Copeland, il faraone e gli effetti essenzialmente secondari

 

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Molto più ricche degli industriali e dei banchieri le rockstar conservavano nondimeno un’immagine da ribelli. Giovani, belle, celebri, desiderate da tutti i ragazzi, le rockstar costituivano il vertice assoluto della gerarchia sociale: nella storia dell’umanità non c’era mai stato nulla, dopo la divinizzazione dei faraoni nell’antico Egitto, di paragonabile al culto che la gioventù europea e americana tributavano alle rockstar.

(M.Houellebecq – Le particelle elementari)

Anche io ho avuto la mia “fase Police”. Una band, quella capitanata da Sting, che è riuscita a coniugare una spiccata fruibilità d’ascolto con il tentativo di fondere punk, reggae e pop in una forma new wave riconoscibilissima e di grande impatto; con alcuni brani iscritti nell’immaginario del Rock e album storici, griffati dall’icona dei tre caschetti biondi di beatlesiana memoria.

Ho ripreso in mano ultimamente l’autobiografia del batterista dei Police (Strange Things Happen — La mia vita con i Police, il polo e i pigmei)(minimum fax, 2011). Un paio d’anni fa ho assistito ad un concerto presentazione del libro; nel corso della serata, durante l’interminabile coda per il Kebab di un chiosco interno, mi è capitato di ascoltare la conversazione di due individui piuttosto anziani dietro di me: uno era mosso dallo sdegno di dover aspettare così tanto per mangiare. L’altro, più giovane, era colmo di reverenza verso il suo interlocutore. Qualche metro più avanti scopro che il vecchio è il suocero del bassista di colore di Copeland; se la rockstar è il faraone, allora chiunque rientri in qualche modo nella sua orbita guadagna posizioni nella scala sociale: per questo nella discussione tra i miei due compagni di coda la bilancia gerarchica pendeva nettamente a favore del cognato del bassista.

Ma in che modo il Nostro incarna il prototipo divino descritto da Houellebecq?

Sono convinto che i brani del libro che più vale la pena leggere siano quelli che raccontano del rapporto del batterista con la celebrità, che lasciano trapelare una sorta di tentativo continuo e mai completamente riuscito (e forse nemmeno consapevole) di acquisire una ferma determinazione delle cause del proprio status di celebrità.

Partiamo dalla reminiscenza di un concetto filosofico che mi sembra una lente adatta per guardare agli sforzi di autocomprensione inappagati di Copeland. Si tratta della teoria degli effetti essenzialmente secondari.

John Elster, un filosofo anglosassone, teorizzò quanto segue: ci sono delle cose che non si possono ottenere con un atto intenzionale. Sarebbe a dire, ci sono una serie di eventi che non possiamo far succedere se agiamo con il solo fine di farli accadere; Elster, per chiarire, fa l’esempio di un individuo che ha problemi nell’addormentarsi: costui, non riuscendo a prendere sonno cerca una posizione più comoda nel letto, prova a rilassarsi e poi comincia a contare le pecore, apre la finestra, va a bere e a rinfrescarsi. Insomma, più ci prova più l’idea di addormentarsi lascia spazio a quella di una notte in bianco; solo nel momento in cui si arrende alla prospettiva di non chiudere occhio riesce ad addormentarsi. Nel momento in cui l’intenzionalità non è più diretta al prender sonno il sonno sopraggiunge, non più come effetto diretto della sua intenzione, ma come effetto secondario, per colpa ad esempio della stanchezza di una notte passata quasi in bianco.

Ci sono quindi delle cose che possiamo ottenere se smettiamo di volerle: se, in un certo senso, il nostro volerle direttamente viene messo in stand by. Nel momento stesso in cui le otteniamo, queste non sono ciò che volevamo ottenere, e le otteniamo proprio perché in quel momento non pensavamo di volerlo.

Un altro esempio molto calzante è quello della stima. Se agiamo con il puro intento di essere stimati dagli altri il nostro sforzo solipsistico a stento verrà celato dietro una coltre di buone intenzioni, e tutte le nostre azioni non faranno altro che rivelare il progetto di acquisire stima al di là della bontà delle azioni. Al contrario, spesso guadagnamo stima senza volerlo direttamente, attraverso comportamenti che manifestano un nostro particolare modo d’essere e che non hanno come intento quello di conquistare qualcuno. La stima in tal caso sopraggiunge anch’essa come effetto essenzialmente secondario.

A questo punto potremmo applicare la teoria degli “effetti essenzialmente secondari” al ritratto della rockstar tracciato da Houellbeq: l’essere divino del rocker, come sublimazione della persona che riesce a catalizzare stima, è una condizione che costituisce un effetto essenzialmente secondario. Nessuno è diventato Mick Jagger come effetto di una serie di azioni volte a diventare Mick Jagger. Chi afferma di esserci riuscito probabilmente non ricorda che il momento in cui tutto ha iniziato a girare nel verso giusto era proprio quello in cui la brama di notorietà era momentaneamente seppellita: dimenticata sotto i furori della creazione artistica, degli eccessi autodistruttivi, dei momenti di crisi, della voglia di cazzeggio e tanti altri luoghi comuni del rock.

