Città di quarzo vs Los Angeles. Due visioni della Città degli Angeli

Pubblichiamo un articolo di Nicola Bozzi sui libri che raccontano Los Angeles.

di Nicola Bozzi

Quando ero piccolo per me il cosiddetto “sogno americano” era indistinguibile dall’icona della Statua della Libertà e dalla skyline di Manhattan, con quei grattacieli così esotici, ma allo stesso tempo più veri del vero, che gli si affollano dietro. Rispetto all’ostentata verticalità di New York la sua controparte Los Angeles mi impressionava molto meno. Con i suoi edifici bassi e radi, e la strada larga e trafficata in mezzo a farla da padrone, mi ricordava il più familiare (ma decisamente meno celebrato) paesaggio calabrese in cui da sempre incontro i miei parenti di giù.

Crescendo ho iniziato ad associare al paesaggio californiano, se non strettamente a LA, anche un certo tipo di punk rock, lo skate, il porno e i film di Larry Clark (che poi sono un mix dei precedenti). Tutte cose reiterate e abbondantemente patinate da Mtv, al punto che se ci vedi uno skater si porta dietro come minimo una carovana di cinque hummer con dentro altrettante strapponcine made in Beverly Hills/Orange County (fermate obbligate nel mondo del lusso banalizzato). Del resto, a parte la strada, l’unica immagine che tutti conoscono della città è la scritta Hollywood, simbolo di sogni irraggiungibili e, quindi, un po’ stupidi.

Per farla breve, finché non ci sono stato personalmente a me Los Angeles interessava poco. Da quando sono tornato, però (saranno stati i burritos, o forse la spaziosità quasi metafisica delle strade della polverosa downtown) la Città degli Angeli ha avuto un posto diverso nel mio cuore e, di conseguenza, mi sono dovuto documentare.

Se volete leggere un libro su Los Angeles sicuramente ce ne sono tanti. Io ne ho letti due e, per motivi diversi, li consiglio entrambi. Il primo è Città di quarzo (manifestolibri, 2008), scritto nel 1990 da Mike Davis, mentre il secondo è Los Angeles, l’architettura di quattro ecologie (Einaudi, 2009), scritto invece nel 1971 dal critico di architettura Reyner Banham.

Partiamo da Città di quarzo. Davis è forse l’unico urbanista best-seller, forse perché scrive in modo gocciolante e trasversale, sia di testa che di panza. Città di quarzo parla di tutto ciò che è LA, mettendoci il colore necessario ma senza perdere di vista i rapporti di potere strutturali, mischiando toni giornalistici con approfondimenti più estetici e senza risparmiare commenti sardonici o giudizi diretti. In un certo senso, se vogliamo fare un esempio nostrano, lo possiamo paragonare stilisticamente a Roberto Saviano (per quanto decisamente marxista). In fin dei conti anche Davis ha un gusto per il dettaglio che convive con l’ossessione per gli aspetti economici degli argomenti che tratta, e pure lui è stato accusato di eccessiva drammaticità e di metterci troppo del suo.

Aldilà dello stile, Città di quarzo è uno sguardo quasi cubista su Los Angeles, che ne cattura lo spirito da diversi punti di vista contemporaneamente. In primo luogo ne traccia una storia cronologica, arricchendola man mano di digressioni e rifrazioni varie, approfondendone le politiche, la cultura e la conformazione architettonico-urbanistica. Davis svela la città misteriosa dei film noir, del cinema sperimentale, dell’occultismo vip e di Scientology, ma denuncia anche l’architettura ostile delle gated communities (sobborghi recintati per ricchi diffidenti, rifugiati sulle colline) e persino dell’architetto decostruttivista Frank Gehry. Da attivista incazzato, Davis ci parla anche di lavoratori scioperanti, dell’economia politica del crack e del ruolo delle gang, anticipando profeticamente le rivolte che sarebbero seguite un paio d’anni dopo la pubblicazione del libro. Aldilà della sua esaustività sul tema LA, e non solo, Città di quarzo è uno di quei libri che gasa e arricchisce, una lezione su come guardare le città in generale.

