L’invenzione della nostalgia

È arrivato recentemente il libreria, pubblicato da Donzelli, L’invenzione della nostalgia di Emiliano Morreale. Si tratta di uno studio molto interessante su come i mass media siano, prima ancora che dei divulgatori, i creatori su vasta scala di un particolare sentimento, quasi del tutto sconosciuto fino alla modernità e oggi diventato pervasivo, ingombrante. Che cos’è la nostalgia? Da dove viene? Come è stata manipolata da un secolo di cinema e mezzo secolo di televisione? Riproduciamo qui, per i lettori di Minima&Moralia, un breve estratto del libro.

di Emiliano Morreale

5. Storia della nostalgia

Il termine «nostalgia» ha una data di nascita recente ed esattamente situabile. Viene creato come neologismo medico, introdotto dal diciannovenne alsaziano Johannes Hofer nella sua Dissertatio Medica de Nostalgia (1688) e definito come «la tristezza ingenerata dall’ardente brama di tornare in patria». Parente della malinconia e dell’ipocondria, se ne distingue per dei tratti più «democratici»: è malessere di sradicati, di soldati (svizzeri, per lo più) e marinai lontani da casa, è insomma patologia «borghese» e moderna (o piuttosto: lo diviene appunto quando viene trasposta e schedata come patologia). Ma più precisamente sembrerebbe nascere dall’attrito tra vecchio e nuovo, e infatti gli Stati Uniti se ne riterranno immuni fino a gran parte dell’800.
Infatti in un secondo momento, la caratterizzazione geografica dell’origine della nostalgia (letteralmente «dolore del ritorno», desiderio di tornare a casa, al posto da cui si proviene) lascia il posto a una di tipo storico: la nostalgia diventa quindi anche il senso della perdita del passato, non necessariamente legato a un luogo che si è lasciato. «Fu solo con il disancoramento della parola dalla sua base patologica, con la sua de-militarizzazione e de-medicalizzazione (cui seguì altresì un processo di “de-psicologizzazione”), che essa cominciò ad acquisire molte delle connotazioni che ha oggi». In questo senso si potrebbe dire, ribaltando la celebre frase di Messaggero d’amore di Losey (e del romanzo di L. P. Hartley che ne è all’origine), il passato non è «una terra straniera», ma semmai la patria lontana, ed è piuttosto il presente ad essere straniero.
La nostalgia, dunque, dopo una breve e fortunata storia all’interno della disciplina medica (da cui esce quasi completamente ai primi del Novecento) cambia completamente area semantica, e nel far ciò cambia anche oggetto. Nel frattempo, dalla restaurazione al ’48 essa ha nutrito i nazionalismi ottocenteschi e il pathos degli esuli.
Ma «come accadde che un malessere di provincia, maladie du pays, diventasse una malattia dell’epoca moderna, mal du siècle?» Un presupposto fondamentale in questa storia è quella svolta nei rapporti familiari, con la rivalorizzazione dell’infanzia, narrata nei libri di storici come Philippe Ariès, e testimoniata dalla nascita di un genere (o sotto-genere) per noi fondamentale come il «ricordo d’infanzia». Il testo fondativo sono in questo caso le Confessions (1762) di Jean-Jaques Rousseau, la cui indulgenza a narrare vicende di nessuna importanza scandalizzò numerosi lettori dell’epoca. Come ricorda Francesco Orlando, «oltre allo scandalo propriamente moralistico per l’audacia di molte scene narrate, oltre alla ripugnanza che poteva suscitare in genere l’esibizione d’una impudica sincerità e d’un egocentrismo mai visto, si individua una sorpresa che ha direttamente per oggetto l’insistenza di Rousseau sui ricordi d’infanzia minimi, privi di importanza obiettiva e di significato razionale». La nuova, scandalosa maniera di raccontare la propria infanzia si basa su due poli: la precisione, la minuzia e l’insistenza con cui si evocano i particolari minimi, e la commozione che insorge nel ricordarla. È quest’ultima la novità sconvolgente, che secondo gli studiosi trova una spiegazione storica in un senso generale: «se è vero, secondo la tesi di uno storico moderno (Groethuysen, ndr.), che il nuovo spirito borghese aveva poco a poco svuotato la morte del suo pathos cristiano, ora è come se un diverso pathos, emigrando nel ricordo d’infanzia, andasse a rifugiarsi all’altra estremità della vita umana». In termini non troppo dissimili si era espresso anche Walter Benjamin, quando aveva notato il passaggio dall’ allegoria barocca (incentrata sul cadavere) a quella ottocentesca (basata sull’oggetto di ricordo, il souvenir).
Ma la nostalgia, nel passaggio da patologia curabile a stato d’animo incurabile, e poi sempre più spostato verso l’esperienza estetica, è soprattutto inscindibile dalle vicende del concetto di progresso: «la nostalgia, come emozione storica, è il desiderio di quello “spazio” sempre più ristretto “dell’esperienza” che non corrisponde più al nuovo orizzonte di aspettativa. Le manifestazioni nostalgiche sono effetti collaterali della teleologia del progresso», che in effetti «non era solo una narrazione dell’evoluzione temporale, ma anche dell’espansione spaziale».

