Pillola di saggezza – Una storia in stand-by da quarant’anni
Lo ammetto: ho finito di vedere la prima stagione The Handmaid’s Tale solo una settimana fa. Ho passato cinque giorni con gli occhi attaccati allo schermo, tentando di autoconvincermi dell’inverosimiglianza di una storia simile e di come l’idea di una politica che percepisce la donna come una macchina per fare figli fosse ormai superata. Non ci sono riuscita.
A dicembre 2017 ho iniziato a occuparmi di salute riproduttiva, in particolare contraccezione ormonale femminile in Italia: ho visitato ospedali di Roma e di Torino per confrontarmi con i medici, ho incontrato specialisti che credono nell’importanza del tema, ho seguito conferenze, ho parlato tanto con le donne per scoprire quale fosse l’idea che avevano della contraccezione e ho seguito da vicino le battaglie più recenti. Simboli di protesta nella lotta per i diritti riproduttivi mondiali, dall’Ohio all’Irlanda — passando per il Veneto — le ancelle hanno invaso le piazze. Forse proprio per questo non sono riuscita a sentire poi così lontana l’ideologia sociale dietro The Handmaid’s Tale, anche se avrei voluto; per questo, davanti all’originale della Atwood e al suo secondo, The Testaments, ancora esito. Esito soprattutto quando una cara amica, madre di due, decide in accordo col marito di abortire il terzo figlio e mi chiede sostegno, due giorni fa. Esito quando mi interrogo su cosa le accadrà, in una famiglia appena appena giudicante. Sui consigli non richiesti che riceverà. Sul supporto istituzionale che non riceverà.
Credo basti accendere un televisore, aprire un giornale, cliccare su un link o leggere le news dall’iPhone per rendersi conto che la relazione tra giurisdizione e salute riproduttiva femminile è in crisi: la legge per l’aborto continua a creare dissidi, alcuni Paesi come gli Stati Uniti approvano leggi contrarie, l’Argentina fatica ad accettarla, Paesi che l’hanno approvata nel 1978 (come nel caso della nostra 194) mostrano segni di cedimento pur di ristabilire i valori tradizionali; e ancora, qui ci giostriamo tra il Congresso di Verona sulla Famiglia, la mozione 434 di Verona, il Decreto di Legge Pillon. Per non parlare dei manifesti pro-life che ogni tanto invadono Roma. Una Roma nella quale Lucha y Siesta, modello di cittadinanza attiva in piedi da oltre undici anni nel ricovero, accoglienza e supporto a donne e minori vittime di violenza, un centro che nel tempo ha sostenuto 1200 persone, è a rischio chiusura: fa parte del Piano di Concordato con cui Atac risanerà i debiti derivanti dalla sua pessima gestione. Specifichiamo: “Seppure non tutto il lavoro sia monetizzato né monetizzabile, il valore prodotto in questi anni con il lavoro volontario e militante delle donne di Lucha y Siesta è quantificabile e ha fatto risparmiare all’amministrazione capitolina circa 6.776.586,00 euro”, raccontano qui chiedendo supporto. Che concezione ha la nostra politica del ruolo femminile nella società? Qual è il ruolo che grava sulle care amiche di tutti noi?
I concetti di famiglia e maternità vengono impugnati come oggetti contundenti, dimenticando che la possibilità di scegliere dev’esserne la necessaria premessa. La maternità non è un dovere nei confronti di uno Stato con natalità bassa: è una scelta intima, individuale e consapevole. Ma perché si possa compiere serve uno Stato che si occupi di fornire a tutte le donne la giusta informazione contraccettiva: e non è sempre il caso. Anzi. Stando ai dati l’Italia è tra gli ultimi posti in Europa per uso di contraccettivi ormonali.
