
La consueta rubrica di Christian Raimo e Marco Mancassola che esce ogni mese su «Rolling Stone». Finita l’era psichedelica che per un po’ ci ha fatto credere di poter scassinare le porte della percezione, finita quella del postmodernismo che ci ha resi cinici e disgregati, e ora che anche il neoliberismo pare essere al collasso, quali strumenti ci restano per comprendere il mondo in cui viviamo?
Marco Mancassola >> Una delle tipiche esperienze di chi prende un acido o altre sostanze psichedeliche per la prima volta, è la sensazione che la realtà complicata, frammentata, dispersiva in cui ha vissuto finora diventi di colpo leggibile. All’improvviso tutto combacia. Tutto si rivela coerente. Posso intuire ciò che tiene ogni cosa insieme: ho capito, ho capito! Il disordine del mondo era soltanto illusione. Un po’ come la “teoria del tutto” cercata dalla fisica teorica, quella che sarebbe in grado di connettere le diverse teorie sulla natura della realtà.
Ci fu un tempo in cui migliaia, milioni di persone sperimentavano in contemporanea tale sensazione. Quella hippy-psichedelica fu davvero una rivoluzione. Anzi una rivelazione. Un intuire collettivo che la realtà non era solo quella che appariva. Allora, cosa impedì agli hippy degli anni Sessanta, ai Cary Grant e ai Ken Kesey di diventare un popolo di illuminati e di decisivi profeti? Cosa li trattenne dal cambiare le sorti del pianeta? Forse la rivelazione psichedelica era sì sconvolgente, ma anche troppo sfuggente. Non si poteva comunicare a parole. Non era traducibile in un’effettiva politica. Mica facile mettere insieme Le porte della percezione e le curve dell’economia mondiale.
La cultura psichedelica ha lasciato delle eredità. Non solo la scena del viaggio in 2001 Odissea nello spazio o i pezzi migliori dei Beatles. Ha lasciato ad esempio i semi della cultura informatica-digitale in cui oggi viviamo immersi, germogliata proprio dalla California psichedelica. Steve Jobs non nascose mai l’aiuto dato dall’LSD all’ideazione dei primi Mac.
Ma nella nostra vita individuale e collettiva continuano a non esserci teorie del tutto. Una volta c’erano le ideologie. Poi, giusto mentre la cultura hippy si ritirava, trionfò il postmoderno con la celebrazione del molteplice, del disgregato, del centrifugo, il suo ironico distacco dall’idea di una narrazione unitaria, di un senso compatto del mondo. E infine trionfò il neoliberismo. Il mercato totale. L’idea che a tenere insieme ogni cosa bastasse questo, la potenza inclusiva e quasi mistica del mercato.
Ora che il neoliberismo naufraga, e il postmoderno ci ha resi così cinici e alienati da spingerci a un passo dal suicidio collettivo, ci scuotiamo e ci accorgiamo di essere in un’altra era. Il postmoderno è finito da un pezzo. Evaporato come un banco di nebbia. Ovunque è voglia di reincanto, di nuova fede, di “new sincerity”, di ritrovare la capacità di credere in qualcosa. Ma non è così facile. La verità di chi è nato nell’assenza di verità, non è a sua volta una forma di messa in scena? Come esco dall’ossessione dell’autoconsapevolezza, dal gioco di specchi interiori, dall’infinito “so di sapere di sapere?” Uno scrittore come David Foster Wallace ha scritto migliaia di pagine cercando questa via di uscita. Si impiccò nel patio di casa.
Christian Raimo >> Ho trentasei anni. L’imperativo che ha accompagnato la mia crescita era quello attribuito, a seconda della tradizione, a Socrate o a Talete: Conosci te stesso. Avevo quattordici anni nel 1989, quando stava per cadere il Muro, e quando gente come Gianni Vattimo o Hans Georg Gadamer aveva gioco facile nel riassumere il Novecento come il “secolo ermeneutico”: un secolo dell’interpretazione, segnato fin dalla nascita da quei “maestri del sospetto” (Nietzsche, Freud, Marx) che sembrava avessero fornito, per chi voleva, un insuperabile modello critico di conoscenza del mondo. C’era un filo rosso che collegava la storia: conoscere voleva dire storcere il naso, non accontentarsi, mettere e mettersi in discussione. La parola crisi non aveva il significato di disastro ma di passaggio cruciale. Dall’Atene del V secolo avanti Cristo, dal conosci te stesso, quest’approccio non era molto cambiato, se ci veniva ribadito 1) che la scienza non ci mostra la verità ultima sulle cose (Nietzsche), 2) che noi non siamo mai trasparenti a noi stessi (Freud), 3) che la società nasconde nella politica i suoi meccanismi più profondi – quelli del potere economico (Marx).
