In

Pubblichiamo una recensione di Andrea Cirolla su Gli impiegati vanno di fretta di Silvio Perego (Lampi di Stampa). Foto di Francesca Woodman.

Ultimamente mi sono svegliato presto la mattina. E non c’entra niente Proust, è solo che per delle cure termali, cui ho dovuto sottopormi in una località appena fuori Bergamo al centro della bassa val Cavallina, ogni giorno per due settimane sono uscito di casa all’alba, rompendo un’abitudine sonnacchiosa dettata dalle sere e dalle notti tirate lunghe sui libri e nel lavoro. Nel percorso da casa alle terme e dalle terme a casa, in auto ho ascoltato giorno dopo giorno rassegne stampa su rassegne stampa, dai notiziari Rai a quelli di Radio24, procurandomi ulcere se non allo stomaco (ma ci manca poco) sicuramente al cervello e all’area deputata all’indignazione. Dal recente Laziogate e il circo grottesco di fine berlusconismo annesso, nutrito di ostriche e Champagne, ben rappresentato da feste dei porci e feste della merda; alle lamentele di politici passati e presenti sulla scandalosa magrezza dei loro stipendi da ennemila euro – ho ingollato tutto schivando fughe e distrazione, infliggendomi un bagno in un’attualità paradossale, avanguardia perpetua su schema consolidato, un male certo e disarmante. Un male ingombrante, che brucia la possibilità del bene, anzi la fagocita, almeno e sicuramente in ambito politico. E dove il bene si scherma dietro uno sguardo a distanza di sicurezza, là può pian piano opacizzarsi fino a non vedere più oppure conservarsi incorrotto, ma inerte e incattivito.

Negli stessi giorni, tra cure termali e overdose da pessime notizie, ho letto e riletto un libro che rappresenta bene la duplice postura dello sguardo sul declino politico e morale del Paese. Gli impiegati vanno di fretta (2012), di Silvio Perego: uscito come “Fuoricollana” nella serie di “Festival”, interessante collana di poesia italiana contemporanea edita da Lampi di Stampa e a cura di Valentino Ronchi.

Prima di tornare a discutere di quel dualismo, qualche nota sull’opera. Il volume è diviso in quattro sezioni tra le quali non si riscontrano particolari differenze: sono piuttosto omogenee sul piano dei contenuti così come per lo stile, che è scarno, diretto, per niente estetizzante. Una sezione prosegue ciò che si interrompe nell’altra, si potrebbe pensare a un unico flusso di scrittura ripartito in quattro tempi. Questa divisione ha almeno un effetto palese, quello di dare alla lettura un ritmo prima che un orientamento, e forse la sua ragione sta allora nella composizione in momenti diversi delle singole parti.

È sicuramente così per “Golden Suite 411”, che apre il libro, datata “settembre 2005” e dunque antecedente se non la stesura almeno l’uscita dell’esordio poetico di Perego: Jazz (2009). Si tratta di un poemetto frammentato, una «suite», appunto, composta da poesie autonome e di lunghezza varia, dalla metrica sciolta, guidate da una musica irregolare perché improvvisata, con versi liberi, alcuni di una parola e altri lunghissimi, che percorrono l’intera pagina.

Perego non utilizza strumenti come rime, assonanze e allitterazioni, e la sua musica non è mai fine a se stessa, ma si sprigiona, se si sprigiona, nel sentimento delle parole e dei testi, declamando. Figure sintattiche come enumerazioni e ripetizioni prevalgono su altri accorgimenti retorici, fissando un’immagine o l’oggetto di un’invettiva. Del resto quella di Perego è una poesia di denuncia, come già notava Ottavio Rossani nella nota introduttiva a Jazz.

Le poesie hanno un taglio narrativo. Rappresentano una visione – spesso una situazione di vita, osservata o vissuta, in appartamento o sulla strada – e da lì sviluppano riflessioni cupe e una critica corrosiva della contemporaneità.

Il discorso vale oltre la prima sezione, ovvero anche per le altre tre, che possono essere considerate in gruppo come un corollario della «Suite». Esse tornano fondamentalmente sulle stesse tematiche, hanno tutte pressapoco la stessa lunghezza (10 pagine per 10 componimenti tranne l’ultima sezione, che ne conta 9) e sono esplicitamente scandite, con titoli o con una numerazione progressiva delle poesie.

Nella prima sezione si nota una maggiore coerenza dei testi, grazie a rimandi interni che suggeriscono una sorta di struttura dell’improvvisazione. Ripetuta all’inizio, centralmente e alla fine è la questione del mondo, che «rimane complessa»: «la faccenda del pianeta è più grave del previsto». Il mondo è osservato da una finestra, «dalla finestra della stanza 411». Lo sguardo dalla distanza è emblematico, è una figura che nelle sue trasfigurazioni sta alla base di tutto il libro (altrove per esempio è la vetrata di un bar).

