lobby degli amici del defunto. Il lobbying può bastare per qualche mese, ma la sua influenza non è duratura. Nell’ultimo quarto di secolo, invece, non c’è saggio sulla letteratura che abbia avuto una fortuna paragonabile alle Lezioni americane. Non c’è antologia o manuale scolastico in cui non sia presente un estratto da questo libro. Per gli studenti italiani, la letteratura italiana del Novecento finisce con Calvino, e Calvino finisce con le Lezioni americane. È l’ultimo tra i classici del canone, tant’è vero che chiude anche l’ultimo volume delle Opere della Letteratura Italiana Einaudi, unico saggio del secondo Novecento ad esservi incluso. Ed è un classico perfetto, un ponte perfetto tra il passato e il futuro, perché con la sua ottica globale – dai classici latini a Galileo, dai fumetti del «Corriere dei Piccoli» alle storielle cinesi, a Piaget, ai «racconti d’una sola frase» di Monterroso – prelude allo sfrangiamento del canone, all’abolizione del canone di cui si ragionerà negli anni successivi nei dipartimenti di Humanities di mezzo mondo.

Ma mentre ci sono autori e opere che sopravvivono soltanto nei libri di scuola e che nessuno veramente legge, le Lezioni americane hanno avuto la buona sorte, rarissima nella saggistica, di incontrare un pubblico reale e, soprattutto, trasversale. Il miracolo delle Lezioni americane è stato quello di riuscire a parlare praticamente a tutti, dagli studenti delle medie ai futuri Nobel come Pamuk («ho imparato da lui a vedere la ‘leggerezza’ che si trovava dentro di me»), alla più ampia cerchia degli intellettuali. L’impressione è anzi precisamente questa: le Lezioni americane sono state uno dei rari libri sulla letteratura che siano finiti in mano anche a intellettuali che non erano scrittori di professione, e hanno cioè avuto il destino di quei pochi libri di sociologia, di storia, di filosofia che rientrano oggi in un’ideale ‘Biblioteca occidentale del Novecento’. Questo è accaduto, a mio avviso, non tanto per le qualità intrinseche del libro (molto scarse, come ho cercato di mostrare) quanto per la citabilità di alcune delle sue idee-chiave, e soprattutto di una, la Leggerezza, un concetto declinabile a piacimento un po’ in tutti gli ambiti e le discipline, dall’architettura al teatro («Giorgio Albertazzi fa Italo Calvino a sua immagine e somiglianza da martedì, al Piccolo Eliseo, in Lezioni americane, soffermandosi sulla Leggerezza»), dallo show-business («Allora vediamo qual è il segreto di Bonolis. “Lo ripeto sempre, e qualcuno non ci crede, ma è la leggerezza pensosa”. Pardon? “Sì, proprio quella di Italo Calvino, il Calvino delle Lezioni americane”») al management («Ho fatto mie le lezioni di Calvino»: Enrico Bondi, allora amministratore delegato di Montedison).

Basta fare un giro su Google per accorgersi di quanto questa infatuazione collettiva sia sciocca e superficiale. Le Lezioni americane sono state usate soprattutto come una cava da cui estrarre quel tipo di frasi che in inglese si chiamano inspirational, e che servono più che altro a dare l’impressione che si è più seri e profondi di quanto si è in realtà: ho perso il conto dei siti di architetti, web designers, poeti intimisti che sono decorati con citazioni strategiche sulla leggerezza o sulla molteplicità (l’esattezza ha, comprensibilmente, meno fans). È chiaro che non si è mai responsabili della stupidità altrui. Ma le Lezioni americane si prestano troppo bene a quest’abuso perché un frammento di colpa non debba ricadere anche su di loro.

6.

