Due mondi accomunati dalla guerra: quando vivere o morire dipende dalla sorte

Oggi ricorre l’anniversario dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle. Pubblichiamo un estratto da «New York, ore 8.45. La tragedia delle Torri Gemelle raccontata dai premi Pulitzer», a cura di Simone Barillari. Traduzione di Martina Testa.

di C.J. Chivers
30 dicembre 2001

Kabul. Il cecchino era seduto al riparo di alcuni sacchi di sabbia sul tetto dell’ambasciata americana mentre il sole tramontava dietro i monti Paghman e il cielo cominciava a oscurarsi. Da un fornelletto da campo accanto alle sue ginocchia veniva puzza di gasolio e un sibilo costante.

Il soldato era il sergente Shane B. Schmidt, del corpo dei marine. Quello era il suo bunker. Alla sua sinistra c’era un fucile a otturatore girevole con il mirino telescopico. Alla sua destra, cinque bastoncini di zucchero bianchi e rossi appesi a un filo. Il sergente ­Schmidt era in vacanza nel Wisconsin quando gli aerei dirottati avevano abbattuto il World Trade Center. Guardare la scena in diretta televisiva, ha detto, «mi ha fatto sentire come un pugile che non riusciva a rispondere ai colpi». Ora davanti a lui si stendeva la capitale dell’Afghanistan, liberata dai talebani e silenziosa come la mezzanotte a Central Park. Per il momento si sentiva soddisfatto. «Le forze della coalizione?», ha commentato. «Diciamo soltanto che sono state piuttosto efficienti nel disinfestare questo posto dai ratti».

Questo è l’ultimo di una serie di ricordi che per tutta la vita sarà impossibile cancellare. Il cielo diventava sempre più buio. Erano uscite le stelle. Era la vigilia di Natale e c’era quel tanto di pace che bastava per riposare un po’. Ma il viaggio era cominciato in maniera ben diversa.

La prima notte, tre mesi e mezzo fa e a undicimila chilometri di distanza, l’agente Eric Josey girava in mezzo alle macerie fra Liberty Street e West Street: una sagoma dalle spalle larghe illuminata dalla luce di un incendio. Lo spazio dove sorgevano le torri era ridotto a una montagna di detriti in fiamme da cui si alzava una colonna di fumo nero.

L’agente Josey era intontito. Aveva la faccia impiastrata di cenere e sudore. Faceva qualche passo, si sedeva, si alzava e riprendeva a camminare. Tre membri della sua squadra di pronto intervento erano dispersi da qualche parte in quel cumulo di rovine. Attorno a lui c’erano autopompe dei vigili del fuoco distrutte. I lampeggianti e le radio erano ancora in funzione ma la maggior parte degli equipaggi era morta. Poco più in là un poliziotto in abiti civili coperti di macchie ripeteva il nome del fratello. L’agente Josey ha distolto lo sguardo. «È tutto il giorno che siamo qui e non riusciamo a trovare nessuno», ha detto, mentre un velo di vapore gli si alzava dalla nuca e dalle spalle. «Sono tutti morti».

New York e l’Afghanistan, mondi paralleli fatti di macerie, lavoro e dolore. Viaggiare dall’una all’altro – trascorrendo dodici giorni a Ground Zero, tre mesi in Asia centrale e in Afghanistan – vuol dire percorrere una successione di scenari popolati da tribù diverse ma ugualmente provate.

Osservata da lontano, l’escalation degli eventi filtrata da radio, tv e giornali si poteva mettere in qualche modo in prospettiva, mediante analisi e interpretazioni provenienti da vari punti di vista. Da vicino, però, tutto il contesto tendeva a scomparire. La devastazione di New York e quella dell’Afghanistan, e la guerra che le ha unite, diventavano un insieme sfocato di persone e impressioni. Non c’è una singola scena in grado di riassumere il senso del tutto, o quantomeno è impossibile trovarla fra le pagine dei taccuini o in mezzo al flusso di ricordi che si accavallano.