Ovviamente, l’età del romanticismo moltiplica il pathos dell’infanzia e la nostalgia del proprio passato, che abbiamo visto emergere con Rousseau. «Se nei testi romantici la nostalgia divenne eroica», e, come abbiamo accennato, indiretto fondamento per i nazionalismi, in quello stesso periodo emerge anche un particolare pathos, che consiste nel «riconoscere in oggetti un decorso di tempo sentito individualmente, e presentarli con patetica compiacenza»: un atteggiamento che Francesco Orlando ha definito memore-affettivo, e che nasce dalla coscienza di una discontinuità storica introdotta dalle rivoluzioni politiche e industriali.
Ma è solo con la fine dell’Ottocento e gli albori della società di massa che la nostalgia moderna appare pienamente riconoscibile, con tratti definiti:

«La nostalgia come emozione storica raggiunse la maggiore età in epoca romantica ed è contemporanea alla nascita della cultura di massa. Ebbe inizio con l’affermarsi del ricordo dell’inizio del XIX secolo che trasformò la cultura da salotto degli abitanti delle città e dei proprietari terrieri istruiti in una commemorazione rituale della giovinezza perduta, delle primavere perdute, delle danze perdute, delle occasioni perdute. (…) Tuttavia questa trasformazione della cultura da salotto in souvenir era festosa, dinamica e interattiva; faceva parte di una teatralità sociale che trasformava la vita quotidiana in arte. (…) Il malinconico senso di perdita si trasformò in uno stile, una moda di fine Ottocento».

Gli studiosi sono concordi nell’intravedere i primi tratti di questa sensibilità in alcuni testi di Baudelaire e di suoi contemporanei, quando si comincia a parlare di nostalgie des pays e des bonheurs inconnus, nostalgie d’un pays q’on ignore (Le Spleen de Paris, XVII). La seconda rivoluzione industriale e la società di massa, con i suoi cambiamenti tumultuosi, rendono più acuto il senso della irreversibilità e caricano di pathos il sogno della sua inversione, del ritorno all’indietro. «Ciò che rende questa malattia incurabile è l’irreversibilità del tempo», scrive Vladimir Jankélévitch (che cita l’immagine dell’Apprendista Stregone, evocata già da Marx come metafora del capitalismo). E secondo Jean Starobinski, il modello della nostalgia come patologia, passando dai luoghi (la patria) al tempo (passato) presiederà alla nozione freudiana di regressione.
Jankélévitch, proseguendo questa analisi nel segno del romanticismo, vede nella musica l’arte nostalgica per eccellenza, proprio perché essa è indissolubilmente legata allo scorrere nel tempo, ma può essere rieseguita e quindi tornare a ri-scorrere davanti ai nostri occhi: «discorso temporale, è irreversibile come la vita; rispetto alla vita, tuttavia, l’opera musicale è reiterabile», anzi «un irreversibile curiosamente manipolabile in cui il rimedio ci viene dato insieme al male». Ma se proseguiamo su questa linea di riflessione, ben più intrinsecamente legati alla nostalgia appariranno allora i media che in qualche modo sono coetanei della sua forma matura, e che si avviano a segnare il secolo nascente: la fotografia e soprattutto il cinema.
Nella fotografia ad esempio, come noterà nel 1927 Siegfried Kracauer paragonandola implicitamente al cinema, «il tempo non è raffigurato, come lo sono il sorriso e lo chignon, ma la fotografia stessa, così sembra ai nipoti, è un’immagine del tempo. Se solo la fotografia conoscesse durata, non sarebbero sorriso e chignon a conservarsi semplicemente al di là del tempo, quanto piuttosto il tempo a creare da essi le proprie immagini». E come ha ricordato Leo Charney commentando le teorie di Jean Epstein, l’interazione tra shock dell’immagine e continuità nel tempo è quella che pone i termini per lo sviluppo del cinema, e per la sua centralità nel secolo. A questo punto, varrà la pena ricordare ancora una volta che il 1895 della prima proiezione dei Lumière è anche la data della prima pubblicazione de La macchina del tempo di Herbert George Wells…

