l'era dei format

L’era dei format

l'era dei format

Pubblichiamo la prefazione di Fabio Guarnaccia a L’era dei format di Jean K. Chalaby (minimum fax), ringraziando l’autore e l’editore. (Foto: Tim Mossholder via Unsplash)

Non c’è dubbio che questa è davvero l’epoca dei format. Non lo dicono solo i numeri, ma anche l’estensione dei generi che rientrano sotto la sua egida. Se in principio si trattava di un affare che riguardava quasi solo i game show (i quiz), oggi anche le serie televisive ne fanno parte a pieno titolo. A dispetto di tutto ciò, va ricordato al lettore che per fare televisione i format non servono davvero.

Se consideriamo il format come una ricetta per produrre il remake di un programma che ha avuto successo altrove, appare evidente che la sua esistenza non è necessaria. Il programma posso farmelo da solo, così ha funzionato per tanti anni nelle televisioni di tutto il mondo. Sto semplificando, ovviamente, lo stesso Lascia o raddoppia, che tanto ha contribuito a diffondere una lingua comune in Italia, altro non era che l’adattamento di The $64,000 Question, un programma statunitense degli anni Cinquanta. Ma i casi erano sporadici e scompagnati dall’esistenza di un mercato vero e proprio. Com’è allora che oggi siamo nell’epoca dei format?

Il libro di Jean K. Chalaby, sociologo alla City University di Londra, attrezzato di utensili multidisciplinari, presi dalla sociologia, dalla narratologia, dall’economia, parte proprio da questa domanda per gettare luce su un oggetto complesso e sfaccettato e sul mercato globale che ha saputo creare nell’arco di un paio di decenni. Non c’è dubbio che i format possano essere letti come la soluzione ideale offerta ai manager televisivi per ridurre i rischi del loro lavoro.

Il ragionamento più o meno è il seguente: se posso comprare «creatività» che ha già dimostrato di funzionare altrove, perché dovrei rischiare sviluppando qualcosa di nuovo? Senza contare che il broadcaster non compra solo l’idea, ma anche il know how produttivo che serve a realizzarla: il programma e il «come», un sapere pratico affinato dalle molteplici realizzazioni estere dello stesso show. Se volessimo seguire l’iperbole, potremmo dire con Jan Salling, professionista di spicco di questo mercato, che la ragione del successo dei format è il timore di sbagliare. Un mercato globale fondato sulla paura. Ma subito dopo non potremmo fare a meno di notare quella particolare forma di creatività sperimentale, che definirei laboratoriale, che puntella la storia di questo mercato e ne caratterizza i suoi tipping point.

Programmi simbolo come Who Wants to Be a Millionaire? (Paul Smith), Survivor (Charlie Parsons, Mark Burnett), Big Brother (John De Mol), Idols (Simon Cowell, Simon Fuller), i quattro cavalieri dell’apocalisse che hanno sconvolto le tv di tutto il mondo, hanno ognuno una peculiarità creativa che li rende unici e mai visti prima: il programma ideale, se sei un canale che non solo vuole vincere la guerra degli ascolti ma anche connotarsi come il posto in cui «il nuovo» si lascia imbrigliare in un prolungato momento televisivo. Per mezzo di interviste esclusive agli inventori di questi format, Chalaby ne ricostruisce il processo creativo, durato talvolta anni, fatto di intuizioni e affinamenti progressivi.

L’introduzione del meccanismo di eliminazione in Survivor, per esempio, ha permesso a Charlie Parsons di trasformare una sua vecchia idea (il primo esperimento lo ha tentato nel 1988, riprendendo la vita di un gruppo di celebrità in un’isola deserta al largo dello Sri Lanka) in uno dei format seminali del genere. Del resto, non avremmo il reality senza il meccanismo di eliminazione: «L’eliminazione costituiva una parte essenziale del motore della trasmissione perché dettava il comportamento dei concorrenti riguardo ad alleanze da stringere e cospirazioni reciproche, producendo ogni giorno pathos e tensione».