Passiamo a Los Angeles di Banham. A partire dall’autore, si tratta di un libro completamente diverso rispetto a quello di Davis. Banham è british, quindi europeo, quindi a prescindere affascinato dal mito degli spazi americani, a maggior ragione per il fatto che si occupa(va) di architettura. Al contrario però di chi nel vecchio continente snobbava l’urbanizzazione sregolata su scala poco umana della metropoli californiana, lui scrive un saggio che diventa una specie di manifesto celebrativo delle peculiarità losangelene, così ottimista da meritarsi una sarcastica pagina anche in Città di quarzo. Paradossalmente, l’approccio quasi etnografico da turista di Banham (del tipo “guarda che bello, allora è così che fanno le cose qui”) sembra essere più in linea con lo spirito marcatamente individualista della città rispetto a quello più radicato del nativo californiano Davis (che invece è più “le cose sono fatte così, ma dovrebbero essere fatte diversamente”).

Per riassumere il contributo del critico britannico alla ricerca urbanistica su Los Angeles, basta guardare alle quattro “ecologie” alle quali si accenna già nel titolo: Surfurbia, le colline pedemontane, le pianure di Id e (quella penso più caratteristica) Autopia. Al racconto di queste si inframmezzano descrizioni degli stili architettonici della zona (Banham celebra per esempio il contributo delle ville di Los Angeles al movimento modernista) o approfondimenti di aspetti particolari dei costumi locali (come l’uso dell’auto a tutti i costi). Piuttosto che farvi un bignamino di cos’è effettivamente ciascuna ecologia, spenderei qualche parola proprio sulla scelta del termine, “ecologie”. Che al nostro Reyner LA piaccia l’abbiamo capito, ma lui non è uno scemo qualsiasi che si fa impressionare a caso. Quello che il critico ammira maggiormente della città è la convivenza di mondi diversi che, nonostante l’apparente anti-praticità, mantengono ciascuno il proprio equilibrio interno. Così le comunità delle colline, che per Davis sono elitiste, praticano “l’arte dell’enclave”, mentre le infernali e depersonalizzanti corsie delle autostrade diventano un ambiente a sé, un posto dove trovarsi a proprio agio mentre il mondo ti scorre di fianco.

A parte l’ovvio contrasto pessimismo/ottimismo, c’è da dire che il libro di Davis è molto meno specifico di quello di Banham. Mentre Los Angeles parla più strettamente di architettura e urbanistica, a partire dal titolo Città di quarzo è una lettura più variegata e, tra virgolette, per tutti (ma sempre saggio è). Volendo consigliare una scaletta, insomma, penso vada letto prima Davis per poi sciacquarsi un po’ via il retrogusto apocalittico con la presa bene di Reyner, che anche a livello tattile ha una copertina più flessibile ed è più leggero, nonché scritto più arioso e meno fitto.

Quali che siano le vostre preferenze letterarie, però, un viaggio a Los Angeles se vi scappa di andare oltreoceano vi consiglio di farvelo. Che siate dei fan della strada o no, che vi piaccia Gehry o no, che vi piaccia il cibo messicano o no, la città degli angeli è così porosa e sgranata che, in quel vuoto sconfinato, si può trovare di tutto. E quindi anche quello che sognate voi.

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  2. […] quella terra dei sogni che poi, non a caso, produrrà Hollywood. Da quresto punto di partenza, dal mito di Los Angeles Davis prende le mosse per raccontare molte cose sull’America degli anni ’90 e sul futuro, e, come per Into the wild, il libro merita […]

  3. […] diario e un manifesto, è reportage e poesia. Una miscela di forme contraddittorie, partendo dalla Città di Quarzo dell’urbanista Mike Davis, riunite nella propria visione, nei rifiuti che si reinventano […]



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