È probabile che quelli che a me paiono i difetti delle Lezioni americane siano precisamente la ragione del suo successo. Qualità come la precisione o il rigore dell’argomentazione non sembrano avere grande importanza per i lettori odierni, anche e soprattutto dentro l’università. Si preferisce lasciarsi cullare dal rollio delle suggestioni, degli accostamenti, dei non è un caso che. «È forse diffuso – si domanda in un suo saggio Gore Vidal – un senso zen del perché darsi pena?» (Una nave che affonda, Milano, Bompiani 1971, p. 138). Direi proprio di sì. E si spiega allora che quelli che sono semplici appunti – appunti che avrebbero dovuto diventare delle lezioni, lezioni che avrebbero dovuto (forse) diventare un libro – possano essere stati considerati come il meglio del Calvino critico letterario, mentre sono il suo peggio. Anche lo stile del libro, che io trovo ambiguo, retorico, farraginoso, sciatto, può darsi che non sia troppo lontano dall’idea di bello stile o di (con Asor Rosa) «stile alto» che oggi circola, oltre che tra i lettori comuni, anche nelle università e nelle scuole di scrittura. Ho riletto le Lezioni americane in una copia presa a prestito da una biblioteca pubblica. E proprio i passi che io trovavo più vacui e insignificanti, quelli che ho schedato sotto l’etichetta del kitsch, erano quelli che un precedente lettore aveva sottolineato a matita e incorniciato di punti esclamativi.

«Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero» (p. 673), e dunque su forme come la novella, l’aforisma, l’epigramma, il «racconto d’una sola frase». Era una previsione saggia, e oggi potrebbe essere uno slogan per la letteratura in internet: di fatto, le Lezioni americane sono un libro prediletto da chi si occupa di contenuti web (cfr. tra i tanti A. Lucchini, Lezioni americane. La profezia del web writing nei «six memos» di Italo Calvino, in Id. [a cura di], Content Management, Milano, Apogeo 2002, pp. 2-28: «Calvino non aveva conosciuto Internet, ma forse l’aveva immaginata» [p. 2]). L’attrazione per le forme veloci del pensiero e della scrittura, che è anche attrazione per la superficie delle cose, per le spiegazioni superficiali, il prevalere dell’emotività, che è immediata, sulla razionalità, che richiede tempo e fatica – questa è davvero una caratteristica dei nostri tempi. Ed è una caratteristica affascinante: che però non lascia del tutto tranquillo Calvino – c’è una sotterranea vena d’angoscia, nelle Lezioni americane – e, se la cosa interessa, non lascia del tutto tranquillo neppure me.

Infine, le Lezioni americane sono anche un’altra cosa: sono un libro di letteratura comparata. Quella di Calvino, ha scritto Asor Rosa, è un’indagine «che si pone a livello mondiale – a livello mondiale sia per la vastità e la ricchezza delle letture, sia per l’ampiezza della proposta – sui destini della lettura e della letteratura» (p. 965). Immagino che nei corsi universitari di questa materia, almeno in Italia, le Lezioni americane siano uno dei libri che si danno da leggere agli studenti per ‘vedere come si fa’.

I buoni libri di comparatistica sono rari, perché mettere insieme opere che appartengono a epoche e tradizioni differenti è molto difficile, e i rischi in agguato sono tanti e difficili da schivare. Per schivarli di solito ci vuole un grande critico che sia anche un grande scrittore, come per esempio Auden; oppure ci vuole un punto di vista che della letteratura si serve come di uno strumento per mirare ad altro (a torto o a ragione: non sempre questa strumentalizzazione è giustificata): il punto di vista, poniamo, di Rorty o di Bourdieu; oppure ci vuole un tema abbastanza forte da dare unità a un discorso che altrimenti si disperderebbe in mille rivoli: i temi di libri come Morte della tragedia di Steiner o come L’origine del romanzo borghese di Watt. In questo senso, le Lezioni americane sono un cattivo esempio di comparatistica, perché sono occasionali, dispersive, superficiali, inconcludenti. Ma il loro approccio ai libri e il loro linguaggio mi sembrano in sintonia col modo in cui molti, oggi, fuori e dentro l’università, parlano, pensano e scrivono. «Inseriva […] nel testo il metatesto con la leggerezza di un filosofo da strada che si affida alla sapienza del marciapiede. Convocava Gadda e Derrida per metterli al servizio delle dubbie strategie di paron Rocco». Questo non è un ritratto di Calvino. È il ritratto del giornalista Edmondo Berselli nel ricordo di Gabriele Romagnoli[2]. Ma l’idea è questa.