6. Tra moderno e postmoderno: la nostalgia nell’era della sua riproducibilità tecnica

È su questo sfondo che, tra Ottocento e Novecento, prendono forma le grandi elaborazioni artistiche e filosofiche della memoria di Bergson e di Proust, con la distinzione, da parte del primo, tra memoria pura e memoria-abitudine, e la sconfinata opera del secondo, identificata ben presto con alcuni elementi come la memoria involontaria, che riattiva frammenti sepolti di passato, e che è forse ultimo rifugio dell’io e sorgente del bello. Entrambe le posizioni ci interessano qui però anche a confronto con una modernità ormai pienamente dispiegata, metropolitana, industriale e capitalista: quella raccontata, ad esempio, nelle pagine coeve di Georg Simmel. Perché è da notare anche che «le esperienze veicolate dalla memoria involontaria(…) sono possibili perché viviamo secondo ritmi sincopati, in quanto la continuità che l’io vorrebbe imporre al passato, per renderlo interamente disponibile, non riesce ad affermarsi».
Da notare poi, di sfuggita, come per Proust (lo hanno notato interpreti diversi, da Antoine Compagnon a Gilles Deleuze) la memoria involontaria abbia un ruolo essenzialmente costruttivo, che permette un valore in definitiva conoscitivo dei meccanismi di rievocazione del passato. In essa dunque lo stordimento nostalgico ha un valore momentaneo, verrebbe da dire strumentale. Ed è proprio questo tratto a segnare la differenza tra la memoria involontaria proustiana e la sensibilità che è al centro del nostro studio, nella quale lo shock emotivo (piacevole e doloroso) della rievocazione di un passato intimo non prelude a nient’altro, è fine a se stesso e la sua caratteristica peculiare è semmai quella di essere sempre più ripetibile da parte del soggetto, e riproducibile.
Walter Benjamin, che a partire anche da Proust e da Baudelaire si interrogherà sull’intreccio di passato e presente storico, sulla memoria e il recupero del passato, insisterà anch’egli su questo punto: «Bergson non si propone affatto di specificare storicamente la memoria; e respinge, anzi, ogni determinazione storica dell’esperienza. Con ciò egli evita, anzitutto ed essenzialmente, di doversi avvicinare a quell’esperienza da cui è sorta la sua stessa filosofia, o contro la quale, piuttosto, essa è stata mobilitata, che è quella ostile, accecante, dell’epoca della grande industria». Il rapporto tra Bergson e Proust è espresso dal filosofo tedesco in termini chiarissimi: «Si può considerare l’opera di Proust, Á la recherche du temps perdu, come il tentativo di produrre artificialmente, nelle condizioni odierne, l’esperienza come intesa da Bergson. (Poiché sulla sua genesi spontanea sarà sempre più difficile contare)».
Proust però, se da un lato ha sperimentato su di sé il il modello di esperienza bergsoniana, dall’altro è piuttosto un tragico pioniere. Egli, secondo Benjamin, ha esperito (e subìto) come individuo solitario una forma culturale destinata a diventare ben presto di massa:

«Ogni corrente della moda o della visione del mondo riceve la sua spinta da ciò che era caduto nella dimenticanza. Questa spinta è tanto forte che in genere solo il gruppo vi si può abbandonare, il singolo – il precursore – minaccia di crollare sotto il peso della sua forza, com’è accaduto a Proust. In altre parole: ciò che Proust esperì come individuo nel fenomeno della rammemorazione (Eingedenken) noi siamo costretti a viverlo – come punizione, per così dire, per l’indolenza che ci ha impedito di farcene carico – come “corrente”, “moda”, “tendenza».