Se oggi, in questo paesaggio pervasivo della crisi, devo pensare a qual è l’imperativo con cui crescono i ragazzi con cui ho a che fare, me ne viene in mente uno che ha una forza, potrei dire una violenta perentorietà, che per me allora quattordicenne sarebbe stata inimmaginabile. Sii te stesso: è questa un’intimazione che gli e ci viene ripetuta ogni istante. L’idea che la nostra vita sia una ricerca continua e mai risolta, che la nostra personalità sia non solo mutevole ma mai in definitiva conoscibile, l’idea che quello che siamo ci rimanga sempre in parte oscuro perché dipende così poco da noi, tutto questo diventa un ostacolo di fronte al diktat della società a cui apparteniamo: occorre essere immediati. Spontanei, diretti, senza filtri. Bisogna essere sempre pronti a fare un acting out di quello che si prova. Esprimiti. Scrivi prima degli altri che “ti piace” è quello a cui invita Facebook quando mette un’iconcina a fine pagina di un articolo, spronando verso un’assurda gara ansiogena a dover comunicare subito,senza doverci pensare neanche un secondo, l’effetto della realtà sui nostri sensi.
Ma cosa vuol dire essere se stessi, se neanche ci serve riflettere su cosa siamo? Significa che possiamo fare a meno degli altri. Che possiamo ritenere che noi siamo l’universo. E questo – non so come la vediate voi – ci può fare sentire meno soli. Ma anche molto più soli. O anche semplicemente un po’ stupidi.
La promessa di non dover essere dei conformisti sociali si rivolta nel suo opposto: si rischia di diventare dei conformisti del proprio sé. Fedeli ai nostri impulsi ciechi, schiavi di una sincerità che altro non è che indifferenza al mondo, inchiodati a un’immagine di noi che somiglia, più che a un’anima, a un book fotografico. O a un tamagotchi con il nostro stesso sorriso spento. A un angry bird che come Sisifo tutto il giorno continua a lanciarsi nel vuoto sperando di schiantarsi contro delle casse di frutta.
Christian Raimo (1975) è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha pubblicato per minimum fax le raccolte di racconti Latte (2001), Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004) e Le persone, soltanto le persone (2014). Insieme a Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Francesco Longo – sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory – ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi Stile Libero, 2005). Ha anche scritto il libro per bambini La solita storia di animali? (Mup, 2006) illustrato dal collettivo Serpe in seno. È un redattore di minima&moralia e Internazionale. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia (Supercoralli) e nel 2015 Tranquillo prof, la richiamo io (L’Arcipelago). È fra gli autori di Figuracce (Einaudi Stile Libero 2014).
sono tempi difficili, d’accordo, ma tra la figura dell’arcano maggiore e il pomodoro sfranto che si tuffa da una finestra alla bukowski, ci sarà pure una via di mezzo…..voglia di vivere saltami addosso :-))) siete terribili, però, mi siete piaciuti uguale 🙂
Grazie per l’analisi concisa.
“La verità di chi è nato nell’assenza di verità, non è a sua volta una forma di messa in scena?”Come esco dall’ossessione dell’autoconsapevolezza, dal gioco di specchi interiori, dall’infinito “so di sapere di sapere?”
QUesta frase mi ha colpito tantissimo,insieme all’osservazione di Raimo sull’immediatezza.
I miei amici mi dicono che sono immediata,senza filtri…forse non ho bisogno degli altri?e questa mia qualità,è una questione di carattere o di influenza sociale?
Non sono assolta solo perché non vedo la tivù,perché se ci penso,lo stereotipo che mi disgusterebbe vedere è una signora che parla da Maria De Filippi:MAAriiiaa,posso dire un cosa a …?Sei solo falsaa!sei una falsa!(SII TE STESSO)
Perché questa immagine mi risulta così chiara in mente(potrei descrivere di che colore sono le luci in studio e gli orecchini della signora)?nonostante appunto abbia visto un programma con la De Filippi 2 volte in vita mia?
Vi ringrazio tanto,perché vedo il telegiornale e l’ultimo servizio dopo una TRAGEDIA del giorno è su come sconfiggere la collera girando il cucchiaino del thè.E non so perché,forse per la mia immediatezza,ma questo servizio di pochi minuti fa,l’avrei potuto leggere nel libro di Wallace che ho regalato a un amico.Oggi ci rifletto su quello che avete scritto.
Grazie
una conformista del proprio sé.
Leggendo l’articolo di Raimo ho la sensazione di avere ritrovato delle idee che non sapevo neanche di avere. Non sto sotto acido.
Il sii te stesso oltre ad essere un ‘tictac’…, come disse il presidente della mia provincia in una famosa intervista, è anche, parafrasando il discorso, che non condivido, di Mancassola, un’illusione ordinata, cioè, se la realtà non è solo quella che appare, l’individuo è sempre quello che si mostra il sii ti stesso, a mio parere, è sempre valido, anche quando dici una gran bugia alla tua fidanzata o fai il cretino per non andare alla guerra, insomma, non esiste modo per sfuggire al se stesso, anche se sono un bugiardo o un cretino, sono me stesso bugiardo e/o cretino, al contrario, invece, ci sono tanti modi (modelli vie fini e mezzi eccetera) per conoscere se stessi, e diventare così un se stesso un po’ più evoluto (consapevole) di quando era solo un se stesso con tanti se stessi messi insieme in fila indiana, uno a coprire l’altro.
ci sono gatti che scintillano al buio