Parlare di università con tono liquidatorio può rivelarsi un discorso molto scivoloso

Da qualche tempo Francesco Piccolo, scrittore, sceneggiatore, autore minimum fax, e editorialista, è passato dall’essere una firma di riferimento dell’Unità a esserlo per il Corriere della Sera. Cosa sta cambiando? Il rischio che di volta in volta pare mostrare nei pezzi che scrive è che in un contesto di sinistra, il suo sguardo paradossale, moralista, non-allineato risuonava chiaramente come una voce di libertà; mentre in un giornale sempre più schiettamente filogovernativo, i suoi articoli di commento sembrano diventare il megafono di posizioni di questo o quel ministro intento a essere sprezzante con una sinistra “bambocciona” o “sfigata”.
Un suo editoriale di ieri, per esempio, pareva voler esplicitamente convalidare con un’aura sociologizzante un’affermazione di Francesco Profumo di qualche giorno fa, ossia: l’Italia è l’unico paese in cui ci sono i fuoricorso all’università..

Ma capiamolo insieme. Ecco l’articolo di Piccolo:

I fuori corso all’università «esistono solo da noi: bisogna cambiare rotta». Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo denuncia la piaga italiana dei 600 mila studenti che non hanno completato il ciclo di studi nei tempi previsti dall’ordinamento universitario, il 33,59% del milione e 782 mila iscritti nell’anno accademico 2010/2011. Ma non si tratta soltanto di una questione di costi, quanto del malcostume di una società che ha ormai stravolto le regole.
Come accade troppo spesso nel nostro Paese, le regole si fanno per dei motivi, anche sensati, e poi si risolvono in una consuetudine sbagliata. L’opportunità di continuare gli studi oltre il tempo stabilito è nata come eccezione comprensiva per i lavoratori; è stata, in fondo, un’opportunità democratica per i meno abbienti, un tempo supplementare per raggiungere gli stessi traguardi di chi poteva dedicarsi soltanto allo studio. Ma si è trasformata, man mano, in un escamotage che perette di avere, in molti casi, l’università che ti fa compagnia per un lungo segmenti di vita, intanto che ti dedichi ad altro. È diventata, la carriera studentesca, una delle opportunità del precariato: provo a fare un lavoro, provo a essere bravo in uno sport, provo a fare uno stage, provo ad andare all’estero, e provo anche a fare un esame. Il tempo fuori corso viene usato non più come supplementare, ma aomce uno stile di vta. Ovviamente non per tutti, ma è questo arenamento del costume che il ministro Profumo mette in discussione. Il ministro parla di “costo” per la società. Il costo è l’ossessione di questi mesi. Però forse questo governo, mentre parla di costi, sta spesso puntando il dito verso il malcostume di casa nostra. Cioè verso una serie di vecchie distorsioni alle quali sembriano rassegnati. In pratica, al fondo della domanda sui fuori corso, ce n’è un’altra più profonda, su una consuetudine di questo paese: la laurea come status, e non come opportunità lavorativa. Sembrerebbe a tutti noi che la laurea come simbolo sia ormai in decadenza, ma la verità è che in crisi il suo valore reale, la sua capacità di trasformare uno specializzato in un lavoratore. Per questo motivo, in una società dove il futuro è al centro della crisi, e il passaggio dallo studio al lavoro è il momento più difficile neella vita di un italiano, l’idea di una carriera studentesca veloce e mirata diventa una necessità. Cittadini migliori sono anche coloro che riescono a vivere le opportunità concrete del presente, per poche o molte che siano. In questo soprattutto, il fuori corso è una tipologia fuori dal tempo.

La riflessione in buona fede di Piccolo non prende in considerazione però una realtà universitaria diversa da quella dipinta da Profumo, per il quale la ricerca umanistica è ancillare a quella tecnologica, e il merito una specie di mantra onnirisolutore.

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Riportiamo qui tre pezzi tratti dalla rivista on line ROARS (Return on Academic Resarch): il primo di Giuseppe De Nicolao, il secondo di Alessandro Ferretti, il terzo una serie di slide a cura di Francesca Coin si apriranno cliccando sull’immagine. Speriamo questi contributi servano a riportare i dati al di là delle impressioni e a allargare il quadro.