Il libro di Chalaby è ricchissimo di ricostruzioni come questa. Se le discipline che chiama in causa per analizzare il mercato dei format sono diverse, in una cornice teorica ben assestata, la concreta ricostruzione della storia e dei meccanismi di sviluppo di questo sistema sono forse l’elemento più felice del volume:

Per questo studio è stato usato anche un principio metodologico fondamentale stabilito da Braudel e dalla Scuola degli «Annales» nel suo complesso: l’observation concrète, come l’ha definita Braudel, viene prima della teoria e dell’ideologia. Se Braudel riconosceva il contributo dei modelli teorici, solo un’analisi empirica approfondita della realtà osservabile, sosteneva, può svelare tendenze e schemi in precedenza inosservati.

Ed è così che si evita anche il rischio di leggere il format in un’ottica troppo rigidamente industriale. Mi riferisco soprattutto al decennio dei Novanta, quando i pionieri di questo mercato ne ponevano le basi guidati più dal desiderio di trovare un programma nuovo, diverso da tutti gli altri, che dai miraggi delle vendite all’estero. Ma è indubbio che è proprio l’internazionalizzazione la chiave per capire questo mercato e il suo attuale dominio.

A questo aspetto Chalaby dedica buona parte del volume e la cornice teorica: esclusa la lettura cosmopolita, che privilegia l’articolazione di locale e globale e concetti «come ibridazione, sincretismo e métissage», affascinante ma inesatta, fa sua la prospettiva della global value chain (gvc) come descritta da Bair, Gereffi, e Sturgeon, che permette invece di capire com’è organizzato il sistema globale di compravendita dei format e come agiscono gli attori che lo influenzano di continuo:

Lo sguardo cosmopolita è ricco di intuizioni, ma tende a ignorare l’influsso delle strutture di potere capitalistiche sull’industria televisiva mondiale e il suo sempre maggiore radicamento nel sistema di compravendita internazionale. Secondo questa visione i media impalpabili galleggiano al di sopra della logica capitalistica e i prodotti mediali scorrono senza soluzione di continuità in tutte le direzioni. Tuttavia, dalle spezie alla seta e dal caffè alla proprietà intellettuale, le merci hanno sempre seguito rotte specifiche. Nell’ambito dell’economia mondiale capitalistica, alcune di queste rotte sono scomparse, altre hanno prosperato e ne sono emerse di nuove, e nel complesso il capitalismo ha intensificato il commercio incoraggiando una divisione del lavoro su scala mondiale. Consentendoci di portare alla luce la struttura e gli schemi di questi flussi commerciali nel business mondiale dei format, l’approccio gvc elimina la magia dalla comunicazione internazionale e la sostituisce con la storia.

È stato l’ingresso del sistema capitalista nel mondo delle ip (intellectual property) che ha determinato uno sviluppo del format su scala mondiale. A sua volta, la global value chain sta contribuendo a trainare la globalizzazione dell’industria televisiva tout court. La nascita, a partire dagli anni Novanta, di un’offerta multichannel sempre più matura ha moltiplicato più o meno ovunque il bisogno di nuovi programmi. Le case di produzione che detenevano le ip più richieste, società come Endemol e Grundy, non si sono lasciate scappare la possibilità di vendere oltre alla licenza del format anche la sua realizzazione in loco: questo perché c’è più valore nella produzione che nella vendita della sola licenza. Sia Grundy sia Endemol hanno costruito un network internazionale di case di produzione che consentiva proprio questo doppio passo.