La finestra significa una separazione, e nel caso di Perego è uno sdoppiamento. Il mondo contro se stesso. Il mondo dei buoni contro quello dei cattivi, la dimensione dei salvi, anche se ancora per poco, opposta a quella dei condannati.

Tra i salvi ci stanno i puri, e per primi i bambini, simbolo ricorrente di libertà e insieme una fugace speranza. Quanto all’età adulta, una via di sopravvivenza (anzi una «questione di sopravvivenza», come scrive l’autore) è aperta dalla poesia.

I condannati sono gli aguzzini, ma non per forza i colpevoli; tra i condannati stanno tutti coloro che un modello di vita consumistico, quello occidentale, ha reso ormai inerti, incapaci di cambiare la propria esistenza – figurarsi la società che li include.

Da una parte sta chi resiste, e dall’altra chi è già stato contagiato dal male. Nel libro il male si incarna nelle forme degenerate della politica, nella corruzione, nella violenza ordinaria e in quella planetaria delle guerre condotte per avidità di potere e di ricchezza; e ancora nell’ipocrisia e nell’odio sociale, nell’egoismo che cancella la solidarietà.

Questo dualismo, che semplifico nel contrasto tra bene e male, si sdoppia e si traduce nel dualismo cui accennavo all’inizio. Guardando il mondo da una finestra l’uomo può assumere uno sguardo autentico, anche se non autenticante, perché il declino del mondo è irrimediabile. È il caso del poeta. Per esempio la poesia «L’urlo ribelle» racconta l’attesa di un’estate che deve arrivare, dunque del futuro, ma la volontà è fragile: «bastò un nonnulla / per svoltare l’angolo / e trovarsi faccia a faccia col passato / un passato morto e in bianco e nero».

Può anche andare peggio, ed è il secondo caso, quando lo sguardo dell’uomo passa dalla resa, di fronte allo scacco del mondo, all’opacità: l’assuefazione agli orrori quotidiani. Le due categorie sono ben distinte, ma a riempirle è la stessa, unica umanità perennemente in bilico. Lo stesso protagonista delle poesie si sente in pericolo; in una poesia della seconda sezione, “Squilli”, scrive: «prenderanno anche me se continuano così / di questo passo / avranno anche me … / ho provato a resistere».

Nella visione di Perego resistere è l’unica forma di sopravvivenza. Il poeta, la persona, prende atto dell’impossibilità del cambiamento e registra la caduta del mondo, ma non rinuncia a urlare il suo sdegno. Così lo sguardo autentico, ma insieme disilluso, è tutto ciò che si può opporre a un mondo che si dichiara quotidianamente in declino e senza possibilità di cura.

La poesia di Perego è completamente pessimista, è arrabbiata; ed esprime giudizi duri, ma non definitivi. Il pessimismo è alleggerito dai toni sarcastici e derisori rispetto ai mali e ai malvagi della società. Ottavio Rossani scriveva che dietro quel sarcasmo si nasconde una profonda sofferenza. Condivido il giudizio. Ho provato a fare una schedatura di questo libro, delineando i temi e le parole più significative lungo la settantina di pagine. Ho trovato – seleziono grossolanamente – il «veleno», l’«urlo», l’«inferno», l’«inutile», il «lasciar perdere». Insomma il dolore è evidente, è il primo sentimento che il poeta riconosce negli altri e la prima cosa, anche, che racconta di sé.

Rossani concludeva la nota lasciando uno spiraglio aperto alla speranza, attraverso la possibilità dell’amore «come una volta». Credo che, rispetto a Jazz, in quest’ultimo libro la speranza si sia affievolita. La vitalità di quel libro qui si riduce, lasciando campo libero alla desolazione, ma anche a una maggiore consapevolezza, sia della realtà che della propria scrittura.

La speranza si è affievolita, ma resiste. È «la radiosa / finzione / spaventosa della vita» verso cui si incammina il poeta. È negli affetti e nella tranquillità familiare. In una poesia, che mi fa pensare più a Raymond Carver o a Victor Cavallo che alla Beat Generation, cui finora è sempre stato riferito (e non a torto), Perego dipinge in un verso un bellissimo ritratto casalingo. Nella famiglia, grazie ai bambini (di nuovo), si può tenere fuori dalla porta la disperazione, stare in una bolla che sospende il tempo.

e ora mi lascio andare a due sorrisi per la mia bimba
e se qualcuno mi guarda o
ha bisogno di me
più di quanto io di lui
aspetti
questa sera sarà tragica comunque.
così è

              e così
              sarà
             ma ne sono fiero.

Condividi

2 commenti

  1. sono felice che tu esista e cerchi di donare a questo mondo un’ po di speranza che in questo momento ne abbiam<o bisogno,<ciao

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

andreacirolla@minimaetmoralia.it

Andrea Cirolla è nato a Bergamo nel 1983. Vive a Milano, dove si è laureato in filosofia. Lavora nell'editoria e scrive. Suoi articoli e interviste sono usciti su giornali e riviste, tra cui Corriere della Sera, la Lettura, pagina99 e Nuovi Argomenti.

Articoli correlati