Nonostante sia facile illudersi del contrario, un simile atteggiamento verso le cose della cultura – questo fritto misto di testo e metatesto, di Derrida e Nereo Rocco, oppure di «Leopardi, Newton, la gravitazione, la levitazione…» (Lezioni americane, p. 652) – non è il riflesso di una libera disposizione intellettuale, nel senso che la propensione a trovare segrete analogie tra opere o esseri umani che appartengono a mondi differenti sarebbe in accordo con lo spirito dei tempi attuali, con l’interessante vortice culturale dentro il quale molti di noi sono immersi. E non è neppure il riflesso di una decisione presa in un dato momento del secolo scorso da un certo numero di pensatori e studiosi benedetti dal dono della Connessione. Anche se non è molto di moda, bisogna sforzarsi di essere un po’ più materialisti. Nel momento in cui le competenze specifiche relative alla storia, alla filosofia, alla filologia, alle lingue classiche declinano (nel momento in cui, per esempio, nei dipartimenti di Classics si varano curricula che non prevedono lo studio del greco e del latino), mentre non declina e anzi cresce il numero delle persone che aspirano a una formazione culturale di alto livello, la comparazione a maglie larghe – che talvolta può essere un’opzione interessante – diventa l’unica opzione possibile: non c’è altro da fare, perché non si è in grado di fare altro. Ma un conto è quando la comparazione a maglie larghe proposta nelle Lezioni americane (oltre che in un’infinità di saggi scritti negli ultimi decenni) si affianca a quella fondata sulle competenze specifiche, e un altro conto è quando essa viene indicata senz’altro come il metodo giusto anche là dove le competenze specifiche dovrebbero essere difese con più convinzione: nell’università. Non c’è niente di male nel leggere e nel far leggere le Lezioni americane. Non è certamente un brutto modo di parlare della letteratura, anche se ce ne sono di migliori. Ed è un libro godibile, soprattutto se si è giovani. Ma a me pare che lettori maturi non dovrebbero prenderlo troppo sul serio.


[1] G. Vidal, Calvino’s Death, in United States. Essays 1952-1992, London, Abacus 1993, pp. 496-507 (a p. 498).

[2] Tiro mancino. Quel libro di culto tra il calcio e la vita, in «La Repubblica», 23 aprile 2010, p. 47.

Commenti
15 Commenti a “Le «Lezioni americane» di Calvino 25 anni dopo: una pietra sopra? (Seconda parte)”
  1. Girolamo De Michele ha detto:

    Se il Calvino delle Lezioni americane fosse nient’altro che un Edmondo Berselli raccontato da Gabriele Romagnoli, non ci si scriverebbe sopra dopo un quarto di secolo. Neanche per tirare in ballo “autorità” come Benedetto Croce. E non varrebbe la pena di scriverci su un testo a metà strada tra Carla Benedetti e il Furet di “Il passato di un’illusione”: basterebbe la critica roditrice dei topi.