1. I fuoricorso esistono solo in Italia?

Questo e’ un Paese incapace di mantenere i tempi, e’ un Paese sempre in ritardo. Il baco e’ la scuola: e’ l’unico Paese al mondo dove esistono i fuoricorso.

lo ha detto il ministro dell’istruzione Universita’ e ricerca, Francesco Profumo, sottolineando il fenomeno dell’allungamento dei tempi nel percorso universitario degli studenti. Quantunque molti in Italia ritengano che il fenomeno dei fuoricorso sia esclusivamente italiano, basta documentarsi per rendersi conto che le cose stanno in modo diverso. A tale proposito, citiamo un articolo che ha tra i suoi autori Francesco Giavazzi, certamente immune dal sospetto di voler ingigantire i problemi stranieri per minimizzare i mali dell’università italiana:

Throughout the world, a large fraction of students remain in educational programs beyond their normal completion times and this tendency appears to have increased in recent years. At the undergraduate level, according to Bound et al. (2006), time to completion of a degree has increased markedly over the last two decades. Various papers and policy reports confirm these findings.(1)

(1) See, for example, OSEP (1990), Ehrenberg and Mavros (1995), Groen et al. (2006) and Siegfried and Stock (2001), U.S. Department of Education (2003), the State of Illinois Board of Higher Education (1999), UCDavis (2004) and Gao (2002). The situation is similar in Canada where a 2003 report of the Association of Graduate Studies indicates that “ … in many universities times to completion were longer than desired.”
Garibaldi, P., F. Giavazzi, A. Ichino, and E. Rettore (2012), “College Cost and Time to Complete a Degree: Evidence from Tuition Discontinuities”, The Review of Economics and Statistics, Accepted for publication, Posted Online April 5, 2011.

Pertanto, l’affermazione del ministro Profumo sembra quanto meno superficiale. Va ricordato che il ministro Profumo è un professore universitario, ex-rettore del Politecnico di Torino ed ex-presidente del CNR. Evidentemente, la cortina fumogena che da anni avvolge la discussione pubblica è talmente spessa da essere stata respirata ed assimilata persino da chi sta ai vertici.
Nessuno nega che il problema degli abbandoni e dei fuoricorso sia grave e richieda interventi tempestivi ed efficaci. Ma questo non giustifica la diffusione di notizie inesatte e fuorvianti. Affermare che l’Italia “è l’unico Paese al mondo dove esistono i fuoricorso” allontana il discorso dal piano della razionalità, fondato sui numeri e sui confronti internazionali, per spostarlo su un livello emotivo, basato sull’eccezionalità. È un copione già visto e che non vorremmo più rivedere.

Bibliografia (da Garibaldi et al. 2011)

Bound, John, Michael Lovenheim and Sarah Turner, “Understanding the Increased Time to the Baccalaureate Degree”, University of Michigan (2006), mimeo.
Canadian Association for Graduate Studies, “The Completion of Graduate Studies in Canadian Universities: Report and Reccomendations”, (2003).
Ehrenberg, Ronald G. and Panagiotis G. Mavros, “Do Doctoral Students’ Financial Support Pat- terns Affect Their Times-To-Degree and Completion Probabilities?”, Journal of Human Resources 30:3 (Summer, 1995), 581–609.
Gao, Hong, “Examining the Length of Time to Completion at a Community College”, Paper presented at the Annual Meeting of the Southern Association for Institutional Research, Baton Rouge, L.A., October 12-15 (2002).
Groen, Jeffrey, George Jakubson, Ronald G. Ehrenberg, Scott Condie and Albert Yung-Hsu Liu, “Program Design and Student Outcomes in Graduate Education”, NBER Working Paper No. 12064 (March, 2006).
Office of Scientific and Engineering Personnel (OSEP) and Policy and Global Affairs at the National Academies, “On Time to the Doctorate: A Study of the Lengthening Time to Completion for Doctorates in Science and Engineering”, (1990).
Siegfried, John J. and Wendy Stock, “So You Want to Earn a Ph.D. in Economics? How Long Do You Think it Will Take?”, The Journal of Human Resources 36:2 (Spring, 2001), 364–378.
State of Illinois – Illinois Board of Higher Education, “Persistence, Completion, and Time to Degree”, (June, 1999), mimeo.
U.C. Davis – Office of Resource Management & Planning, “Undergraduate Time to Degree Completion Rates by College and Division”, Issue Report (March, 2004).
U.S. Department of Education – National Center for Education Statistics, “The Condition of Education 2003”, NCES 2003-067 (June, 2003), Washington, DC

