Pane, Islam e kalashnikov

Questo approfondimento sulla vita culturale in Afghanistan proviene dal numero doppio della rivista bimestrale di educazione e intervento sociale Gli Asini.

di Giuliano Battiston

Pane, tè, Islam e kalashnikov. Negli ultimi trent’anni, la maggior parte degli adolescenti afghani è cresciuta così, soffocata prima dall’eco degli appelli a difendere la patria dall’invasione degli infedeli sovietici, poi dal silenzio rancoroso delle guerre intestine, divenuto un mutismo coatto con l’intransingenza talebana, infine dalla cacofonia disordinata seguita all’intervento armato degli Stati Uniti. Poche possibilità, e poche certezze, se non – appunto – quelle di pane, tè, Islam e kalashnikov, coordinate fondamentali di una costellazione poco luminosa. Anche oggi, quanti hanno meno di 25 anni continuano a vivere all’interno di quelle coordinate, soprattutto nelle aree rurali di un paese composto – secondo l’ufficio statistico centrale di Kabul – da 40000 villaggi circa. Nelle aree urbane, però, la situazione è diversa, e l’attivismo dei giovani contraddice l’idea di un paese ancorato in modo caparbio al suo passato o incapace di trovare percorsi di ricostruzione del tessuto sociale, politico ed economico che non siano eterodiretti. In ogni città afghana, infatti, da Kandahar a Mazar-e-Sharif, da Herat a Kabul, da Maimana a Jalalabad, ci sono ragazzi e ragazze che danno vita ad associazioni culturali, gruppi di lettura e scrittura, giornali universitari, gruppi politici e di promozione sociale, riviste di poesia, occasioni di incontro e scambio di idee. Convinti innanzitutto che sia possibile percorrere una via diversa da quella del ripiegamento sterile e consolatorio sul passato da una parte e dell’accettazione acritica dei modelli esogeni importati dalla comunità internazionale dall’altra. La strada è difficile, perché quasi dieci anni dopo la rimozione dei Talebani dal potere, la popolazione soffre ancora l’eredità di decenni di guerra e una situazione compromessa da molti fattori, oltre al sanguinoso conflitto tra truppe Isaf/Nato e movimenti antigovernativi: un sistema istituzionale inefficiente, sequestrato da battaglie senza esclusioni di colpi tra fazioni politico-militari diverse e affetto da corruzione sistemica; un panorama politico incerto, condizionato dall’impunità totale per i potenti e dalla mancanza di un vero sistema giuridico; il matrimonio perverso tra l’economia di guerra e l’industria dello sviluppo; la natura predatoria della comunità internazionale, che sotto il cappello dell’aiuto allo sviluppo nutre soltanto le proprie retoriche, alimentando un’economia che avvantaggia portaborse, diplomatici e cooperanti occidentali, lasciando che sulle briciole si accapiglino “turbanti neri”, signorotti ed elite locali. L’ambizioso piano di state-building e ricostruzione promesso dalla comunità internazionale, dunque, è fallito.

A dispetto di questo, ci sono associazioni e gruppi in pieno fermento. Qualcuno mosso soltanto dalla voglia di fare, di fare qualcosa purchessia, qualcun altro più consapevole del quadro in cui opera, e sufficientemente maturo da saper rimodellare in modo originale e produttivo nel contesto afghano anche pratiche e concetti importati dalla comunità internazionale. Dimenticata dai principali paesi finanziatori e dalle grandi agenzie di aiuto umanitario e ricostruzione post-bellica, la cultura è uno degli ambiti in cui più attivi sono i giovani afghani. A tutte le latitudini del paese.