  2. Dario Matrone ha detto:

    Io credo che sarebbe stato metodologicamente più corretto (e intellettualmente più onesto) partire dall’assunto che l’autore delle Lezioni americane non è un critico letterario ma un narratore, e specificatamente il narratore Italo Calvino. Quello che voglio dire è che le imprecisioni, le inesattezze, gli accostamenti impropri si spiegano (e si perdonano) abbastanza facilmente se leggiamo le Lezioni americane come una specie di autoritratto letterario e non come un testo accademico di critica; in questa chiave è evidente che Calvino estraeva dal tritacarne della memoria – delle proprie letture, dei propri studi – cose masticate e digerite molto tempo prima, per riproporle in una visione del tutto personale e per forza di cose non filologica. D’altro canto credo che sia questo il motivo per cui l’Università di Harvard invitò proprio Calvino a tenere le conferenze che poi non tenne, e non un professore di filologia o di letteratura comparata.
    Quando Calvino parla dell’esattezza, non parla mica dell’esattezza della critica letteraria (cosa certamente necessaria) ma dell’esattezza come cifra della propria scrittura, o quantomeno di un tipo di scrittura che lui perorava. Cito dalla terza lezione: «Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili […]; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione».
    Il fatto che possa essersi sbagliato nell’interpretazione di un passo boccaccesco o nella lettura di un sonetto di Cavalcanti non significa nulla, perché l’oggetto della sua trattazione non è l’interpretazione di Boccaccio né l’analisi del sonetto duecentesco: l’oggetto della trattazione di Calvino è la sua idea di scrittura e di letteratura, con tutta la complessità che gli derivava da quarant’anni di riflessioni e di pratica. Lo stesso vale per gli accostamenti tra opere tanto lontane nel tempo e nei generi: questi accostamenti appartengono all’individuo-scrittore Calvino, sono la linfa della sua formazione letteraria, del suo gusto artistico e pertanto possono legittimamente essere inesatti, essere «delle fantasticherie» – e meno male che lo scrittore fantasticava un po’, sennò addio Città invisibili e addio Trilogia araldica.
    Secondo me prendere e smontare i singoli esempi astraendoli dall’insieme del discorso calviniano è un esercizio divertente ma fine a se stesso, perché non coglie appunto la grandezza delle indicazioni, delle intuizioni, delle rivelazioni che indiscutibilmente ci sono nelle Lezioni americane; ed è un esercizio altrettanto superficiale di quello praticato da chi estrae a suo piacimento dal testo qualche bella frase da mettere in home page sul proprio sito.

  3. minimaetmoralia ha detto:

    Rispondo a DM e a GDM, anche perché invece concordo con il lavoro di destrutturazione fatto da Claudio Giunta.
    Le “Lezioni americane” di Calvino, si chiede Giunta, non devono la propria fortuna proprio a questo carattere suggestivo? E si può essere suggestivi quando non si fa narrazione, ma saggistica? Se le Lezioni americane fossero un racconto di Borges o di Arbasino avrebbero un altro valore di convincimento, ma se sono considerato una stella polare per la critica letteraria, non è giusto smontarle e farne vedere la debolezza della cogenza di alcune suggestioni?
    Se uno scrittore non ha rispetto del metodo filologico, fa un buon lavoro da un punto di vista saggistico? Non è lo stesso che dire che uno scienziato deve prendere come riferimento un metodo scientifico, altrimenti quello che dice può essere suggestivo, ma non così convincente?

  4. minimaetmoralia ha detto:

    christian raimo, pardon mi era sfuggita la firma

  5. Girolamo De Michele ha detto:

    Christian,
    1. Perché un metodo è “scientifico” se ripercorre all’indietro la strada, invece di indagare la direzione che la strada percorre in avanti? Calvino, per inciso, ha scritto un piccolo testo sullo specchietto retrovisore.
    2. L’intento di Calvino non era di scrivere un saggio di letteratura comparata (come insinua Giunta) o altro: era di indicare quali parole (con le correlate cose e relazioni) avrebbe avuto senso portarsi dietro, e difendere, nel terzo millennio. A questa prospettiva dovrebbe essere correttamente riferita la critica.
    2bis. Io, per inciso, ho usato le “Lezioni” nei miei due ultimi libri, scritti nel terzo millennio (se le date non mi ingannano).
    3. Calvino gioca un gioco tutto suo? Probabile. Probabile che l’averroismo lo abbia visto lui, e non Boccaccio, nel racconto di Cavalcanti. E dunque? È come chiedersi se fosse corretto quel tale che a Rugby prese la palla con le mani perché si era rotto di prenderla a calci: acribia e accademia calcistica o meno, ha inventato una cosa nuova, cioè il gioco del rugby. È più interessante chiedersi cosa Boccaccio sapesse dell’averroismo e dell’averroismo di Cavalcanti, e cosa ha veramente detto Maria Corti, o chiedersi cosa vuol dirci Calvino quando parla di Averroè attraverso Cavalcanti? La stella polare che tu citi ha valore non per quel che è, ma per quel che indica. E non perde il suo valore quando si scopre che non è infissa nella volta celeste, e non ruota attorno alla Terra assieme agli altri cieli e stelle.
    3bis. E se vogliamo giocare sporco, e dire che Calvino non è Gearge Steiner: forse che il Flaubert o lo Shakespeare di cui scrive G. Steiner sono davvero Flaubert e Shakespeare, e non creazioni (vogliamo dire: deformazioni sminuenti) del critico e comparativista? E dunque? Buttiamo via anche Steiner?
    4. Per come la mette Giunta, tolta la possibilità che le “Lezioni” abbiano un successo direttamente proporzionale ai loro meriti, resta solo una spiegazione: l’abbaglio collettivo dei lettori, favorito da un clima culturale nel quale si vende bene ciò che è facile e resta nell’angolo ciò che è serio e richiede impegno. Che è, grosso modo, la strategia retorica adottata nei due testi che indicavo sopra. Una strategia che ha un difetto, che però è anche un vantaggio per chi, come me, ha molte cose da fare e poco tempo per fare: con una strategia simile non c’è spazio di discussione (dovrei spiegare a chi mi da del cretino, o dell’ingenuo, o del facilone, che non è vero eludendo il pre-giudizio e la pre-comprensione di me come uno dei tanti che non distingue Calvino da una recensione di Arbasino). Meglio leggere un giallo, come diceva Brecht.
    5. E, sempre per citare qualche povero illuso che trova facilitante la faciloneria di Calvino, Gabriele Lolli ha appena pubblicato una lettura dal punto di vista matematico delle “Lezioni” (“Discorso sulla matematica”, Boringhieri). Corrette o scorrette che siano, le “Lezioni” producono effetti. Tra i quali, le concatenazioni tra saperi cosiddetti umanistici e cosiddetti scientifici o matematici (che non consistono solo in tabelle e linguaggi da ammirare in supplenza di una comprensione che manca perché “troppo difficile”: e questo, consentimi, è un pregiudizio crociano che dice molto dell’autore). Liquidare questi effetti come googolate, e dare per assodato che l’esame teorico preliminare dimostra senza bisogno di prove empiriche che le “Lezioni”, come oggetto dotato di valore culturale, non esistono è come dimostrare che la peste non esiste perché non pesa, non bagna, non vola e non brucia. Roba già sentita.

  6. minimaetmoralia ha detto:

    @ Girolamo, grazie davvero per il tuo commento articolato che ho segnalato anche all’autore del saggio. Rispondo per me, non per difendere d’ufficio il pezzo, ma tentando di fare mie alcune obiezioni e di reagirci.

    1. Esiste un metodo per le scienze umanistiche che è condiviso? Prendere di mira Le lezioni americane di Calvino serve spesso a mostrare come la deriva della contaminazione abbia portato a non considerare un testo di suggestioni per quello che è, ma un testo di critica comparativa. Non è in questione lo statuto di queste discipline, secondo te? La filologia, la critica comparativa, la critica testuale?
    2. Le “parole” da portarsi dietro non sono figlie di un’interpretazione che mira al passato e al presente oltre che al futuro. Non c’è il rischio di far prevalere il peso della ricezione più di quello della tradizione e del contesto in cui le parole vengono pronunciate?
    3.Il tuo discorso sull’innovazione linguistico non è troppo pericoloso se non ha modo di definire minimamente le regole del gioco linguistico che sta cominciando a giocare. Se, mentre giochiamo a pallone, uno prendesse la palla con le mani e dicesse Sto giocando a rugby; un altro cominciasse a menare calci e dicesse Kick-boxing!; un altro mi agguantasse la coscia e dicesse Lotta greco-romana… Alla fine questo non dico che sarebbe scorretto ma magari sarebbe poco divertente, anche perché non capirei veramente a che gioco stiamo giocando, no?
    3 bis. È il limite del conflitto delle interpretazioni. Da quando la scuola ermeneutica, sull’onda di Gadamer ha introdotto la “storia della ricezione” come criterio per la comprensione di un’opera, quello che dici può essere vero, ma forse questo non può occultare del tutto la “storia della produzione”, che dici?
    4. Se possono essere veri i limiti della strategia che tu denunci, è vero che la strategia opposta (tutti i pregiudizi che vuoi sono i benvenuti fino a non distinguersi nemmeno dai giudizi) è ancora più debole.
    5. Leggerò Lolli, mi hai molto incuriosito.