Proprio Benjamin ci illumina maggiormente su questa fase decisiva della storia della memoria, e sulla sua importanza per il concetto nostalgia; sul suo intrecciarsi con la società di massa e la crisi dell’ esperienza. In Benjamin il passato, esplicitamente legato al tempo dell’infanzia, pur ripresentandosi anche in forme traumatiche e orrorifiche, è il luogo in cui è depositato il futuro. Come si legge in uno dei materiali preparatori delle cosiddette Tesi di filosofia della storia: «Il passato ha depositato in sé immagini che possono paragonarsi a quelle che si fissano su una lastra sensibile. Solo il futuro può svilupparle: quelle che sono abbastanza forti, perché possa apparire l’immagine in tutti i suoi dettagli».
Non è un caso che Benjamin si dedichi a studiare la melanconia barocca. Nell’età presente si osserva infatti un ritorno delle modalità allegoriche, da lui studiate in relazione al dramma barocco tedesco, sotto nuove forme: «Le allegorie, le forme espressive eminenti del barocco, hanno appunto per oggetto l’oblio che si illumina, senza per questo diventare interamente comprensibile, il passato allusivo, perturbante, pietrificato, murato, i cadaveri e le rovine». Ma oggi il cadavere, che suscitava la melanconia barocca, è quello dell’esperienza:

«Il “ricordo” è complementare all’ “esperienza vissuta” (Erlebnis). In esso si deposita la crescente autoestraneazione dell’uomo, che cataloga il suo passato come un morto possesso. L’allegoria ha sgombrato, nell’Ottocento, il mondo esteriore per stabilirsi in quello interno. La reliquia deriva dal cadavere, il “ricordo” dall’esperienza defunta, che si definisce, eufemisticamente, “esperienza vissuta”. (…) La melancholia, nell’Ottocento, ha un altro carattere che nel Seicento. La figura-chiave della vecchia allegoria è il cadavere. La figura-chiave della nuova allegoria è il “ricordo” (An-denken). Il “ricordo” è lo schema della trasformazione della merce in oggetto di collezione».

I nuovi mezzi di comunicazione di massa hanno un ruolo essenziale in questo processo. A monte di questa contemplazione dell’esperienza come reperto, souvenir, c’è la separazione tra le tecniche artistiche e il bello, che crea, a cavallo tra Otto e Novecento, delle strane formazioni miste, suggestive, inquietanti e struggenti, sospese un attimo prima della completa mercificazione: i Passages, ad esempio, e più in generale quelle rovine urbane, che sono «l’innalzamento della merce allo stato di allegoria».

«Lo sviluppo delle forze produttive ha distrutto i sogni e gli ideali del secolo scorso, prima ancora che fossero crollati i monumenti che li rappresentavano. Questo sviluppo ha emancipato, nell’Ottocento, le varie forme creative dall’arte, allo stesso modo che, nel Cinquecento, le scienze si erano separate dalla filosofia. Comincia l’architettura come costruzione tecnica. Segue la riproduzione della natura nella fotografia. La creazione fantastica si prepara a diventare pratica come grafica pubblicitaria. La letteratura si sottopone al montaggio nel feuilleton. Tutti questi prodotti sono in procinto di trasferirsi come merci sul mercato. Ma esitano ancora sulla soglia».

Si può dunque dire che nostalgia e modernità nascono insieme, e non sorprenderà allora che il cinema diventi, come vedremo subito, oggetto e soggetto privilegiato di ritorni del passato prossimo, mode e nostalgie. Il cinema nasce dalle stesse condizioni culturali e sociali che producono quel che oggi chiamiamo nostalgia. E le maniere di gestire e negoziare la nostalgia rimarranno sempre uno dei suoi punti di forza, e lo saranno anche per gli altri strumenti che ne prenderanno il posto alla guida del sistema dei media.

E qui veniamo al secondo momento, decisivo. Giacché i fenomeni in cui la nostalgia di fa davvero «di massa», come il vintage o come i nostalgia movies degli anni Settanta di cui parleremo, risultano pienamente evidenti in una fase successiva, quella del cosiddetto «postmoderno», e letti alla luce delle categorie che i suoi analisti hanno identificato.

Commenti
Un commento a “L’invenzione della nostalgia”
  1. aquilotta71 ha detto:

    NOSTALGIA COME DI FAR RITORNARE ALLA MENTE..
    CHE COSA SIMPATICA INCONTRARTI OGGI CHE MI SONO IMBATTUTA IN SCHEGGE DI NOSTALGIA…

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