Anche a Maimana: più che una città un grande villaggio, capoluogo della provincia occidentale di Faryab, al confine con il Turkmenistan. Qui, per esempio, grazie all’intraprendenza di Abdul Rashid Reshad, coordinatore provinciale di Afghan Women Educational Center, nel 2007 è nata la Esanch Cultural Association: “pubblichiamo un mensile dedicato a questioni sociali e culturali. Ne vengono stampate 2500 copie, mi racconta Reshad, parte delle quali vengono vendute all’università. Il ricavato, insieme ai contributi personali dei 70 membri dell’associazione, serve a mantenere un margine di libertà, perché quando si è troppo dipendenti dai finanziamenti dei paesi stranieri o del governo si perde la libertà di criticare, senza la quale non c’è vera cultura critica”. Prima ancora che per la ricostruzione materiale del paese, il futuro dell’Afghanistan passa dalla cultura, sostiene Kazem Amini, che incontro a Maimana in una casa spoglia ed essenziale, che condivide con la moglie e sei bambini piccoli, sempre con il naso rosso perchè “la legna costa cara, e alimentare la stufa tutto il giorno è un lusso che non possiamo permetterci”. Autore di romanzi storici e testi di cultura storiografica, tra cui una splendida storia di Maimana, poliglotta (dari e pashto, le due lingue nazionali, più uzbeco, turco, urdu e arabo), quest’uomo asciutto e dall’ampio sorriso non potrebbe permettersi neanche di tenere in piedi la Zahiruddin Faryabi Cultural Association. Eppure lo fa caparbiamente da diversi anni, destinandogli parte degli 85 dollari al mese che guadagna come insegnante, “perchè è la cosa che so fare meglio, e perché sono convinto che il nostro futuro passi per l’educazione, per una scolarizzazione diffusa, per lo scambio delle idee. Cose che non capisce nè il governo di Kabul né la comunità internazionale”.

Se il presidente afghano Karzai è alla prese con una coalizione governativa sempre più fragile, che certa di puntellare con l’inclusione di alcuni esponenti di primo piano delle leadership talebana, comprati a suon di promesse e denaro sonante, la comunità internazionale volge lo sguardo altrove: non al futuro dell’Afghanistan, di cui non si è mai interessata veramente, se non per egoistici interessi geopolitici o di resa miope e incondizionata alla politica muscolare dell’Alleanza atlantica, ma ai giudizi dell’opinione pubblica interna europea e statunitense, sempre più recalcitrante a garantire il sostegno per una missione militare i cui scopi appaiono ogni giorno meno chiari, se mai lo sono stati. Impegnati come sono a delineare il piano di transizione per ritirare le truppe dall’Afghanistan, lasciando la patata bollente alle forze di sicurezza locali, i vertici militari non hanno tempo per pensare a gruppi e associazioni come quelle di Maimana, mentre nei saloni della diplomazia internazionale si pensa soltanto, in termini molto prosaici, all’entità – in milioni di dollari – del “biglietto di uscita” che ogni paese dovrà sborsare per abbandonare dignitosamente un territorio che non sarà più considerato politicamente rilevante, una volta ritirati i militari.

Una volta che le truppe straniere torneranno a casa, rimarranno però, a lottare contro un governo corrotto e del tutto impermeabile alle istanze della società civile, in un paese privo di un efficiente quadro politico-legislativo, di garanzie costituzionali non soltanto formali, dove anche la soddisfazione dei bisogni fondamentali dipende dalle concessioni di uomini forti, milioni di ragazzi e ragazze, la maggior parte dei circa trenta milioni di abitanti dell’Afghanistan. A dispetto della disillusione per la mancata ricostruzione del paese e per le promesse tartufesche degli occidentali, molti di questi continueranno a “usare la cultura come strumento di promozione sociale”, assicura Qasimati Wafa, giovane direttore di “Rah-e-noor”, un’associazione socioculturale che opera a Bamiyan, la cittadina a poco più di duecento chilometri da Kabul nota per ospitare i resti degli antichi Buddha, distrutti nel 2001 dal miope integralismo dei Talebani. “La comunità internazionale – racconta Qasimati Wafa – tende a considerare utili solo i progetti con effetti visibili, strade, scuole, ponti, che certo sono necessari. Noi però crediamo che sia altrettanto necessario costruire un’identità nazionale condivisa a partire dalla letteratura”, recuperando quanto di meglio la tradizione poetico-letteraria ha prodotto e cercando contaminazioni con i contributi della cultura occidentale. “Chi viene da fuori non si aspetta che anche in Afghanistan si possa fare cultura, che ci si possa interessare di poesia e letteratura, di tradizioni antiche e di novità stilistiche, eppure anche da noi non ci sono solo guerra e combattimenti”, spiega Ibrahim Tawallah, poeta e scrittore dell’Associazione di scrittori di Bamiyan, per il quale la cultura costituisce un serbatoio di esperienze condivise che potrebbe contribuire a “salvaguardare” gli afghani dall’atmosfera di guerra che ancora attraversa il paese, offrendo un ideale positivo verso cui canalizzare gli interessi dei più giovani.