New York. Una tremenda vampata color platino e oro nel punto in cui l’aereo è scomparso infilandosi dentro la torre, e poi il boato dell’esplosione e le urla della folla che comincia a scappare. Le madri in fila sulle scale dell’asilo nido della Trinity Church avvolta dal fumo, con i bambini in braccio e pronte a uscire all’aria aperta, ignare del fatto che di lì a poco sarebbe crollata anche la seconda torre. Una vecchietta su una sedia a rotelle che viene spinta giù per Greenwich Street – intravista per un attimo e subito scomparsa in mezzo a un’altra massa di gente in fuga, mentre arriva la seconda ondata di polvere acre. Un capo dei pompieri che porta fuori, zoppicando, il sacco di plastica con il corpo senza vita di uno degli uomini del suo battaglione. Un capitano della Guardia Nazionale che gira con la torcia elettrica in pugno per i sotterranei del World ­Trade Center completamente bui, e il fascio di luce che illumina per un attimo la faccia del pupazzo di Bugs Bunny nel negozio della Warner Brothers.

Una parola scritta sul casco di un operaio: «Guerra».

Afghanistan. Un ragazzino che getta una granata in un fiume marrone – pluff, e un geyser di spruzzi – e poi ci si immerge alla ricerca di pesci storditi. Un denso velo di polvere nella luce del tramonto mentre la fanteria dell’Alleanza del Nord si muove da Bangi a Khanabad, i soldati irrequieti che sperano di prendere la città in tempo per l’interruzione del digiuno per il Ramadan. Due soldati talebani stesi a terra supini nel bazar di Kunduz, sulla fronte buchi grossi come monetine da dieci centesimi, segni dell’esecuzione avvenuta poche ore prima. Un bambino di dieci anni che si è visto distruggere la casa dalle bombe americane e descrive i dolori che prova a due arti che non ha più. Un generale dell’Alleanza, tanto bello da poter apparire sulla copertina di una rivista di moda, che si passa il filo interdentale dopo cena, ammettendo di essere un po’ confuso. «Per tutta la vita ho combattuto», dice il generale Atiqullah Baryalai, gli occhi castani fissi nel vuoto, l’avambraccio destro rigato dalle cicatrici. «Adesso ci tocca governare. Per farlo dobbiamo riflettere molto».

A volte gli appunti e i ricordi contengono il distillato di un certo tema. A volte rispecchiano gli spezzoni dei programmi ascoltati alla radio, quando la radio a onde corte funzionava. Fra l’uno e l’altro potevano passare minuti oppure settimane. Raccontano la paura, la spossatezza, il dolore, la rabbia, il coraggio, le carneficine, i tradimenti, l’angoscia, la fame, la disperazione, la malattia, lo smarrimento, la solitudine e il rimpianto. Raccontano la noia, il futuro incerto.

Raccontano la gioia. Pochi giorni prima che il nuovo governo afghano prestasse giuramento, una fila di portantini afghani stava attraversando il passo Salang scarpinando ad alta quota nella catena dell’Hindukush, in mezzo alle rocce e alla neve, quando un aereo da guerra americano gli è passato sopra la testa. I portantini erano uomini poveri che avevano vestiti lerci e una secca tosse invernale. I talebani erano stati sconfitti. Gli afghani stavano per riavere la loro nazione.

L’aereo gettava grappoli di razzi luminosi, quattro alla volta per chilometri e chilometri, lasciandosi alle spalle una scia calante di fumo e luce nella conca di aria montana. «È come quando se ne sono andati i russi», ha detto un portantino, senza il minimo affanno nonostante i tremila metri d’altezza. «Significa vittoria! Vittoria!»

Forse aveva ragione.

A meno che uno non lo chiedesse al cecchino. («Non è finita», ha detto il sergente Schmidt. «Ovunque ci sia il terrorismo, è lì che dobbiamo andare».) A meno che uno non lo chiedesse al poliziotto. (La squadra dell’agente Josey aveva donato le spalline blu delle proprie uniformi all’esercito, perché venissero incollate sulle bombe dei caccia. Josey ha detto: «Hanno ancora tante bombe da sganciare».)

Sono mondi paralleli, Manhattan e l’Afghanistan, pieni di contrasti e di tratti in comune. Impartivano continuamente due lezioni: che la verità dipende dalla tribù a cui si appartiene, e che il potere della sorte è quasi assoluto.

Cos’era successo? Dipende da chi doveva rispondere alla domanda, e di tribù con qualche interesse in gioco ce n’erano così tante che era facile perdere il conto: i politici, i poliziotti, i Pashtun, i profughi, il clero e i Berretti Verdi; i pompieri, gli uzbeki, le vedove, gli orfani, i mutilati e i marine. Ciascuno forniva una versione diversa, anche quando parlavano dello stesso fatto.