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2. I fuoricorso sono un megaspreco di soldi per l’Italia?

Brivido, terrore, raccapriccio!! Ieri sera navigavo quietamente in rete quando d’improvviso mi imbatto in una notizia sensazionale, di quelle che ti cambiano la serata. “Laureati fuori-corso e bamboccioni costano parecchi miliardi di euro”, e subito sotto: “I conti dicono che la spesa per lo Stato è di 12 miliardi l’anno”.
12 milardi di euro? E’ una cifra enorme! Con quei soldi ci si potrebbe togliere lo sfizio di costruire un ponte di Messina all’anno e avanzerebbero ancora soldi per quadruplicare l’investimento pubblico in ricerca e innovazione in Italia. Oppure, si potrebbe regalare 10 mila euro l’anno ad ogni studente universitario in corso in Italia: ricchi, poveri, ghepardi, bradipi, padani o extraterrestri che siano! Ma è possibile che per risparmiare una simile fortuna sia sufficiente sterminare i fuoricorso?
La risposta è ovviamente no, anzi: il fatto che i fuoricorso gravino sulle casse dello stato è una leggenda metropolitana. Il numero, le dimensioni e quindi le risorse “consumate” dai corsi di laurea dipendono dal numero degli studenti che si immatricolano, e non dal tempo che impiegano a laurearsi. I fuoricorso di norma seguono ciascun corso e/o laboratorio una volta sola, esattamente tanto quanto i regolari: non ripetono l’anno come al liceo, ma semplicemente diluiscono (per i motivi più vari) nel tempo la loro carriera universitaria. La loro laurea costa quindi alla collettività praticamente la stessa cifra di quella di uno studente regolare: forse alcuni affolleranno un po’ più a lungo le aulette studenti (dove ci sono), ma pagano più a lungo le tasse (spesso maggiorate!)  per ottenere il medesimo “servizio”: gli unici che ci rimettono sono loro. Anche se tutti i fuoricorso venissero internati in campi di rieducazione ad edificare monumenti equestri a Martone il fustigatore non si risparmierebbe un bel nulla.
Ma allora da dove viene fuori questa cifra assurda? Per farcela sono richiesti due passaggi e una fantasia al limite del lisergico. Il primo è di una semplicità assoluta. Si prende il costo medio per studente, lo si moltiplica per il numero degli studenti fuoricorso (un terzo, secondo i loro dati) e si definisce il risultato “euro bruciati”. Due numeri, un’operazione aritmetica, una definizione: ecco che compaiono magicamente i primi 4,4 miliardi di euro “sprecati”, un terzo delle risorse. Il secondo invece è meno elegante: dati a casaccio, senza fonte. Si afferma che su 290.000 laureati ben 215.000 (il 75%) sono “all’estero o disoccupati”: necessariamente ne consegue che i tre quarti delle lauree sono sprecate. Il database Almalaurea afferma però il tasso di disoccupazione a tre anni dalla laurea è del 7.1%, quindi se Repubblica ha ragione altro che fuga dei cervelli, qui c’è stato un esodo di proporzioni bibliche: quasi 7 laureati italiani su 10 sono all’estero e non se n’è accorto nessuno!
Dulcis in fundo, i tre quarti “calcolati” in fase due vengono elegantemente sommati al terzo “calcolato” in fase uno e totalizziamo così un record mondiale: sprechiamo ancora più soldi di quanti ne investiamo, un euro e 8 centesimi per ogni euro: maledetti fuoricorso!