Quindi il faraone si trova ad essere divinizzato senza essere la causa diretta della sua condizione. Stewart Copeland si ritrova a un certo punto in un vortice di effetti essenzialmente secondari che lo porteranno a diventare celebre con i Police. Scrive a un certo punto: la notorietà è un effetto collaterale della musica, stravagante ma essenziale. La musica è anzitutto un veicolo per il musicista, ma in realtà l’obiettivo è affascinare il popolo. Insomma la musica è un amplificatore dell’ego (…) Il segnale dell’avvenuto riconoscimento era un fruscio seguito da un confuso sibilo sonoro pieno di S: «SSSembra proprio lui.. PoliCe.. SSting.. SStewart».

Qui Copeland sembra intuire la matrice essenzialmente imperscrutabile delle cause che portano alla celebrità.

Allo stesso modo colpisce come, a dispetto di una serie di capitoli iniziali in cui Copeland disquisisce minuziosamente sui suoi esordi musicali, il momento dell’ascesa dei Police è quasi obliato; la band ci viene presentata praticamente in medias res, quando i giochi sono praticamente fatti e i tre musicisti si trovano già sul tetto del mondo. Il Capitolo 8, che dovrebbe raccontare il momento dell’ascesa, è un breve stralcio scritto da Copeland per un film sui Police, Everyone Stares, uscito qualche anno fa.

Di nuovo è una impossibilità strutturale quella che impedisce di cogliere le cause dell’ascesa: Copeland si ritrova a essere faraone senza poterne rintracciare i motivi, in un mondo abitato di pigmei in cui succedono cose strane, proprio perché quel che è avvenuto è al di fuori della portata intenzionale di chi lo abita.

Non a caso, andando avanti quasi alla fine del libro, nel Cap 28, con un flashback Copeland torna a quei tempi. I Police vengono descritti nell’attimo in cui stanno per diventare i Police con la P maiuscola; una specie di istantanea del fatidico momento di cui parlavamo prima, in cui le cose iniziano a girare. Non c’è spazio per analisi o teorie, il tutto è virato attraverso la mistica di un episodio che viene inquadrato in una dimensione divina. Si tratta della prima volta che la voce di Sting si manifesta in tutta la sua carica messianica

“Accadde qualcosa di imprevedibile. Una lunga nota cristallina si leva nel cielo d’oriente. È una voce maschile di tale potenza e bellezza da spezzare tutti i cuori che la sentono crescere (..) Sul palco io e Andy ascoltiamo per la prima volta il suono che ci catapulterà nella terra promessa. Davanti ai nostri occhi il profeta s’illumina, spalancandoci le porte del futuro con un gemito lancinante d’intensa bellezza. Nessuno potrà resistere…”

La tensione tra la difficoltà di dover gestire e raccontare questa condizione straordinaria e il tentativo di codificarla appigliandosi alla razionalità di causa ed effetto (derivata da una sana e diretta volontà) emerge in alcuni snodi autobiografici, in cui il Nostro narra dei suoi rapporti con Sting.

Giunti al capitolo 30, arrivati al punto in cui i Police si riuniscono dopo due decadi per uno sfarzoso tour mondiale, pare che l’autocomprensione e la consapevolezza di Copeland rispetto al suo status di celebrità del rock trovi una spiegazione causale nel talento musicale: l’essere uno dei più grandi batteristi del mondo è il motivo del suo successo; allo stesso modo i Police sono quello che sono perché grandi musicisti. Ma dal capitolo 30 in poi questo ulteriore castello cade di nuovo sotto i colpi degli effetti essenzialmente secondari.

Una delle prime date del Reunion Tour dei Police viene descritta così da Copeland nel suo blog:

«Mr Copeland, quando vuole» dice Charlie, direttore di produzione del tour, mentre due ragazzi della troupe spostano il gigantesco gong. Lo spazio è appena sufficiente per sgattaiolare sulla pedana delle percussioni, che è ancora in fondo alla buca. Io salto a bordo ma inciampo e quando il palchetto si rialza emergo nell’arena ancora steso in terra. Pazienza. Il pubblico grida, io mi rialzo nel buio e comincio a scaldare il gong con qualche tocco delicato. Solo che esagero e il crescendo raggiunge l’apice prima che il palco assuma la posizione definitiva. Una specie di eiaculazione precoce. Non posso farci nulla, così brandisco la mazza e mi giro di lato, preparandomi al grande colpo finale. Il problema è che mi sono posizionato qualche millimetro troppo in là, il che mi porta a mancare il punto giusto del gong. La solenne e pomposa apertura dello spettacolo si trasforma in un petardo loffio. Pazienza. Con tre o quattro falcate virili mi sposto alla batteria. Andy è partito con il riff iniziale di Message in a Bottle, la folla è in delirio, il problema è che non l’ho sentito cominciare: è al primo o al secondo giro? Lancio un’occhiata a Sting, ma serve a poco. Il suo punto di riferimento sono io e mi sono perso, pazienza (…) siamo sfasati di mezza misura, Andy è su un altro pianeta (..) in un modo o nell’altro arriviamo al gran finale, per sottolineare il quale ieri sera Sting si è esibito in un grande salto. Ora ci riprova ma per qualche motivo non riesce a prendere lo slancio e si solleva solo di pochi centimetri. Per un attimo più che un Dio rock l’onnipotente Sting sembra una checca isterica.