Tra questi, forse i più attivi sono quelli di Mazar-e-Sharif, a una manciata di chilometri dal confine con l’Uzbekistan, una città che continua ad ammiccare al nord, ai paesi dell’Asia centrale, quanto ad abitudini culinarie e a tessuto sociale (qui vivono infatti radicate comunitá di tajiki e uzbechi), e che i più ambiziosi sognano diventi la vera erede di Balkh, una cittadina a mezz’ora di macchina da Mazar, considerata in passato la “madre di tutte le cittá”, perché ha dato i natali a Zoroastro, ha visto combattersi greci e persiani, ha ospitato Alessandro Magno e una serie di dinastie greco-battriane, ha adottato le innovazioni architettoniche e culturali portate dagli arabi, prima di soffrire la furia distruttrice dei mongoli nel 1220 (di cui dà testimonianza anche Marco Polo) e di ospitare la splendida cupola turchese del santuario timuride di Khoja Abu Nasr Parsa, edificato nella metà del 1400, dove sembrano echeggiare ancora i versi del poeta sufi Rumi.

Rumi è tra i numi tutelari dell’Associazione degli scrittori di Balkh: “nata a Mazar-e-Sharif più di trent’anni fa, mi spiega Sohrab Samanian, prima dell’avvento del regime comunista, ha svolto un ruolo importantissimo per un lungo periodo. Anche nei momenti più difficili, infatti, quando le dispute politiche erano durissime, la letteratura funzionava come filtro, ridimensionandole”. Con l’avvento dei talebani, l’Associazione ha dovuto chiudere i battenti. Per poi riaprirli non appena i seguaci del mullah Omar hanno perso potere: “oggi organizziamo seminari, incontri, feste che ricordano anche tradizioni pre-islamiche come la notte di Yalda, la ricorrenza del mitrismo che si celebra l’11 dicembre. Soprattutto, cerchiamo di ricordare ai nostri cittadini quanto sia ancora importante, nonostante decenni di conflitto, il panorama culturale afghano, una risorsa su cui investire”. Ma su cui sia la comunità internazionale sia il governo locale paiono puntare troppo poco. “I paesi occidentali pensano soprattutto a fare affari, piuttosto che ad aiutare iniziative come la nostra”, lamenta Farkonda Rajabi, studentessa di letteratura all’Università di Balkh, editor del sito Balkh Times, scrittrice e fondatrice a Mazar-e-Sharif della casa di cultura ‘Partau’. “Quando eravamo ancora al liceo, io e le mie amiche cercavamo un luogo in cui poter leggere e discutere le nostre poesie e i nostri racconti. Gli altri circoli erano riservati agli uomini, oppure non erano luoghi in cui le ragazze si sentissero del tutto a loro agio. Così abbiamo deciso di fondare ‘Partau’, che oggi ha più di trenta membri, incontri mensili, una pubblicazione cartacea e un sito, frequentato anche da scrittori iraniani, tajiki o espatriati”. Il ruolo di giornalisti e scrittori, spiega Farkonda, “è diventato sempre più importante e chiaro: oggi ci si aspettano notizie e riflessioni”, e spetta a scrittori e giornalisti trasmettere informazioni e conoscenze. Come fa Zamir Saar, giovane video-giornalista del sito di informazione Pajhwok, uno dei piú autorevoli nel panorama mediatico afghano, che mi accoglie nella redazione del suo giornale, a pochi passi dal magnifico santuario di Hazrat Ali, meraviglia architettonica di epoca timuride, per raccontarmi delle due riviste con cui collabora: Pasarlai, un magazine politico che lancia bordate contro l’amministrazione provinciale, colpevole a suo dire di discriminare la popolazione pashtun, minoritaria in quest’area del paese, e il trimestrale Parkha, che – spiega  Zabibullah Ehsas, editor della rivista – “ospita scritti brevi, racconti e poesie”, e promuove ogni settimana incontri, “a partire da un articolo o un poema, di cui discutiamo stile e contenuto”.