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Commenti
14 Commenti a “Parlare di università con tono liquidatorio può rivelarsi un discorso molto scivoloso”
  1. luisacapelli ha detto:

    La serie di slide non si apre 🙂

  2. Enrico Marsili ha detto:

    Bel contributo
    Qualche esempio dall`estero per conoscenza diretta:

    Negli USA non esistono fuoricorso nelle univesita` di buon livello perche` dopo 2 (o tre) tentativi per un esame si viene messi alla porta. Ad ingrossare la massa dei dropout, vero fenomeno sociologico di quel paese.

    In Irlanda si dovrebbe andare fuori al 4 tentativo, ma si tende ad innalzare artificialmente i voti per “salvare” lo studente e non perdere i succosi finanziamenti statali. Come conseguenza si generano laureati giovani, ma di basso livello qualitativo.

    GLi studenti lavoratori stanno aumentando ovunque nel mondo “sviluppato”, sia per la (compiuta) trasfromazione in Universita` di massa, sia per la transizione al ceto povero di molte famiglie che prima si mantenevano con i debiti. I cui figli, purtroppo, devono sgobbare anche 6-8 ore al giorno in panetteria o in lavoretti sottopagati. E dunque non ce la fanno piu` a studiare nei tempi e nei programmi richiesti da quei cattivoni dei docenti (incluso il sottoscritto), che pero` devono rispettare le rigide tabelle governative di competenze, skills, e conoscenze.

    So di dire una cosa rischiosa, ma i fuoricorso e gli studenti lavoratori di basso livello sono la spia del fallimento dell` Universita` di massa, cosi` come e` praticata oggi. Il fatto e` che non capisco dove si possa andare, senza tornare indietro ad un modello elitario e poco democratico.

    Forse recuperando risorse E tagliando sedi periferiche, ma anche tante altre cose di cui si discute poco, troppo distratti dalle chiacchiere dei giornali italiani, e dal fumo che ancora avvolge strategie e decisioni del Ministero dell Universita` e Ricerca (o come si chiama).

  3. Alessandro Madeddu ha detto:

    La cosa più eloquente dell’intervento del signor ministro, credo, è proprio quella che lo rende del tutto in linea con l’andazzo retorico dell’ultimo decennio – in questo caso declinata nell’ottica della revisione delle spese e dei conteggi fantasiosi – ovvero la ricerca spasmodica di categorie che di volta in volta possano essere additate alla cittadinanza come fonte e origine di tutti i mali.

  4. maria (v) ha detto:

    Prima di desistere e rinunciare definitivamente, anch’io sono stata un fuori-corso e non per pigrizia o scarsa dedizione ecc
    ma semplicemente perché l’Università probabilmente non faceva per me. Per anni non mi sono concessa nulla, mai una vacanza, mai una lunga pausa, ho solo studiato studiato studiato, senza imparare, vedere, conoscere quasi nulla di tutto il resto. E non ce l’ho fatta, comunque. I programmi erano sterminati, (parlo del vecchio ordinamento), non sono mai stata una velocista, mi irritava la superficialità, probabilmente mancavo di coordinazione e naufragavo ogni volta sotto la mole che mi sovrastava, oltre al fatto di non riuscire a districarmi tra attacchi di panico e crisi varie. Non tutti i fuori – corso erano(-sono) dei perdigiorno, tanto per puntualizzare. Così come non tutti i disperati in età da prepensionamento costretti, loro malgrado, a condividere ancora lo stessso tetto con qualche membro della famiglia di provenienza sono vetero-infanti stra- viziati, ma andrebbero annoverati anche le colf e i badanti di tanti genitori-bamboccioni, per un discorso più equo, sulla famiglia come cappio che prima si recide meglio è. Non si capisce bene quale nuovo stimolo dovrebbe provenire dalle offese quotidiane, oltre a procurasi urgentemente dei lacci da legarsi intorno al collo.

  5. massimo ha detto:

    Sulle questioni universitarie, però, l’Unità mi appare tutto meno che un giornale sempre più schiettamente filo-governativo.

  6. Niccolò Giannini ha detto:

    Bell’articolo.

