Recensioni in forma di suggestione – 05


Ritratto eseguito da Francesco Quadri

Questa rubrica racconta le suggestioni nate dalla lettura dei libri di autori siciliani. Qui gli altri articoli.

Il carrubo (Giuseppe Bonaviri)

Il piccolo Giuseppe se ne stava sdraiato sotto un carrubo, fissando alcuni uccelletti che sembravano portati dal vento per ubriache rotte che parevano più ghirigori arabeggianti. Andavano su e giù secondo un moto affatto uniforme, che insinuava nella mente del bambino una cocciuta idea di programmaticità del caos, come se, dato che una forma nel mondo terreno deve assumerla anche ciò che è casuale, quella forma, per l’appunto, fosse stata decisa da un ordine superiore agli uccelletti. Ma anche allo stesso Giuseppe e al carrubo.

Era una calda mattinata estiva e, sotto la chioma dell’albero, Giuseppe si godeva l’ombra fresca che sfocava di nero il giallo pagliericcio del terreno. Una leggera brezza gli solleticava gli avambracci, nudi come il torace che aveva scoperto dalla canottiera per potersi godere il contatto con l’erba fresca. Si alzava a sedere per gioire appieno del venticello, e si ributtava giù quando il soffio, lento ma costante, gli infreddoliva, per quanto era possibile sentire freddo nel boschetto di Ballarò, le spalle scoperte. I colori del paesaggio – tagli netti in lunghissime linee verticali e orizzontali – cozzavano appena con l’armonia complessiva che si era infiltrata nell’animo del piccolo Giuseppe, incline a concedere un’apparente fuga asimmetrica soltanto al volo degli uccelli.

Sua zia era solita dirgli, con tono di reale timore, di non addormentarsi sotto un carrubo o avrebbe sentito “alte grida e visto gli spiriti dei trapassati”. Diceva così in base a popolari credenze che attribuivano, per dirla in termini scientifici, proprietà allucinatorie a delle presunte esalazione che provenivano da non si capiva quale oscuro anfratto del tronco del carrubo. O della chioma, chissà. Giuseppe sorrideva dei timori ignoranti della zia, e mentre osservava quei piccoli volativi in cielo disegnare scarabocchi, gli capitò di addormentarsi. E in sogno – o in quello che a lui, una volta svegliatosi, parve essere stato un sogno – vide le fronde dell’albero aprirsi a sipario su un cielo che intanto si era capovolto, e cominciava a perdere il suo colore acceso, colando, come se sudasse a causa di un sole sempre più grande e più grande. Giuseppe vedeva quella stella diurna ingigantirsi sempre di più, bruciando il sipario-chioma del carrubo, squamando persino la sua pelle, eppure non aveva paura. Sentiva solo un lieve bruciore di stomaco, e non riusciva a decidersi se fosse colpa dell’incandescenza dell’astro copernicano, o una sensazione dovuta allo svuotamento di cui era vittima (o del riempimento).

I rami del carrubo persero le foglie, che si staccavano ma non cadevano, venivano prese dal vento e portate verso gli scoppi di fuoco del sole, e lì bruciavano con un rumorino cinereo e un po’ di fumo. I rami, nudi, rinsecchirono e si fecero dita gracili eppure cariche della forza della natura, antichissima, senza tempo. Quelle stesse dita presero Giuseppe per la collotta e lo mostrarono al sole, squamato e sempre più vuoto, e quella luce accecante disegnava migliaia di ombre strane sul dorso del telo bianco che una volta era stato il cielo. Animali mostruosi (o meravigliosi) figli di accoppiamenti fra specie, sirene, cavalli lunari, teschi in forma di donna, uccelli peregrini, tutto un turbinio di amore vero, se è vero che nell’amore barbaro tra specie si annulla ogni odio.

A Giuseppe, a vedere quel balletto incestuoso, venne un’idea bizzarra, blasfema quasi. Era piccolo, è vero, ma grande abbastanza per sapere degli umori del sangue quando passava Angelica, la sua bianchissima Angelica, i cui fianchi, tondi come crateri lunari, gli mandavano il sangue alla testa. E non solo. Sapeva dello smottamento che provava quando lei sorrideva, leggendo le poesie di Ibn Hamdis, consapevole che non si torna mai dove il cuore è stato lasciato “a guardia di una dimora”. Con il suo lieve accento arabeggiante, bianca come la ricotta, o la luna, sapeva che non si fa ritorno se si vuole continuare a cantare dell’esilio, e a ricordare.

Era piccolo Giuseppe, ma sapeva dell’amore carnale, lo immaginava, lo praticava in solitudine, e a vedere la promiscuità della natura che le dita del carrubo, e lo spettacolo del sole infuocato, gli avevano messo innanzi, gli venne quella bizzarra idea di fare l’amore con Dio, che fosse possibile fare l’amore persino con Dio. A quel pensiero vide la terra squarciarsi, e un ranuncolo germogliare. Lo vide crescere istantaneamente, e vide Angelica sbucare fuori dai suoi dodici petali di color bianco, candidi. Angelica era bella, eppure non aveva le solite abusate fattezze umane, era piuttosto… trasparente! I raggi solari l’attraversavano come pulviscolo, come la polvere che non solo siamo stati e ridiventeremo, ma che non abbiamo mai cessato di essere. Come una specie di ologramma investito dalla luce solare, per contrappasso, si avvicinò al piccolo Giuseppe, che intanto si era svuotato completamente (o riempito) e del quale non restavano che parole di cosmogonia, e lo baciò con tutto il corpo, inghiottendolo con la bocca. L’amore con Dio è totale, pensò Giuseppe, e una carezza è fondersi alla sua epidermide, uno sguardo è entrargli negli occhi, un bacio è un morso, l’amore un’unione. Stettero così un tempo indefinito perché il tempo nella natura si fa immobile, istante in evoluzione ciclica e non lineare, continuamente interrotto. Puntiforme. Fu così che Giuseppe divenne una creatura creante.

Quando si risvegliò – o credette di risvegliarsi – il sole tramontava dietro i monti di Mineo, e la chioma del carrubo, sferzata dal vento, suonava un motivetto tenue di fruscii. L’erba rinfrescata della sera gli solleticava la schiena mentre la sua fanciullezza si perdeva (o si espandeva) spargendosi nella terra attraverso le dita che conficcò al suolo. Quando le tirò fuori erano umide. Angelica, in quel momento, lo chiamò dal muretto davanti al casolare, ché la cena era pronta.

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