Un soldato talebano in un letto d’ospedale ha alzato il lenzuolo per mostrare i segni delle due pallottole che l’avevano colpito all’inguine. Ha detto che un soldato dell’Alleanza gli aveva ordinato di gettare le armi e, quando lui l’aveva fatto, quello gli aveva sparato proprio lì. Sarebbe stata un’intervista come un’altra, se l’interprete, che parteggiava per l’Alleanza, non si fosse reso conto che veniva trascritta.

«Quest’uomo mente», ha detto. «Non lo ascolti. Dice soltanto bugie».

Il talebano ha implorato antibiotici e antidolorifici, e l’interprete se n’è andato.

Ogni tribù aveva i suoi portavoce, dal sindaco Rudolph W. Giuliani a un ladro di macchine tagiko con una gamba sola. Alcuni di questi erano pazzi. Altri mentivano. Molti erano onesti e capivano perfettamente la situazione. C’erano poche regole da seguire per interagire con ciascuno di loro. Ma un ex soldato di fanteria britannico, che conosceva il paese ed era pronto a condividere la sua riserva segreta di whisky, ne aveva una ben precisa: ogni volta che un soldato afghano ti dà una cifra, ha detto, tu togli sempre uno zero.

Spesso questa regola funzionava, più o meno: un comandante dell’Alleanza ha affermato di avere a sua disposizione cento uomini, ma di fatto se ne sono trovati solo undici. A volte non bastava: voci su una strage a opera dei talebani nei pressi di Kunduz – «Duecento persone massacrate, se non di più», avevano detto i soldati afghani – hanno fatto scattare una ricerca che ha avuto come esito la testimonianza di un solo pastore che sapeva di sei vittime.

O magari le cose ci sfuggivano. Considerando le poche ore di sonno e le barriere linguistiche, poteva tranquillamente capitare. Ci perdevamo quasi ogni giorno. Andavamo sempre da qualche altra parte.

Le diverse interpretazioni sembravano non finire mai. Alcune erano semplicemente sintomo di ignoranza, come quando l’amministrazione cittadina ha dichiarato che a Ground Zero non c’era più bisogno di volontari mentre i volontari in mezzo alle macerie avevano un bisogno disperato di rinforzi. Altre volte rivelavano la distanza fra due culture impegnate in una guerra.

Come nel caso dell’operaio che è arrivato a West Street, forse il quarto giorno, con una salopette di tela e una felpa che gli tirava un po’ attorno al collo muscoloso. Aveva la stoffa del leader. Ha messo insieme una squadra di netturbini e per dodici ore li ha fatti lavorare più sodo di chiunque altro nei dintorni. Si chiama Anthony. Vorrebbe chiudere tutti i musulmani d’America in un campo di concentramento.

«Guarda cos’hanno combinato qui», ha detto, sedendosi a mangiare insieme ai pompieri in mezzo ai vetri rotti e all’immondizia. «Questo era il nostro quartiere».

I posti cambiano e cambia la prospettiva, c’è sempre un altro modo di vedere le cose.

Sei settimane dopo, ecco una donna musulmana seduta con aria compunta su una panca, nella valle di Fergana, in Uzbekistan, dove in settant’anni di occupazione i russi erano riusciti a compiere quasi ogni danno possibile. I comunisti avevano cercato di mettere fuori legge l’Islam, rovinando al tempo stesso l’economia e negando ai cittadini i loro diritti civili. La repressione aveva generato i basmachi, i guerriglieri islamici e alcuni dei precursori dei mujaheddin.

Dopo che l’Uzbekistan aveva raggiunto l’indipendenza, nel 1991, il presidente Islam Karimov si era scagliato con rinnovato vigore contro la religione. Aveva messo in carcere chi pregava in pubblico o faceva circolare libri religiosi. A Namangan, la città delle donne, più di mille uomini che cercavano di ricostruire una moschea erano stati arrestati. Proprio la settimana prima due erano stati riportati a casa morti.

Qui sembrava che fossero stati messi in pratica i sistemi di Anthony: i musulmani erano rinchiusi nei campi. Ma qual era il risultato? Mentre il regime di Karimov diventava sempre più oppressivo, i bambini chiedevano l’elemosina nei vicoli e la resistenza ricominciava a organizzarsi.