    Credo che tutto ruoti intorno al concetto di Università. L’errore più comune è quello di considerarla un’istituzione atta a creare professionisti. Niente di più sbagliato. Ci sono addirittura (purtroppo anche tra molti docenti) persone convinte che lo studente laureato sia pronto per il mondo del lavoro, che abbia acquisito un bagaglio di conoscenze tecniche e pratiche adatte a fargli sembrare qualunque ostacolo lavorativo una bazzecola, come se non fosse vero che a lavorare si impara lavorando.
    Partendo da questo presupposto, sbagliato e purtroppo diffuso nell’ambiente accademico, si generano concetti mostruosi di varia natura, uno dei quali è stato espresso dal ministro dell’istruzione università e ricerca.
    Gli studenti sono visti come un ammasso di fannulloni e – passatemi il termine – fancazzisti che esauriscono la loro funzione nel pagare le tasse e passare gli esami: se davvero vogliamo ridurre l’università italiana a questo, non vedendola come un’istituzione che sia la massima espressione della cultura di un intero paese, se continuiamo a considerare l’istruzione degli studenti solo e soltanto finalizzata a dove passeranno le loro giornate lavorative, non solo distruggiamo i principi su cui è basata la costituzione, ma abbiamo già smantellato tutte le conquiste che abbiamo conquistato con fatica.

  7. Barkokeba ha detto:

    Spesso, in Italia, si diventa fuoricorso perché bisogna provarne molte e la carriera universitaria, generalmente promette ma non mantiene (e tutti lo sanno). Quindi, nel frattempo, fai tante altre cose. Colpa degli studenti? Un fuoricorso che fa tante altre cose è uno che lavora il doppio degli altri: oltre a studiare, che so, lavora…

    Il moralismo imperante porta a ricondurre tutto alla scarsa responsabilità o impegno dei singoli. Per carità, questo c’è sempre. Ma sarà poi quello il problema? Il fuoricorso è uno che fa il furbo?

    Nella preghiera cristiana “Padre nostro” (la recitano tutti i cristiani, è nel vangelo) c’è l’implorazione “non ci indurre in tentazione”. Ecco, sull’università chi è responsabile dei fallimenti delle politiche universitarie e del lavoro ti induce in tentazione. E poi ti dà la colpa. Il presupposto di una buona politica e che ognuno si prendesse le sue responsabilità. E che non le scaricasse sui fuoricorso di turno (questo ragionamento vale in tanti ambiti della vita pubblica e la politica universitaria è solo un esempio).

  8. Mirfet ha detto:

    Da lavoratrice full-time, la mia esperienza universitaria italiana è stata un vero fallimento.
    In UK, nell’università dove poi, qualche anno dopo, ho deciso di riprovarci, sempre da lavoratrice full-time, e laurenadomi regolarmente in 4 anni con frequenza serale delle lezioni (“part-time degree” al 75%), al secondo tentativo andato male, sei fuori. La mole di lavoro è tantissima e molti sono i ritiri nel primo anno, ma la programmazione dei corsi e il materiale a disposizione è di tale qualità e quantità che è possibile farcela anche se si lavora 8 ore al giorno.

    Ho sempre amato e ricercato lo studio. E spesso, anche ora che sono tornata in Italia, ho pensato di prendere una seconda laurea. Ma l’idea di un sistema universitario che, per sua mala-struttura, mi spingerà inevitabilmente al fuori corso (e a spendere un sacco di soldi!) mi fa cambiare idea ogni volta.
    Altro che pigrizia.

  9. anna ha detto:

    Nel leggere l’articolo sul Corriere, mi è venuta voglia di chiedere se la cosa riguarderà, tra un anno, anche mio nipote, iscritto a Scienze demoetnoantropologiche a Palermo. La facoltà è in smantellamento, e mio nipote, appunto, pur essendo molto studioso e motivato, fatica a sostenere gli esami, perchè… non ci sono esami e non si trovano i professori. Pensate che il ministro Profumo avrà riguardo anche per i fuoricorso causa forza maggiore? Prevede forse un’indennità per le famiglie degli studenti coinvolti in un affaraccio del genere? Per coerenza, dovrebbe.