Il fatto rilevante emerge da una discussione tra Copeland e Sting qualche capitolo dopo: il pubblico non è assolutamente interessato agli errori dei Police e acclama i propri beniamini al di là di ogni performance; i faraoni non detengono poteri divini in virtù di ciò che fanno, ma ciò che fanno è comunque divino in virtù del loro essere faraoni. Gli altri due Police si arrabbiarono molto con Copeland per quel post sul suo blog: non coglievano lo sforzo del Nostro di cercare ancora una motivazione razionale unica, che fungesse come chiave di autocomprensione rispetto alla propria condizione.

Ma se il pubblico era impigliato in questo meccanismo divinatorio, una dinamica spiazzante e totalmente opposta regnava nella relazione fra Sting e Copeland. Forse l’unico del quale bramava il plauso (e forse proprio per questo motivo), il leader dei Police si dimostra sempre come il tassello critico nel quadro mentale del Nostro. Come ad esempio quando, riunitasi la band dopo anni di stop, Sting lo manda su tutte le furie con la pretesa di insegnargli tecniche batteristiche secondo il suo parere non perfettamente padroneggiate da Copeland. Oppure quando, in occasione del concerto al Delle Alpi del 2007, concomitante al compleanno di Sting, quest’ultimo insulta Copeland durante il concerto, dimenticandosi che, prima di salire sul palco aveva ricevuto da lui in regalo una tuba; quando il giorno seguente Stewart, gonfio di rabbia per gli insulti ricevuti durante il concerto, la pretese indietro, Sting gli rispose con tutta calma: «Non posso rendertela, l’ho distrutta ieri dopo il concerto». Chiosando su queste vicende, più avanti, Copeland riflette su quanto sia straniante la condizione di chi è considerato da tutti un Dio della batteria, ma uno zero dal proprio bassista.

Ciò che voglio mettere in evidenza con questa frammentata e veloce analisi del libro non è certo una presunta inadeguatezza teorica del suo autore, peraltro assolutamente non richiesta per una pubblicazione del genere, quanto sottolineare come alcune storie raccontate da Copeland, proprio perché lasciate all’incanto di chi si trova a vivere cose che una persona normale non vive (come ha detto Stewart salendo sul palco a presentare i suoi filmati) siano molto romantiche, belle e naif.

Qui e lì emerge anche il tentativo titanico del faraone di ricondurre gli accadimenti a una propria volontà tinta di onnipotenza. Ma gli stessi errori di valutazione, con risvolti più comici, li ha commessi anche Sting (il vertice della piramide Police) quando, ad esempio, per ribadire la sua diretta onnipotenza volontaria, affermò qualche anno fa che poteva scopare 12 ore consecutive grazie allo yoga. In questo senso quelli di Copeland sono dei semplici scivoloni che suscitano una risata bonaria, ben lungi dal patetismo.

Ma se la chiave di lettura degli effetti essenzialmente secondari può sembrare capziosa, riferiamoci alle parole che Sick boy rivolge a Renton inTrainspotting, nella scena in cui al parco sparano con un fucile a salve contro corpi lontani che bivaccano ignari.

Dalle edificanti massime di vita di Sick boy emerge, in versione pop, una filosofia della celebrità-faraone non dissimile da quella messa in campo qui. La divinità-faraone quindi è portatrice di un quid, un elemento che le conferisce lo status divino: «Lou Reed ce l’aveva e non ce l’ha più, Bowie, George Best». Alla fine Renton riassume questa visione dell’amico chiedendogli se tutto non sia un ineluttabile spegnersi e invecchiare.

E’ per questo che le celebrità che ignorano l’importanza del “quid” e pensano che la loro gloria sia frutto d’intenzionalità vanno incontro a grasse figuracce: semplicemente ignorano che la loro fama è stata generata come un effetto essenzialmente secondario.

Terminata la fila per i Kebab, i due anziani interlocutori si diradano verso le prime file, mentre i video girati in Africa da Copeland stanno per concludersi. Una voce si leva da uno spettatore con la maglia dei Police tutta sbiadita: «Suonaaa!». Qualcuno riporta di nuovo Copeland ai doveri del faraone, esortandolo ad abbandonare il tentativo di darsi una spiegazione. O quantomeno, diremmo noi, invitandolo a leggere John Elster!

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