Alcuni combattevano nella valle di Fergana, altri passavano il confine con l’Afghanistan, dove i guerriglieri più esperti li addestravano e Al Qaeda gli forniva le armi. Era cominciata come una lotta contro l’oppressione, ma si erano ritrovati fianco a fianco con teste calde provenienti da tutto il mondo musulmano: pakistani, ceceni, tagiki, arabi, un paio di occidentali; i soldati semplici della jihad globale.

Il marito della donna era stato sorpreso mentre lavorava alla costruzione della moschea e messo in carcere dopo un processo segreto. Lei non poteva permettersi il riscaldamento, la carne o l’acqua corrente, ed era troppo povera per mandare i figli a scuola. Ha detto che non era dalla parte dei terroristi ma capiva cosa li spingeva a combattere. Il tutto suonava familiare. «Noi abbiamo studiato, e sappiamo che l’America ha fatto una rivoluzione per guadagnarsi la libertà», ha spiegato. «Quando avete fatto questa rivoluzione, eravate ridotti male come noi?»

Ovunque si andasse, era quasi sempre colpa di qualcun altro.

Altre sei settimane dopo, in una scuola superiore di Kunduz che in passato era stata requisita dai talebani, gli ex soldati del regime erano ancora in circolazione. Si erano semplicemente cambiati il copricapo, sostituendo al turbante nero il pakool marroncino dell’Alleanza, e una dozzina di questi voltagabbana accompagnavano due visitatori lungo il corridoio. Sopra una porta c’era un cartello che diceva: Arabi. Sopra un’altra: Vietato l’ingresso ai non autorizzati. Sopra una terza: Uzbeki.

Questa era una caserma riservata ai talebani provenienti da paesi stranieri. Mostrava che l’arroganza era diventata disperazione.

Forse un tempo questi guerrieri della jihad incutevano terrore, ma alla fine avevano paura persino a uscire per strada. Negli ultimi giorni di bombardamento, prima di passare al nemico o arrendersi, avevano usato le camerate come gabinetti e mangiato i piccioni che entravano dal tetto aperto. Si erano lasciati alle spalle mine antiuomo e scritte spavalde sui muri: L’ascesa di Osama bin Laden, o Viviamo per la jihad. Avevano abbandonato Kunduz quasi senza opporre resistenza.

Anche i loro ex compagni ne parlavano con disprezzo. «I talebani stranieri erano cattivi», ha detto uno di quelli che avevano cambiato bandiera, Jawid Gaurd, quindici anni, le guance coperte di una peluria da ragazzino, un kalashnikov in spalla.

Suo padre, Abdullah Gaurd, era un comandante talebano dell’Afghanistan, e il giorno dopo era fermo ad aspettare in cima alle scale di casa mentre le sue guardie del corpo facevano entrare gli ospiti. Ha parlato in maniera convincente, toccando vari punti della nuova linea politica del partito: la pace, i diritti civili e la democrazia, gli alleati dell’Afghanistan in Occidente.

Solo una volta ha fatto una gaffe, quando si è messo a ricordare quante persone aveva ucciso. Arrivato a più di cento, se ne è reso conto e si è interrotto. «Ma mai nessun civile», ha detto, agitando enfaticamente un dito. «Mai. Neanche uno. Lo può chiedere a tutta la gente della città. Le diranno: “Abdullah Gaurd è un grande amico del popolo afghano”».

In città, al sentire il suo nome, la gente aggrottava le sopracciglia.

In campagna c’erano dappertutto segni di morte. In certi punti, le strade erano fiancheggiate da tombe appena scavate con sopra bandiere bianche e verdi, simbolo dei martiri, che garrivano al vento. In altri punti, si vedevano i resti arrugginiti dei carri armati sovietici o crateri di bombe circondati da frammenti di vetro scintillanti.

Qua e là le bombe avevano mancato il bersaglio, e gli afghani scavavano fra le macerie delle proprie case in cerca dei civili morti. Era proprio come vedere la polizia e i pompieri a New York, solo che qui i soccorritori non avevano saldatrici o gru, né soldi per comprarsele, e nessuno che gli passasse bottigliette di Gatorade e panini al tacchino o che li applaudisse quando staccavano per andarsi a fare qualche ora di sonno.