Quella della liberale Mazar-e-Sharif non è un’eccezione: a Jalalabad, a pochi chilometri dal confine con il Pakistan, nella bella sede dell’associazione Mediothek – che organizza corsi di formazione per giornalisti e carovane di pace – ogni venerdì mattina si incontrano i membri del Jalal Kot Literary Movement. Nato da un’idea di Arshad Reghand, giovane giornalista di Radio Killid (network di radio “non commerciali”), all’appuntamento del venerdì si ritrovano una ventina di ragazzi per discutere di letteratura e poesia in lingua pashto: a turno, salgono su un piccolo palco, per recitare la propria poesia, cantare canzoni e aspettare i commenti degli altri. C’è persino chi chiama al telefono da Kabul, pur di avere l’occasione di condividere la passione per la poesia. “Un modo per mantenere in vita una tradizione culturale che è stata minacciata da decenni di guerra”, spiega Siamuden Pasarly, collaboratore di Mediothek, alla sua prima poesia recitata in pubblico.

Ad Herat, invece, la tradizione è ancora più radicata. Qui gli incontri si svolgono infatti nella sede della Herat Literary Association, “un’associazione privata, non governativa, fondata più di 80 anni fa”, mi dice Mortzea Qaneweze, che prende il posto del direttore, malato. L’edificio, al centro di Herat, è molto semplice: una stanza arredata in modo essenziale, qualche consunto divano e una libreria, alle pareti alcune foto dei giganti della letteratura afghana e iraniana. E’ proprio qui che, “due volte a settimana, si discutono testi fondamentali per la nostra letteratura e quei pochi libri che arrivano in traduzione dall’Iran”. A pochi passi dalla Herat Literary Association c’è invece il Lincoln Center, una delle iniziative con cui gli Stati Uniti cercano di conquistare cuori e menti degli afghani. Per ora, “di strutture simili in Afghanistan ce ne sono otto, racconta il responsabile del centro, Nazir Noori, ma l’idea è di arrivare presto a tredici”. Gli obiettivi, espliciti: “fornire servizi come corsi di inglese e informatica ai ragazzi, e diffondere notizie affidabili su storia e cultura americane”. Mostrando la compatibilità tra valori a stelle e strisce e tradizione islamica: alle pareti, alcuni poster ritraggono allegre famigliole afghane residenti negli Stati Uniti, rispettate nella loro eterodossia religiosa, mentre sugli scaffali delle librerie si trovano testi come Islam in America e American. The new Generation Muslim, l’immancabile biografia di Barack Obama, romanzi di autori contemporanei e perfino un testo fondamentale della cultura afro-americana come Native Son, di Richard Wright. Mentre i generali fanno piovere bombe nelle aree rurali, nelle città l’amministrazione Obama prova a presentare un volto diverso. Accogliente e rispettoso dell’Islam. Consapevole che, come ricorda Fawzia Farhat, del Cooperation Center for Afghanistan di Mazar-e-Sharif, “l’Afghanistan è, prima di ogni altra cosa, un paese profondamente musulmano”. E che per cambiare le cose “occorre lavorare con i mullah, che influenzano le scelte della maggioranza della popolazione”.