  7. minimaetmoralia ha detto:

    Christian Raimo

  8. Andrea Cortellessa ha detto:

    Sono completamente d’accordo con Girolamo De Michele (mi spiace per lui, che anche per parlare di Roger Federer deve attaccarmi): Giunta fa professione di esattezza e precisione filologica ma non inquadra in alcun modo le Lezioni nel contesto culturale di quegli anni (primi anni Ottanta, non 1988, quando quel modo di «connect» era ormai moneta corrente – ma preparato dalla scrittura giornalistica, pionieristica, proprio di autori come Calvino e Arbasino) e nello sviluppo della saggistica e in generale dell’opera letteraria di Calvino (la metafora, che Giunta trova «trita», della sabbia del deserto, è una costante profonda di tutta la sua opera, come hanno ravvisato i suoi migliori studiosi – da Claudio Milanini a Francesca Serra). Attribuire a Calvino gli intenti, o commisurarne gli esiti, a quelli di Contini o di Steiner (lui, per inciso, invecchiato assai peggio delle Lezioni americane, a mio modesto avviso) significa, come dice giustamente De Michele, farlo competere in uno sport che non è il suo.

  9. Andrea Cortellessa ha detto:

    Ecco un esempio di imprecisione – che fa specie in chi faccia professione di filologia e lamenti in Calvino la lesa «esattezza». Scrive Giunta, a proposito dell’inciso di Calvino sul «principio di indeterminazione», che sarebbe madornale sostenere che Gadda l’avesse intuito prima che venisse formulato dalla «scienza», «precisando» (sempre Giunta) che «in realtà, il principio d’indeterminazione di Heisenberg è del 1927, il Pasticciaccio del 1957». Innanzitutto è vero che il Pasticciaccio esce in volume nel ’57 ma era stato in gran parte anticipato su «Letteratura» nell’immediato dopoguerra. Ma (come dice Giunta) «non è questo il punto». Il fatto è che la poetica he presiede al «Pasticciaccio» deriva da un assunto teorico, quello della «deformazione conoscitiva», che Gadda ha chiaro sin da «Meditazione milanese»: testo del 1928-29 nel quale, dunque in stretta contemporaneità con la prima formulazione heisenberghiana, scrive che «conoscere è inserire alcunché nel reale, è, quindi, deformare il reale» (e Calvino, all’altezza delle «Lezioni», senz’altro conosceva quel testo, pubblicato appena postumo nel 1974, a cura di Gian Carlo Roscioni, nella collana Einaudi Letteratura diretta dal sodale Paolo Fossati). Poco più avanti, Giunta dice «che non c’è nessuna vera ragione di citare il principio d’indeterminazione per spiegare le idee e la scrittura di Gadda: così come non c’è nessuna ragione di mescolare, come ogni tanto si fa, la relatività di Einstein con il relativismo morale del nostro tempo», ma si dà il caso che il principio di relatività di Einstein fosse presente al Gadda della «Meditazione milanese» (nonché ovviamente del «Pasticciaccio»), il quale peraltro ovviamente nulla ha che fare col «relativismo morale» (né ovviamente pensava Calvino che c’entrasse qualcosa: è un esempio, questa intemperanza, di mescidazione di concetti e tradizioni di pensiero appartenenti a tradizioni diverse che Giunta stigmatizza, ma evidentemente pratica a sua volta). E dunque, come pensava Calvino e non pensa Giunta, ci sono molte e sensate ragioni per citare Einstein e Heisenberg riguardo a Gadda. Calvino lo ha fatto col suo stile e con i suoi intenti – così come Roscioni lo aveva fatto, impeccabilmente, da critico e da filologo (anche «La disarmonia prestabilita» era uscito da Einaudi, nel 1969).