C’erano posti in cui le bombe non erano esplose, e restavano nei cortili delle case. A Charykari, Muhammad Baz ha fatto segno dalla porta e la gente è entrata nel suo salotto e ha visto l’enorme pinna che sbucava dalla bomba. È stato uno spettacolo piuttosto improvviso. Quando uno dei visitatori ha fatto un passo indietro, il signor Baz l’ha guardato torvo, liquidandolo con un gesto secco della mano. «Puah!», ha detto. «L’ha buttata qui il vostro paese, e voi avete paura».

Era attorniato da bambini che scuotevano la testa. L’intervista è continuata per strada.

La gente è abituata, per tradizione e per esperienza di prima mano, a considerare certe doti come decisive per la sopravvivenza. La capacità di giudizio, la buona forma fisica, la prontezza di riflessi, una certa dose di abilità manuale, in teoria sono tutte qualità che dovrebbero assicurare a una persona in pericolo qualche speranza di cavarsela.

Ma in innumerevoli casi, a New York come in Afghanistan, queste doti non hanno contato nulla. È stato decisivo soltanto il caso, e la fortuna e la sfortuna sono state rappresentate soprattutto dalla posizione dei piedi di una persona nel momento in cui sono arrivati gli aerei, in cui sono crollati i palazzi o le bombe sono atterrate su una casa.

L’11 settembre i piedi di un uomo erano all’incrocio fra Liberty Street e Church Street. Quell’uomo è sopravvissuto. Quelli di un altro erano in un ufficio al 65º piano della seconda torre. Lui è morto. Cos’è stato a stabilire che uno fosse in un posto, uno in un altro? In fondo, niente. Era impossibile scegliere di essere nel punto giusto o in quello sbagliato, perché quando ognuno ha preso la propria decisione non poteva sapere quale ne sarebbe stato l’esito, da lì a pochi minuti; così come, quando una famiglia afghana è scappata a ripararsi da un attacco aereo, non poteva sapere che fra tutte le bombe che sarebbero piovute nel quartiere, proprio quella che avrebbe sfondato il tetto di casa loro non sarebbe esplosa.

L’incapacità di giudizio o l’ignavia avranno potuto causare la morte di qualcuno, ma non è detto che la sagacia e la prestanza fisica li avrebbero salvati. È stata questione di fortuna, e ci sono stati momenti in cui la sorte è sembrata la forza più determinante del mondo, più potente della fede dei soldati della jihad nella volontà di Dio, più potente delle bombe americane.

Ma ci sono state delle eccezioni.

La mattina dopo la caduta di Khanabad, uno snello comandante dell’Alleanza di nome Rhamazhoni stava accanto al cratere lasciato da una bomba sull’autostrada. Una dozzina dei suoi uomini erano stati uccisi nei campi di riso un paio di settimane prima, e ora che le linee del fronte si erano spostate era venuto a dargli una degna sepoltura. La prima vittima, Rahim Ullah, è stata trasportata fino al bordo della strada. Qualcuno gli ha deposto una coperta sul viso incrostato di fango. Era un uomo grande e grosso. Ci sono voluti sei soldati per sollevare il suo cadavere.

Rhamazhoni ha raccontato che era morto così: gli uomini erano stati sorpresi da un’imboscata dei talebani contro il loro convoglio e si erano sparpagliati per i campi. Alcuni avevano combattuto fino a quando erano durate le munizioni, poi avevano cercato di scappare. Alcuni erano feriti e non ce l’avevano fatta, e i talebani li avevano raggiunti e giustiziati.

Il comandante era riuscito a salvarsi e quel soldato no, e il motivo era così elementare che lo si sarebbe potuto capire anche solo giocando ad acchiapparella nel cortile della scuola. «Io ho corso più veloce di lui», ha detto Rhamazhoni.

Queste erano le costanti: proprio quando ti sembrava di aver compreso un certo meccanismo, qualcosa ti dimostrava che ti sbagliavi. Rischiavi sempre di perderti i momenti più importanti perché eri in cerca di qualcos’altro.

La neve scricchiolava sotto gli scarponi da montagna. Durante una pausa nella traversata dell’Hindukush, i portantini si sono radunati per chiedere da dove venivano i due stranieri. «Londra? Germania? America?», ha detto uno.

Noi stavamo cercando di rimettere il gruppo in marcia per arrivare a Kabul il prima possibile.