Ne è convinto anche Maroof Hamdard, giovane giornalista radiofonico. Maroof condivide con Sadiq Rishtinal una minuscola stanza al terzo piano di un edificio a pochi passi dalla rotonda Shaheedan, tra i principali punti di riferimento del centro cittadino di Kandahar, la città del sud dell’Afghanistan roccaforte del movimento talebano. Due tavoli di legno compensato, un piccolo materasso in terra per i momenti di stanchezza, due computer portatili e una connessione internet. Tutto quello che serve per lavorare come corrispondenti locali per Radio Azadi, branca locale di Radio Free Europe, la radio finanziata dal Congresso degli Stati Uniti attraverso il Broadcasting Board of Governors, guardata con sospetto dalle comunità locali più tradizionali. Che l’accusano di voler veicolare contenuti estranei, se non contrari, alla cultura di questa zona pashtun, e di giustificare la presenza delle truppe internazionali. Maroof Hamdard respinge al mittente le accuse: “il nostro è solo uno strumento per provare a raccontare le cose che accadono qui. Altro che propaganda. Ci occupiamo dei problemi di ogni giorno, dalla sicurezza alle questioni economiche, dalla ricostruzione al quadro politico. Soprattutto, ci interessiamo al mondo dei giovani”. Ai giovani dice di rivolgersi anche Ahmad Azaad, giovane manager di Radio Killid, un network di informazione con sedi a Kabul, Khost, Gazni, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Herat, Qandahar e corrispondenti in ognuna delle 34 province afghane. “E’ la situazione del paese, con un passato tormentato e un futuro da ricostruire, che richiede la presenza di strumenti di informazione come la radio, con la sua facilità d’accesso. Trasmettiamo ogni settimana 34 programmi, con contenuti differenti, ma con un obiettivo comune: far crescere la consapevolezza della gente rispetto alla società in cui vive. Ci rivolgiamo in particolare a due generazioni: quella che va da 20 ai 30 anni circa, e quella degli adolescenti, due generazioni che non hanno vissuto che guerra. Con la radio possiamo influire sul loro modo di pensare, mostrare ciò che accade altrove, spingere i cittadini a riconoscere lo scarto che c’è tra l’Afghanistan e altri paesi, così da invogliarli a cambiare le cose. Proviamo a far vedere che, oltre alla guerra, esiste qualcos’altro. E che si può guardare al futuro”.

Al futuro dell’Afghanistan guarda anche Zaman Raofi, coordinatore per l’area di Kandahar di Afghan Human Rights Organization. La cultura dei diritti, spiega nella sede dell’organizzazione, “è recente per l’Afghanistan. Non esisteva nè sotto il regime comunista, nè nel periodo dei mujaheddin e tanto meno quando al potere c’erano i talebani. Per questo il lavoro da fare è tanto. Spesso anche le istituzioni governative non ne riconoscono l’importanza. Io vengo da Kabul, e ho avuto modo di lavorare cinque anni a Mazar-e-Sharif, una città molto aperta sotto questo punto di vista. A Kandahar la situazione invece è particolarmente delicata. Ti faccio un esempio: i nostri ambiti di lavoro sono tre: l’assistenza legale gratuita, per chi non può permettersi un avvocato, il miglioramento del sistema giudiziario e la diffusione tra i cittadini di nozioni relative alla cultura dei diritti. Tra le altre attività abbiamo un progetto rivolto agli studenti delle scuole, per trasmettergli alcuni rudimenti delle norme legali e dei diritti che sono riconosciuti dalla Costituzione afghana e nel diritto internazionale: mi è capitato spesso di rivolgermi a rappresentanti istituzionali, nei vari dipartimenti del ministero della Cultura, per chiedere l’autorizzazione ad entrare nelle scuole, e spesso mi sono sentito ripetere: ‘diritti umani? E chi li conosce. Qui non ne sappiamo niente, rivolgetevi altrove!”.

Se Zaman Raofi si deve scontrare con le istituzioni governative, riluttanti a dargli credito, Qudratullah Shekieb deve farlo invece con la tendenza dei bambini a distrarsi. Giornalista radiofonico e collaboratore della Youth Federation, un’organizzazione giovanile che raccoglie migliaia di aderenti, Shekieb ha scelto un modo originale per comunicare “valori positivi, come i diritti dei più vulnerabili, i bambini, spesso maltrattati”: il teatro sociale di strada. “Ogni settimana – ci racconta nella sede di Jalalabad della Youth Federation – organizziamo spettacoli divertenti e utili, nei vari distretti della provincia di Nangarhar, per spiegare ai bambini e ai loro genitori i diritti che sono loro garantiti dalla Costituzione, e come farli rispettare”. Si tratta di una delle tante attività promosse dalla Youth Federation e portate avanti da ragazzi e ragazze giovanissimi ed entusiasti. Tra queste, Farahnez Wafa, studentessa senza peli sulla lingua: “la nostra associazione è come un albero, i cui rami si spingono in tutti i distretti della provincia, spiega. Ci diamo da fare perché il futuro dell’Afghanistan è ancora incerto. E non vogliamo che a decidere quale sarà siano quelli che fino a ieri hanno fatto la guerra”. Parola di diciannovenne.

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