Quali dati? Secondo i dati Censis 2017 la maggior parte dei giovani si informa sul web; e, secondo il rapporto dell’Agenzia delle Nazioni Unite per le tecnologie della comunicazione Itu 2019, la parità di genere su Internet è in crescita, con il 48% del totale della popolazione femminile connesso contro il 58% del totale degli uomini. Ma l’Italia non ha un sito d’informazione ufficiale dedicato alla contraccezione. Paesi europei come il Regno Unito, la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi dispongono di un sito statale che fornisce informazioni e indicazioni sulle tematiche legate alla salute femminile. Sul sito del nostro Ministero della Salute si possono trovare alcune notizie, ma pagine web dettagliate sul tema sono gestite… dalle case farmaceutiche. Secondo una ricerca promossa dalla Bayer nel 2018, per esempio, che da anni si occupa di monitorare la sessualità degli italiani e il rapporto delle donne con la contraccezione, nel 2018 solo il 13,8% delle italiane ha deciso di fare contraccezione. Ancora: mentre il mondo creato dalla Atwood sembra sempre più vicino, nel giugno scorso la stessa azienda ha promosso una campagna di sensibilizzazione sul tema nella cornice del Festival dell’Amore di Milano. La Pina di Radio Deejay prestava la sua voce a un puppet con il suo stesso aspetto fisico, il profilo Instagram @mycontraceptionit informava le nuove generazioni sui dati riguardanti la sessualità, la campagna giocava sui colori e su contenuti fruibili e rapidi (compreso un hashtag come #DilloaTuaSorella); ma sono costretta a usare l’imperfetto nel descriverlo, perché il progetto è al momento in stallo — l’ultimo post su IG risale a luglio 2019. Un peccato: anche perché rappresentava un gancio efficace rispetto al sito Scegli Tu.
Dal 2005, in collaborazione con la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia, Scegli Tu è una piattaforma interamente dedicata alle donne e alla loro salute. Aggiornato in tempi recenti, si rivolge a un target ibrido e mette a disposizione una vastità di risorse — per esempio, addirittura un kit di slide da usare a lezione pensate per gli insegnanti delle superiori. Nobile senz’altro: ma poco efficace, per registro e toni, rispetto ad approcci più ironici come per esempio Caccia a ottobre rosa, la modalità con cui FanPage e la fumettista Fran hanno prestato attenzione a un altro tema delicato. Parlare di salute femminile in tono diverso si può.
Come si arriva all’anno dei valori di Gilead? Come si raggiunge questo scollamento tra le validissime istanze di sensibilizzazione alle tematiche della salute femminile e la distanza dal target reale? Per capire bene l’importanza di una campagna del genere nel nostro Paese, soprattutto in relazione alle politiche statali, è necessario fare un passo indietro. Un bel po’ indietro.
Un passo indietro
I genitori hanno il diritto fondamentale di determinare liberamente e in maniera responsabile il numero dei figli e l’intervallo delle nascite
Articolo 16, Conferenza Internazionale sui Diritti Umani, Teheran, 1968
Come Angela Balzano ricostruisce splendidamente nel suo Best practice e sperimentazione: dall’interruzione di gravidanza alla contraccezione, la storia dei Diritti riproduttivi è recente e si deve principalmente a due fattori: le spinte del movimento sullo sviluppo della popolazione mondiale e il movimento per l’emancipazione delle donne. Il dibattito per capire quale sia il fondamento che dà origine ai diritti riproduttivi è ancora aperto: per alcuni nascono nel 1948 con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, per altri nel 1968 con la Conferenza Internazionale dei Diritti Umani a Teheran.
Quale che sia la risposta, questa è la prima volta nella storia in cui si arriva alla realizzazione che, con l’aiuto della giurisprudenza, la medicina possa raggiungere più ampie possibilità: un’armonia tra le due, come scrive la Balzano, è fondamentale nonché auspicabile. Senza il riconoscimento dei diritti riproduttivi è impossibile tutelare appieno il concetto di salute sessuale e rendere possibile l’autodeterminazione della persona. I diritti riproduttivi riconoscono la centralità della persona e la rendono libera di compiere la scelta che più ritiene adeguata, come sostiene Stefano Rodotà nel suo Il diritto di avere diritti.