Prima della fine dei Novanta, Endemol (nata nel 1994) possedeva case di produzione in dieci territori chiave, appena in tempo per sfruttare al massimo le capacità di questo circuito con Big Brother, che negli anni successivi contribuì ad allargarlo di molto. Produrre un format oltre che venderlo, ci dice Chalaby, è un’altra delle ragioni del successo di questa tipologia di merce. Permette ai detentori della ip di accertarsi dell’accuratezza della realizzazione locale e di gestire al meglio il ciclo di vita: anche un solo flop potrebbe minare il valore internazionale del titolo. Ma, soprattutto, permette il travaso di competenze di cui i broadcaster e le piattaforme nascenti hanno un disperato bisogno. Ancora una volta: l’acquirente non compra solo la licenza, ma anche un corso accelerato su come si realizza quel programma.

Se le cose stanno così, era inevitabile che lo sviluppo del mercato dei format seguisse il vettore dell’internazionalizzazione e dell’acquisizione di realtà locali da far confluire sotto una struttura comune, dotata spesso anche di una propria distribuzione. E così continua a essere ancora oggi, dopo due ondate di acquisizioni che hanno portato le super-indie a diventare sempre più grandi, fino a sfidare gli dei dell’Olimpo hollywodiano, in una gigantomachia che sembra oggi avere stabilito nuovi equilibri. I casi più eclatanti sono quelli di Endemol-Shine, di Zodiak-Banijay e di Itv Studios, fusioni (le prime due) e acquisizioni sfrenate (la terza) che hanno consolidato la fama del Regno Unito come leader di questo commercio.

Quella che racconta Chalaby è una storia molto europea, e nello specifico molto inglese, fatta di vicende regolamentari e di appassionanti intuizioni capitalistiche che hanno portato le case di produzione di Sua Maestà a fondare un impero delle ip televisive in grado di dominare il mondo. Il libro di Chalaby ha il pregio di arrivare nel momento giusto, in tempo per fotografare questi ultimi importanti cambiamenti che hanno visto protagonisti i grandi gruppi «indipendenti» e le indie di successo.

Lo scenario lasciato in eredità dalle recenti acquisizioni è molto interessante. Questa ultima ondata, più simile per intensità a una mareggiata, ha «ripulito» ancora una volta i fondali del mercato, lasciando spazio all’emergere di nuove case di produzione indipendenti, portatrici di affamati spiriti imprenditoriali che promettono di rinnovare la vena creativa del settore. Ed Waller, una delle fonti principali di questo volume, editor di C21 e già collaboratore in Italia di Link. Idee per la televisione, ha recentemente sottolineato come alcuni broadcaster inglesi stiano oggi preferendo le piccole e voraci case di produzione ai colossi lenti e strutturati.

Secondo i dati forniti da Pact a luglio 2017, le indie con fatturato inferiore ai 5 milioni di sterline hanno visto crescere la spesa per gli show commissionati dal 3% del 2009 al 9% del 2015. Quelle con un fatturato inferiore ai 25 milioni hanno avuto un incremento dal 17 al 43%. Le case di produzione più grandi, invece, con un fatturato superiore ai 70 milioni di sterline, sono passate dal 46% del 2011 al 29% del 2014. Il mercato sta generando linfa nuova. Nei prossimi anni, altri cambiamenti sono attesi. La next big thing molto probabilmente non sarà un superformat, ma l’ingresso in campo delle piattaforme on demand. Netflix, Amazon, YouTube, Hulu e Facebook prima o poi realizzeranno i loro show. Amazon, se è per questo, ha già iniziato.

I produttori, grandi e piccoli non fa differenza, si fregano le mani, nell’attesa che questi soggetti immettano nel mercato anche solo una quota dei miliardi di dollari investiti recentemente nella produzione di scripted tv (nel 2017 Netflix ne ha messi più di 6). Se dal punto di vista del business sembra una relazione pericolosa (entrambi i mercati hanno bisogno della scala globale per prosperare), dal punto di vista creativo sarà interessante assistere agli esiti di questa unione inaudita. La maggiore disponibilità al rischio di questi committenti, l’affrancamento dalle strette maglie del palinsesto e le abitudini di consumo pantagrueliche del pubblico, daranno vita a nuove tipologie di format?

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