  10. Girolamo De Michele ha detto:

    Christian, ti faccio l’esempio di Gilson lettore di Descartes. Analisi minuziosa delle parole del “Discorso sul metodo”, volta a dimostrare che Descartes non è innovativo perché l’intero suo lessico è derivato dalla scolastica. Dopo di che, ne segue che ciò che Descartes ha generato non è innovativo o perché era già implicito nella scolastica, o perché è un errore (non di Descartes ma) dei lettori, che hanno visto qualcosa di nuovo dove il nuovo non c’era. È una lettura gesuitica, ovviamente, che si regge su un criterio di esegesi tutto interno al testo, e non a partire dal testo in direzione di ciò che è fuori dal testo. È un metodo, ha una sua scientificità, una sua genealogia: ma a me questo tipo di lettura, questo metodo, e questo modo di argomentare semplicemente non interessa. In una discussione politica, lo definirei senza mezzi termini reazionario (il che non vuol dire ignorante o scorretto). Dopo di che c’è spazio per tutti, e ciascuno ha le sue letture: io, come sai, le “Lezioni americane” le rileggo ogni anno e ogni anno le insegno, e piuttosto che farne a meno taglio via qualcos’altro.

  11. Girolamo De Michele ha detto:

    @ Andrea Cortellessa
    Mica sono dispiaciuto della coincidentia oppositorum su Calvino: esiste anche l’eterogenesi dei fini 🙂

  12. Claudio Giunta ha detto:

    Grazie per la lettura e per le osservazioni, tutte ragionevoli.

    In effetti, se dovessi riscrivere il saggio lo comincerei diversamente (come alcuni più saggi mi avevano suggerito), cioè non segnalando le inesattezze: così è un po’ pedante. Tra l’altro mi sono accorto che nella prima riga cito le cinque virtù descritte da Calvino e poi dico che l’esattezza «è l’unica tra le sei il cui contrario non è mai lodevole». Non un buon inizio.

    È vero, non è un buon sistema quello di prendere dei pezzi di un libro e di criticarli – è troppo facile. Nel caso delle LA però è difficile fare diversamente, perché non ci sono una o due o tre idee-guida, c’è una somma di osservazioni e una somma di citazioni legate da fili molto sottili. Difficile cioè criticare (o approvare) le ‘tesi di fondo’. Ho cercato di citare campioni rappresentativi abbastanza estesi: l’alternativa era citare e commentare 2-3 pagine (quelle iniziali, su Dante-Cavalcanti-Boccaccio eccetera si prestano), ma è una cosa che si riesce a fare bene a lezione, non in un testo scritto.

    Sono d’accordo sul fatto che Calvino ha tutto il diritto di esprimere (e noi tutto l’interesse di leggere) le sue opinioni sulla letteratura universale, e cioè che sarebbe sciocco chiedergli la micro-affidabilità dell’erudito. Ma dato che non sta liberamente commentando un testo (il Furioso, per esempio) ma sta tracciando linee interpretative trasversali nella letteratura di molti secoli e di molti paesi, mi sembra legittimo, per lo studioso di letteratura, osservare che (almeno) alcune di queste linee in realtà, non esistono, o esistono solo grazie alla fascinazione della scrittura di Calvino. Osservare che quello che Calvino dice a proposito del testo X o dell’autore Y non è oggettivamente vero, o è sfocato, o poco pertinente, mi sembra un giusto esercizio di critica. Altrimenti le LA diventano letteratura d’invenzione (ed erano invece delle lezioni universitarie sulla letteratura), e si manca di rispetto al saggista spesso eccellente che Calvino era.

    Non ho nessuna simpatia per l’ultimo Steiner, cito solo un libro, Morte della tragedia, del quale ho un buon ricordo. E non confronto certo Calvino a Contini, cito solo incidentalmente una formula di Contini (neanche troppo felice), perché torna utile nel discorso, ma s’intende che non stabilisco paralleli.

    È anche possibile che nel mio giudizio così negativo sul libro abbia pesato il fastidio per la santificazione del libro sui giornali e nelle università.