Ma perché l’espressione stessa diritti riproduttivi si cristallizzi dobbiamo aspettare il 1994, dove alla Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo del Cairo la definizione compare per la prima volta. Qui ben 179 Paesi, tra cui l’Italia, sono stati chiamati a offrire agli individui singoli o alle coppie, e in particolare alle donne, pianificazione familiare, consulenza, informazione, educazione, comunicazione e servizi per la cura prenatale e assistenza post natale, l’interruzione volontaria di gravidanza, prevenzione e cura per le malattie sessualmente trasmissibili e contraccezione. Una questione di libertà, dunque; due tipi di libertà contrapposti, di fatto. Una libertà positiva, che fornisca a chi compie una scelta genitoriale le tecnologie moderne per realizzarsi, ma anche una libertà negativa, che consenta l’interruzione volontaria di gravidanza in sicurezza ed educhi alla contraccezione.
Evoluzione e privilegi
“Non faccio l’ambulatorio, faccio la promozione di un’idea di salute che significa andare nelle scuole, fare incontri con le donne per parlare di menopausa e di contraccezione. Questa era l’idea di salute dei consultori”. E queste sono le parole di Anna Pompili, ginecologa, quando la incontro il 3 Aprile 2018 all’Ospedale San Giovanni di Roma. Esce dal suo studio e mi viene a incontro sorridente nel suo camice bianco, poi mi chiede di aspettare: ha ancora un’ultima visita, prima di poter dedicare tutto il tempo che ha alla nostra intervista.
È cofondatrice di AMICA (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto), ginecologa e docente alla scuola di specializzazione in Farmacologia Medica presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”; si è occupata di elaborare e approvare le linee guida sulla contraccezione per la Regione Lazio e ha voglia di raccontare. Quando le chiedo cosa ha significato, per una donna degli Anni ’70, la nascita dei consultori, inizia subito parlandomi di salute. Mi chiedo quanto ne sappiano, le nuove generazioni; mi chiedo, schivando le trappole di retorica, quanto pesino i quarant’anni di formazione che ci separano; o quanti dei miei privilegi siano costruiti letteralmente sulle spalle di chi si è battuto per istituzioni di questo genere. E inizio a ripensare anche la mia idea di consultorio.
Sono gli anni Cinquanta, racconta Eleonora Cirant nel suo Consultori, aborto e contraccezione: ieri, oggi e domani, quando iniziano a crearsi gruppi autogestiti di donne che si interessano alla sessualità.
Nel 1953 compaiono le prime esperienze di consultorio laico, come l’Associazione Italiana Educazione Demografica, che nel 1955 apre il primo centro italiano a Milano, su modello di quelli inglesi; qui si discute di procreazione responsabile, salute fisica e mentale dei genitori e dei figli e si arriva a riflettere sui problemi demografici. Per l’arrivo della pillola bisogna attendere ancora un po’. È il 1965 quando entrerà in commercio in Italia, e sarà prescrivibile solo per un uso medico. Questo perché la contraccezione viene vista dall’articolo 112 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza come un incitamento contro la procreazione o addirittura come un primo passo verso l’aborto. Fino al 1971 la contraccezione sarà considerata reato.
La parola contraccezione, però, inizia a essere pronunciata liberamente in Italia solo nel 1964, quando compare per la prima volta nel periodico Noi donne, il giornale dell’Unione Donne Italiane. Due anni dopo nasce, sempre a Milano, il Centro per l’Educazione Matrimoniale e Prematrimoniale, che ospita discussioni riguardo la sessualità e la contraccezione con donne e con giovani coppie. “Prima della legge c’erano i consultori cattolici, se così si possono definire, quelli laici, quelli privati e quelli femministi. Quando nel 1975 è stata fatta la legge, tutte queste realtà autogestite si sono organizzate all’interno dei consultori pubblici”, racconta ancora la dottoressa Pompili. Di che legge parla? Della 405 del 29 luglio 1975: con essa lo Stato comprende il bisogno delle donne e l’importanza di centri attivi sul territorio, sancendo l’istituzione dei consultori familiari.