  10. luca ha detto:

    Ciao Anna,
    io sono uno studente fuoricorso: sono (ero) motivato e studioso, ma per essere meritevole nella nostra università, più che studioso, devi essere veloce, organizzato, preparare gli esami più semplici, scegliere i libri più brevi e meno impegnativi, cercare di fregare il/la prof. in sede d’esame.
    Nel secondo anno della mia laurea specialistica ho avuto anch’io problemi simili di mancanza di corsi e di professori: nessuno vi darà mai un’indennità per alcunché, anzi, nella mia università se vai fuoricorso devi pagare il massimo di tasse senza le riduzioni che ti sarebbero spettate per reddito o per merito.

  11. anna ha detto:

    Ci avrei scommesso, Luca. Ti auguro tutta la fortuna che meriti, compresa quella di non perdere il gusto per lo studio.

  12. Eva ha detto:

    Già: il problema dei corsi per gli studenti lavoratori. avrei voluto prendermi una seconda laurea, ma all’epoca lavoravo in una città lontana dalla sede dell’ateneo. I corsi erano quasi tutti di mattina e con obbligo di frequenza. I pochissimi corsi pomeridiani, si tenevano in orari quasi impossibili e, tutte le volte che sono riuscita a frequentare le lezioni, mi sono trovata di fronte un’aula chiusa con la dicitura: “La lezione del Prof Tal de’ Tali OGGI è soppressa”. Mi sono iscritta al primo anno, ho pagato il massimo delle tasse previste perché, in questa università, ambire a un secondo titolo accademico è considerato uno sfizio da supervips, qualunque sia il tuo reddito e, alla fine , ho dovuto rinunciare perché, con la frequenza obbligatoria, non avevo scelta: o lavoravo, o frequentavo le lezioni (e lo studio?). Quando mi sono lamentata col cosiddetto garante degli studenti, mi son vista l’ometto far spallucce e dirmi che potevo usufruire delle ore di diritto allo studio. Le famose 150 ore di “diritto allo studio”, ammesso che vengano concesse, non sono certo sufficienti a coprire la totalità delle lezioni e, per di più, trovo assurdo spingere una persona ad assentarsi dal lavoro, quando basterebbe, magari, una migliore organizzazione dell’università per favorire anche i lavoratori. Per fortuna, avevo già un titolo accademico, raggiunto comunque ben oltre i limiti di tempo previsti, perché, nel frattempo, avevo dovuto lavorare per pagarmi i libri e le tasse e, inoltre, avevo dovuto studiare per dei concorsi. Ma se il titolo lo avessi desiderato quando ormai avevo un lavoro a tempo pieno, mi sarebbe stato impossibile alle condizioni poste dall’università, pensare di laurearmi. La verità è che, anche se pubblica, l’università italiana rimane ancora un lusso per pochi.
    C’è un punto che non mi è chiaro nel pezzo di Piccolo: se è in crisi la capacità dell’università di trasformare lo studente specializzato in un lavoratore, la colpa è degli studenti fuori corso? O non, piuttosto, di un sistema formativo generalmente incapace, prima di tutto, di formare studenti altamente specializzati? In tutto questo, comunque, il tempo più o meno lungo che si può impiegare per completare gli studi, non c’entra nulla con la reale preparazione finale. Infine: è davvero il laureato che non ha le capacità e la preparazione necessarie per inserirsi nel mondo del lavoro o non, piuttosto, il mercato del lavoro in Italia che non è preparato ad accogliere figure altamente specializzate? 2w1

  13. maria (v) ha detto:

    quindi quell’apparato delle lezioni cattedratiche le quali ti fanno difficile la ragione e sospetta la verità.

    Per altro bada di non volermiti opporre quando mi verrà voglia d’andarmene; perché tu sai ch’io sono nato espressamente inetto a certe cose, massime quando si tratta di vivere con quel metodo di vita ch’esigono gli studj, a spese della mia pace e del mio libero genio, o di’ pure, ch’io tel perdono, del mio capriccio.

    (dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis, ovvero un altro paio di braccia sottratte all’agricoltura 🙂

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