Tempo fuori sesto. Guy Debord contro la Modernità 2

Pubblichiamo la seconda parte del testo di Raffaele Alberto Ventura su Guy Debord. Qui la prima parte.

Il picco di massima popolarità dell’Internazionale Situazionista (e dei concetti sopra elencati) coincide anche con la pubblicazione di un’opera, La Società dello Spettacolo, che mostra però Guy Debord sotto una luce differente. Nel compendiare in un quadro coerente teoria rivoluzionaria e critica del tempo libero, Debord produce un singolare opuscolo impregnato tanto di marxismo quanto di scetticismo barocco. La vida es sueño? Come ha notato Mario Perniola, e come troppi pochi interpreti sottolineano, il Barocco era un «punto di riferimento costante per Debord»: cosa c’è di più barocco, in effetti, che la metafora dello Spettacolo? Se il Barocco è, come Debord scrive al paragrafo 189 della Società dello Spettacolo, «l’arte di un mondo che ha perduto il proprio centro» (Amleto parlava di «tempo fuori sesto» o disarticolato), l’intera opera di Debord lamenta questa perdita e ambisce ad essere, più che ortodossamente marxista, perfettamente barocca. Il situazionismo non è altro davvero: «Il teatro e la festa, la festa teatrale, sono i momenti culminanti del Barocco».

Nell’intera sua opera letteraria e cinematografica Debord scava questo scetticismo e articola la propria malinconia, non dissimile da un Montaigne rinchiuso nel proprio castello a scrivere gli Essais. Ed é appunto la malinconia il carattere che emerge via via in maniera sempre più evidente nei suoi scritti degli anni Settanta e Ottanta; malinconia che diventa vera e propria visione del mondo e della Storia.

Per amore della sintesi un po’ perfida, diremmo che Guy Debord ha passato quasi tutta la sua vita a lamentarsi. Ma ammettiamo che lo fece con grandissimo stile. Una così dolorosa malinconia non si provava, forse, dai tempi di Publio Ovidio Nasone e delle sue lettere dall’esilio pontico. Ed è appunto un esilio quello dal quale Debord pretende di scrivere: esilio non nello spazio ma nel tempo, esilio da una Parigi che non esiste più. Il mediometraggio del 1959 Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps è già una galleria di volti e di strade, un malinconico tributo alla giovinezza perduta: e Debord aveva ventotto anni. L’anno precedente aveva scritto le proprie Memorie. Vent’anni dopo, nel suo penultimo lungometraggio In girum imus et consumimur igni, con il solito tono monotono Debord proclama:

Mi limiterò dunque a poche parole per annunciare che Parigi (checché ne dicano gli altri) non esiste più. La distruzione di Parigi non è altro che un sintomo della malattia mortale che sta portando via in questo momento tutte le grandi città, e questa malattia è sintomo a sua volta della decadenza materiale della società. Ma rispetto alle altre città, Parigi aveva molto più da perdere. Che immenso privilegio, essere stato giovane in questa città quando, per l’ultima volta, ha brillato d’una luce tanto intensa!

L’impiego del termine «decadenza» e la metafora della «malattia mortale» possono sorprendere, e far pensare allo storicismo tragico dei filosofi tedeschi degli anni Venti e Trenta: ma è probabile che non vi sia nessuna influenza diretta. Lo studio delle somiglianze tra Debord e autori come Oswald Spengler o Martin Heidegger (importante cantiere del post-situazionismo) mostra una mappa delle influenze molto più intricata.

Quella di Debord è innanzitutto una denuncia del tempo. In una nota a proposito di In girum imus, Debord segnala che il film è costruito attorno a visioni dell’acqua come metafora del tempo e citazioni di poeti dello «scorrere di tutto» (Li Po, Omar Khayyâm, Eraclito, Bossuet, Shelley) opposte a visioni del fuoco che ardeva Saint-Germain negli anni Cinquanta e Sessanta. Alla fine, conclude Debord, «l’acqua del tempo travolge il fuoco e lo spegne». Ancora temi barocchi: il tempo che passa, la giovinezza perduta, la vanità, gli artifici. «Le temps s’en va, le temps s’en va ma Dame» (Ronsard). Il pesante abuso di alcool, da questo punto di vista e se crediamo all’auto-analisi del Panegyrique, serviva a Debord per fermare e rovesciare lo scorrere nel tempo, nuotare controcorrente nelle acque della Senna e ritrovare i propri vent’anni: Isidore Isou e i lettristi, le derive psicogeografiche, le occupazioni alla Sorbona…

In Guy Debord, son art et son temps (1994), amarissimo auto-documentario che prelude al suicidio, Debord cita Le cygne di Baudelaire: «La forma di una città cambia più rapidamente, ahimé, del cuore di un mortale». L’accompagnamento musicale di Lino Léonardi, a base di fisarmonica in stile Amélie Poulain, finisce per intenerire i cuori più duri. Insomma, il sentimento di Debord non sarebbe altro che nostalgia della giovinezza, di vecchi amici scomparsi, di notti fonde a sognare la rivoluzione? Senza dubbio. Eppure questo sentimento, sul quale può essere facile ironizzare, incarnava il trauma di un’epoca, o una successione di traumi vissuti dai parigini a partire dal dopoguerra: le speculazioni edilizie degli anni Cinquanta e Sessanta, l’edificazione delle banlieues, la distruzione delle Halles a partire dal1971, l’apertura del Centro Pompidou nel 1977, l’installazione delle colonne di Buren nel cortile del Palais Royal nel 1985, che Debord paragona a tanti codici a barre…

Commenti
3 Commenti a “Tempo fuori sesto. Guy Debord contro la Modernità 2”
  1. Martina ha detto:

    Molto interessante il richiamo a Bataille e quello al Barocco. Sono, in effetti, due punti poco sottolineati nella saggistica su Debord. Potrei avere qualche riferimento bibliografico?

  2. Ignatz ha detto:

    Quante banalità questo Ventura. Ma ha solo 31 anni. Perdonàtelo, se potete.

  3. CarlosVeder ha detto:

    Hey Ignatz, perché dici questo? Sono anch’io giovane e anch’io ho avuto l’impressione che Debord sia uno sfigato molto affascinante! Sto facendo un po’ di ricerche e mi piacerebbero dei pareri nuovi!

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