Perché “Conversazione nella Catedral” è una bussola anche per il XXI secolo

Questo pezzo è uscito su “La Repubblica”, che ringraziamo.

di Nicola Lagioia

In che momento si era fottuta l’Italia?

Nel 2019 compie cinquant’anni uno dei romanzi più importanti e attuali del secondo Novecento, Conversazione nella Catedral di Mario Vargas Llosa. Pubblicato per la prima volta in due volumi da Seix Barral, per imponenza, respiro, capacità di addentrarsi nella psicologia dei singoli e nello spirito di un intero popolo, è uno di quei libri che segnano un’epoca. Insieme a opere come La casa verde e La guerra alla fine del mondo ha fatto meritare a Vargas Llosa il Nobel.

Dall’America Latina all’Europa. Conversazione fu concepito in gran parte a Londra, dove il trentenne scrittore peruviano aveva trovato rifugio insegnando all’università. L’attacco del romanzo è celebre. Santiago Zavala, detto Zavalita, un giornalista di buona famiglia che ha rinnegato le sue origini borghesi, si aggira per le strade di Lima. Edifici scoloriti. Automobili in rovina. Scheletri di pubblicità luminosa che ondeggiano nel pomeriggio grigio. “In che momento si era fottuto il Perù?”, si chiede a un certo punto Zavalita. Le settecento pagine successive sono un tentativo di rispondere alla domanda.

Il Perù in cui si apre la storia è uscito dalla dittatura di Odria, ma è un paese ancora fragile, intossicato dai veleni del passato, privo di direzione per il futuro. Zavalita fa la spola tra il giornale e casa sua, scrive editoriali tappandosi il naso, ogni tanto rende visita a colleghi che preferiscono la compagnia dei diavoli azzurri (le allucinazioni del delirium tremens) al triste spettacolo della realtà. È chiaro che stiamo procedendo a pelo d’acqua. Per inoltrarci negli abissi c’è bisogno di un imprevisto.

Una sera, tornando a casa, Zavalita trova sua moglie in lacrime. Batuque, il piccolo cane della coppia, è scomparso. “Te lo riporterò”, assicura lui. Così Santiago corre verso calle Larco, monta su un taxi collettivo, si fa portare al Puente del Ejército, dove edifici sempre più squallidi si alterano a muri color cacca (“il colore di Lima”, pensa Zavalita, “il colore del Perù”). Al canile municipale Zavalita ritrova il suo Batuque. A consegnarglielo è un zambo che si occupa della soppressione delle bestie. “Non può essere lui”, pensa Zavalita guardandolo, “tutti i negri si somigliano”. Invece si tratta proprio di Ambrosio, l’ex autista di suo padre. I due non si vedono da anni. “Ti sei dimenticato di me?”, dice Zavalita. “La vedo e non ci credo, signorino”, risponde Ambrosio, “certo che la riconosco”.

Quella che sembra una riconciliazione è in realtà una resa dei conti. Ambrosio e Santiago vanno a bere a La Catedral, una bettola il cui ingresso ricorda la porta di una chiesa, ed è qui che ha luogo la conversazione che dà titolo al romanzo. Uno di fronte all’altro, Zavalita e Ambrosio iniziano a scavare nel passato. Sono tanti i nodi irrisolti, a cominciare dal rapporto di amore-odio che lega Zavalita alla propria famiglia e in particolare a suo padre don Fermìn, che negli anni di Odria aveva sostenuto il regime. In un moltiplicarsi di voci e piani temporali che gioca superbamente col magistero di Faulkner, la conversazione tra Zavalita e Ambrosio è l’autobiografia di una nazione perduta, un viaggio nel paese delle ombre, l’impossibile autopsia in vita del Perù.

Il colpo di stato ha distrutto le speranze del paese, ma le cose non sono mai così nette: il modo in cui Vargas Llosa mette a nudo sostenitori e oppositori del regime, odristi e apristi, padri e figli in un crescendo di contraddizioni reciproche, fa di Conversazione un capolavoro. Emblematico il rapporto tra Zavalita e don Fermìn: come succede nella grande letteratura non riusciamo a detestare in pieno chi sta dalla parte sbagliata della Storia (don Fermìn, sodale di Odria, è un uomo di grande complessità umana), così come le ragioni di chi opera per il bene non sono a prova di bomba (Zavalita è un principe spodestato in cui nobiltà d’animo e fragilità si confondono). Tutti partecipano alla grande Conversazione, nessuna voce può dirsi fuori dal coro, fino a un drammatico colpo di scena, sapientemente occultato per tre quarti della narrazione, capace di far crollare il castello di carte in cui il lettore si addentra sospinto dalla bravura mostruosa di Vargas Llosa.

Quando Conversazione uscì, l’Europa era una destinazione ideale per gli scrittori latino-americani: faro della democrazia e della ragione, contrapposta alla visceralità, alle follie, al populismo dell’America Latina. Cinquant’anni dopo è Vargas Llosa a parlare di “sudamericanizzazione” dell’Europa. La politica fondata sull’irresponsabilità, la cultura ridotta a spettacolo, lo spirito critico annegato in un mare di slogan, con l’Italia tra i malati più gravi. In che momento si era fottuta l’Italia?, potremmo dire con Zavalita. In che momento rischia di fottersi l’Europa? La Storia non si ripete, ma il meccanismo degenerativo resta identico: in Europa non c’è ovviamente un regime come quello di Odria, ma se guardiamo all’imbarbarimento del discorso pubblico, alla nomalizzazione di certi abusi di potere, all’arroganza di chi comanda, all’opportunismo di chi si astiene, all’autoreferenzialità di chi si oppone, alla perdita di competitività, alla feroce ostilità verso ogni spinta di rinnovamento, allora molti conti tornano e Conversazione diventa una bussola anche per il XXI secolo. Il presente appare più che mai confuso, ma guardare a certi grandi romanzi puà aiutarci a capire che cosa sta davvero succedendo.

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