“Il personale di consulenza e di assistenza addetto ai consultori deve essere in possesso di titoli specifici in una delle seguenti discipline: medicina, psicologia, pedagogia e assistenza sociale”
Articolo 3
E ancora:
“Lo Stato assegna alle regioni 5 miliardi di lire per l’anno finanziario 1975 e 10 miliardi negli anni successivi per finanziare il servizio previsto dalla presente legge. Il fondo comune è ripartito tra le regioni entro il mese di febbraio”
Articolo 5
“Oggi stiamo tornando a una realtà pre-consultori”, chiosa Anna Pompili. “Ci sono tantissime realtà consultoriali che si sono distaccate dalla struttura pubblica, e questo è grave. Pensa che, a Milano, dall’elenco dei consultori del Ministero della Salute ne risultano 33. Ma, se vai a vedere bene, scopri che di questi 33, 12 sono privati e di questi 10 sono cattolici, come il Massimiliano Kolbe. Questo è un problema, perché anche se la legge prevede i consultori privati, con quelli cattolici non si garantisce un’assoluta neutralità nell’informazione e la possibilità di scelta. Prendi, per esempio, il caso di una donna straniera che per sbaglio finisca in un consultorio cattolico, ingannata dal nome “consultorio”: non riceverà sicuramente risposte obiettive.
La situazione nel Lazio è diversa ma non meno seria: nello stesso elenco sono stati messi centri di salute mentale, centri vaccinali e centri per disabili adulti: il numero risulta, quindi, notevolmente gonfiato. Altri risultano incompleti perché non vi è presente l’equipe prevista dalla legge. Pensa, che il consultorio di Cesano Romano, dove lavoravo e che per anni ha avuto un forte legame con il territorio, oggi risulta aperto sulla carta, quando in realtà c’è un’infermiera che va ogni tanto e smista gli appuntamenti in altri consultori. I consultori pubblici, però, sono in crisi: alcuni, in Lombardia, Veneto, e Emilia Romagna hanno iniziato a far pagare i ticket. Il problema è che l’attività nei consultori non può essere dimostrabile in termini di numeri, il suo scopo non è quello di fare un buon numero di visite, ma quello di fornire informazioni, parlare con la gente e fare incontri. Questo, però, non si può quantificare: è una struttura sanitaria che sta fuori dai termini economici. Il consultorio è un progetto a lungo termine su cui bisogna investire, ma prima bisogna crederci”.
Mentre parla la guardo sempre più incredula; la trasformazione di alcuni consultori in poliambulatori perde di vista lo scopo stesso per il quale sono nati, dice. E io mi chiedo a che distanza si trovi Gilead, esattamente.
Nella rete, in tutti i sensi
“Sono sempre contenta quando i giovani si avvicinano al tema della contraccezione”: così la professoressa Elsa Viora, presidente dell’Associazione Ostetrici Ginecologi Italiani, mi accoglie quando la incontro nel suo studio all’Ospedale Sant’Anna di Torino. È il 18 febbraio 2018. Entusiasta, parla di un progetto che le hanno proposto i ragazzi della Croce Rossa di Torino, in collaborazione con l’ospedale Sant’Anna. L’idea è quella di instaurare un contatto tra i giovanissimi e i ginecologi del Sant’Anna attraverso il social network ASK.fm: i medici risponderanno a un buon numero di quesiti anonimi sulla contraccezione. Una nuova forma di consultorio, se vogliamo: può essere consultata comodamente da casa, senza il bisogno di recarsi personalmente in una struttura e senza la necessità di metterci la faccia.