«New York», ho risposto frettolosamente, sul punto di andarmene.

Il portantino mi ha bloccato prendendomi per un gomito, facendo in modo di incrociare il mio sguardo. Quando ha parlato ha usato la pronuncia lenta di chi si sta avventurando in una lingua che non gli è familiare, ma vuole farsi sentire. Ha annuito – un cenno così profondo che poteva quasi essere un inchino – poi ha portato le mani fino all’altezza degli occhi e le ha abbassate, sventolandole, fino alla vita.

Il significato era ovvio, anche in mezzo a quelle montagne altissime in un angolo remoto della terra. Le torri che cadevano.

«New York», ha detto il portantino afghano. «Noi dispiace molto».

© The New York Times 

Commenti
6 Commenti a “Due mondi accomunati dalla guerra: quando vivere o morire dipende dalla sorte”
  1. Luis Dapelo ha detto:

    E l’11 settembre 1973 non si ricorda???!!!

  2. Alessio ha detto:

    Ecco appunto. Aspettiamo commemorazione dell’11/9/1973

  3. Enrico Marsili ha detto:

    Francamente, mi sono un po` stufato di queste continue rievocazioni e anniversari. Si e` detto quasi tutto, forse troppo, non sarebbe meglio lasciar perdere questi esercizi di necrofilia giornalistica e lasciare fare agli scrittori? E vale anche per l` altro 11 settembre, e anche per il 25 aprile, il 12 Luglio, e il 3 Marzo (gli ultimi due sono casuali, ma da qualche parte ci sara` una tragedia/guerra/eruzione da ricordare, no?).

    Penso che ricordare e capire non sia traducibile con riesumare.
    Mio figlio leggera` sui libri dell` 11 settembre, come io ho letto del 25 aprile. L` evento appartiene a chi lo ha vissuto in prima persona, non a chi lo guarda morbosamente attraverso la lente del giornalismo (in questo caso del necrofilo giornalismo USA).
    Abbiamo gia` un futuro estremamente complicato davanti a noi, e mi dispiace che alcune delle migliori energie intellettuali del pianeta siano dedicate al solo passato, in una coazione a ripetersi che sfianca. O si vuole lasciare il futuro agli ingegneri e agli scrittori di fantascienza?
    Con stima e affetto per gli ottimi contributori di M&M.

  4. Donato ha detto:

    Enrico

    Le ricorrenze tristi o piacevoli si sono sempre vissute e celebrate sin dagli albori dell’umanitá!
    Un esempio: son sicuro che quando tuo figlio compie gli anni minimo un pensiero glielo dedichi o no?
    Sono comunque d’accordo che le ricorrenze o anniversari, non debbano essere vissute “come necrofilia giornalistica” e nemmeno bisogna sentirsi obbligati a commemorare fatti della storia solo per uno scrupolo morale, ma si da il caso, come giustamente accennavi, che molte persone hanno vissuto in prima persona certi eventi, io per esempio che sono cileno, ho vissuto la morte, la sparizione, la tortura, gli abusi piú abbietti e anche l’esilio, di persone a me care! Mi viene dunque spontaneo che ogni 11 settembre penso a tutto questo, e il peso del dolore é cosí grande che, uniti ad altri che hanno vissuto gli stessi tristi fatti del golpe come me, nasca spontanea la ricorrenza per molteplici motivi, tra questi spicca il forte ricordo delle persone care ormai perse come monito a ricordarci sempre che certe tragedie umane non debbano accadere mai piú !
    Evidentemente se certe cose ti annoiano é perché le hai solo vissute come “necrofilia giornalistica delle piú putrefatte” e la superficialitá con cui affronti il dato é abbastanza raccapricciante!
    Spero che tuo figlio, quando verrá a conoscenza di certi fatti storici gravi li affronti con sensibilitá e profonditá d’animo! Son sicuro che sará un uomo migliore, attento al suo prossimo piú che ai suoi averi!

  5. davide calzolari ha detto:

    cit e.m.

    “””Francamente, mi sono un po` stufato di queste continue rievocazioni e anniversari. “”

    quoto!

  6. Donato ha detto:

    giá! il pericolo di annoiarsi é sempre in agguato quando il mondo si vive leggendolo sugli articoli o vedendolo in televisione.. ah..peró adesso c’é anche internet!

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