    Ma, tutto ciò premesso, devo dire che sulle LA ribadirei quello che ho detto, senza cambiare niente. Un non-libro, alcune lezioni che forse sarebbero diventate un libro, e che hanno tutti i difetti (e certamente anche il fascino) delle lezioni: vaghe, imprecise, provvisorie, piene di dati e nomi collegati dalla volontà, o da un Witz, più che dal ragionamento. E ribadirei anche il mio giudizio sugli effetti che le LA hanno avuto sul modo in cui, a volte, si scrive di letteratura: ho letto il Discorso sulla matematica di Lolli (“Una rilettura delle LA di Calvino”), e non è davvero bastato a farmi cambiare idea, al contrario.

    Grazie ancora dell’attenzione

  13. Dario Postiglione ha detto:

    Il problema, qui, non è di tirare le orecchie a qualcuno. E nemmeno di sminuire la grandezza di uno scirttore che ha ormai il suo posto assicurato nel Canone. Che uno scrittore non usi estrema competenza filologica, che i suoi riferimenti siano a volte approssimativi, che il suo pensiero incappi in stereotipi o fraintendimenti critici, non è determinante: è sempre successo, da che mondo è mondo, e spesso con risultati sorprendenti; l’errore pertiene alle astuzie dell’arte – quando non alle astuzie della critica stessa. Ciò che delle Lezioni Americane veramente non può passare, è che siano il meglio di Calvino, è che siano il meglio della letteratura italiana del secondo Novecento, è che nelle aule accademiche – come nelle classi di liceo – quel libro venga oggi additato come uno standard normativo, peggio come un ricettario di scrittura. L’apologia di uno scrittore juxta propria principia è cosa piuttosto sterile, la sua trasfigurazione in santino ad uso e consumo dei posteri è cosa addirittura dannosa, e qualunque critico o lettore smaliziato può rendersene conto quando si mette a sfogliare le storie letterarie. Ciò che non può passare, delle Lezioni Americane come del santino Calvino che si porta in giro per le facoltà di lettere e nelle “scuole di scrittura creativa”, è l’approccio alla scrittura – all’arte – nel suo complesso, la sua idea organica di letteratura, sintetizzata in cinque parole-proclama che ricordano gli optional di un’automobile sportiva in uno spot all’ultima moda. Calvino – in virtù forse di quell’inquietudine sempre presente cui accenna Giunta – sa essere molto di più delle sue americanissime lezioni. Sarebbe ora di smetterla di prenderlo con gli strumenti che lui stesso ci ha gentilmente fornito, e di accarezzarlo un po’ contropelo; scopriremmo magari che “non ha ancora finito di dire quel che ha da dire” – la sua vena lirica ctonia, le sue ossessioni, le sue fertili nevrosi. Per il resto, mi affido all’onestà intellettuale di ogni lettore smaliziato: ma diciamoci la verità, tra alcuni passi delle Lezioni Americane e I Barbari di Baricco, voi ci trovate una differenza abissale?
    P.S: parlo, ci s’intenda, da antico innamorato di Calvino, che ai tempi del liceo mi pareva il passepartout di tutte le soglie possibili della letteratura. Mai fidarsi dei passepartout. E infatti lo studio, e più che lo studio la lettura, mi hanno col tempo portato su tutt’altri binari. Oggi Calvino, o quello che reputo il miglior Calvino, è capace ancora di suscitarmi ritorni di fiamma, turbamenti, commozioni, di rilanciare una sfida intellettuale, e questa è una prova della sua grandezza. Ma salviamolo da se stesso, per favore, perché non passi alla storia come la caricatura stilizzata – e rassicurante – dello scrittore che è stato.

  14. Dario Postiglione ha detto:

    * iuxta propria principia, ovviamente: non so che mi è preso.

  15. Giorgio Saracco ha detto:

    Non ho purtroppo il tempo di replicare con ponderatezza all’ingiusto scritto di Claudio Giunta e me ne scuso. Non voglio però rinunciare a difendere la sterminata bellezza di Lezioni Americane. Un testo che ad ogni lettura rivela nuovi significati. Un grande Calvino, forse il più grande, ed un testo eterno. Tanto dovevo. Saluti. Giorgio

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