Ma sempre la Professoressa Pompili racconta: “La prescrizione obbligatoria per la contraccezione d’emergenza è stata tolta nel 2016, ma fino al 2017 sul sito del Ministero era ancora scritto che era necessaria. È stato aggiornato solo dopo che io e Mirella Parachini (ginecologa e attivista radicale) lo abbiamo fatto notare al presidente di Farmindustria durante un dibattito su Radio Radicale”. Dell’assenza delle istituzioni online, limitatamente a questo tema, abbiamo già detto; ma esistono soluzioni?
Best (and worst) practices
I Paesi Bassi sono per l’Europa un modello di Best practice per quanto riguarda la contraccezione. Oggi li vediamo al secondo posto in un grafico europeo (fonte: Bayer, rielaborazione interna su base dati IQVIA-IMF 2017) con un 40% di utilizzo di contraccezione Short Term (pillola, anello e cerotto), ma non solo: hanno un tasso di abortività al di sotto della media europea.
Questo perché vi è un’ampia diffusione di informazioni sulla contraccezione, come racconta Angela Balzano in un capitolo del nel suo Best practice e sperimentazione: dall’interruzione di gravidanza alla contraccezione. L’educazione sessuale è una materia obbligatoria in tutti i programmi scolastici, dalla scuola primaria a quella secondaria. Il medico di famiglia è tenuto ad avere una buona preparazione anche sulla salute sessuale, in modo tale che ogni donna possa essere seguita da una persona di fiducia e facilmente raggiungibile. A tutto questo dobbiamo aggiungere che dal 1971 i contraccettivi sono rimborsati dal sistema nazionale sanitario. I Paesi Bassi, con la loro politica contraccettiva, sono stati in grado di dare alle donne la consapevolezza e di conseguenza la libertà di scelta.
Noi invece? Noi deleghiamo la formazione specifica dei nostri adolescenti a… Netflix: prodotti pur eccellenti come Sex Education, o l’ottima Euphoria di HBO, trattano tematiche fondanti ma possono rischiare di restare splendide vetrine prive di interazione o contatto. Chi può dare risposte alle domande residue?
Free significa gratis. E libero
Allo Stato, “la contraccezione gratuita costa meno di cinque protesi”: Anna Pompili esordisce così, quando ribadisce che credere nella contraccezione gratuita significa credere in una medicina che punti al benessere del cittadino e non solo alla gestione delle cronicità. Il problema è che oggi, in Italia, la sessualità è ancora una questione privata che ogni cittadino risolve per proprio conto, dice. Nonostante costi meno di cinque protesi, continuo a ripetermi.
L’accessibilità alla contraccezione gratuita è l’obiettivo di vari comitati che si sono costituiti in diverse regioni italiane. Nel 2016 i contraccettivi orali sono passati dalla fascia A (a carico del Sistema sanitario nazionale) alla fascia C (a carico del cittadino). Nel 2018 la regione Emilia Romagna, attraverso la delibera numero 1722 del 6 novembre 2017, ha deciso di rendere i contraccettivi gratuiti per tutta una serie di categorie: le donne di età inferiore ai 26 anni, le donne che hanno un’età compresa tra i 26 e i 45 anni e che si trovano nel post IVG o nel post partum, che hanno problemi di disoccupazione o sono state colpite dalla crisi, e, in casi specifici, le cittadine straniere. “Puntare sulla contraccezione gratuita significa puntare su una medicina per il benessere del cittadino. Il problema è che molte donne non possono permettersi né la contraccezione sicura, né quella di emergenza; ecco, quindi, che l’aborto rimane l’unica scelta gratuita”, spiega ancora Pompili.
“Chiediamo per il Piemonte una legge su modello di quella dell’Emilia Romagna. La contraccezione deve essere disponibile per tutti, sia uomini che donne, perché è un diritto delle donne scegliere quando diventare madri. L’aborto non deve essere e mai dovrà diventare una forma di contraccezione”, dicono Silvana Appiano e Enrica Guglielmotti del movimento Se Non Ora Quando di Torino. “Io da giovane ho abortito e non è una scelta di cui vado fiera. Con il passare degli anni mi inizia a pesare e inizio ad avere dei problemi etici che prima non avevo. L’aborto non è a costo zero”, continua Silvana.
Le incontro nella casa di Silvana il 24 aprile 2018. Siamo in cucina davanti a un caffè e iniziamo a parlare di contraccezione, di donne e in particolare della loro attività con Se Non Ora Quando per la contraccezione gratuita in Piemonte. Sono appassionate, seguono la tematica da anni e ripetono che oggi le donne non devono dare per scontati i loro diritti, anche quelli già acquisiti. Un memento mori gileadiano, un altro: perfettamente plausibile, peraltro. Quando a giugno 2018 la legge per la contraccezione gratuita passa anche in Piemonte, e in più all’Emilia Romagna si aggiungono la Toscana e la Lombardia, mi concedo di pensarle come una battaglia vinta. Basterà?
La rivoluzione incompiuta
Nel 2017 si conteggiano 464mila nascite, nuovo minimo storico, il 2% in meno rispetto al 2016. Questo è quello che emerge dai dati ISTAT del primo gennaio 2018. Sempre dai dati ISTAT risulta che, nonostante le nascite siano basse, il numero medio di 1,34 figli per donna rimane invariato da diversi anni. Quanti?
Nel 2015, per dire, il Ministero della Salute presenta il Piano nazionale per la fertilità: il progetto intende informare i cittadini sul ruolo sociale della fertilità, fornire assistenza sanitaria qualificata per la prevenzione e la diagnosi di malattie all’apparato riproduttivo, sviluppare nelle persone una consapevolezza della propria fertilità, operare un capovolgimento della mentalità per cui la fertilità non è più un bisogno del singolo ma dell’intera società, celebrare il prestigio della maternità istituendo il “Fertility Day”. E se si legge dettagliatamente il documento, emerge che è previsto un piano educativo per le scuole, dove il tema contraccezione non è citato. Vedo chiaramente June/Offred fare ciao con la manina.
“In Italia si parla solo dei piani di fecondità perché le donne vengono identificate con la funzione di fare figli. Il numero di figli per donne è rimasto stabile dal 1984, prima era dell’1,34 oggi è dell’1,36. Il problema della fecondità è un mito da sfatare! C’erano delle condizioni che impedivano alle donne di fare figli allora, così come ci sono ora. In Francia hanno una media di 1,9 figli a donna, ma hanno anche un numero di aborti molto alto, che da noi non c’è. La differenza è che in Francia è normale scegliere tra un figlio o l’aborto, da noi la politica indica una sola strada”: è ancora la dottoressa Pompili a rispondermi, quando provo a interrogare lei e me stessa sulla bassa natalità e mi conferma che il “Fertility Day” è parte di una cultura, non una necessità.
Dire che le politiche sociali italiane non danno il giusto peso a una questione di notevole importanza sociale come quella contraccettiva è un eufemismo. Eppure, nel dossier pubblicato dall’ISTAT La salute riproduttiva della donna (2017) si legge: “Storicamente, infatti, la transizione verso metodi moderni ed efficaci, e il progressivo abbandono dell’uso dei metodi tradizionali, viene denominata rivoluzione contraccettiva (Westoff, Ryder, 1977). Tale processo storico si è verificato in Europa nord-occidentale negli anni ‘60 e ‘70, mentre in Sud Europa negli anni ‘80-’90 e in alcuni paesi è ancora in corso: in Italia, dove vi è tuttora un’elevata diffusione del coito interrotto, la rivoluzione contraccettiva appare ancora in via di compimento.”
Ma la rivoluzione contraccettiva in Italia, oggi, è portata avanti solo dai privati. Dalle cause farmaceutiche. Da sporadiche iniziative prive di regia unitaria e prive di supporto alle care amiche. A loro e a tutte noi. Qual è l’idea? Vogliamo che rimanga così?
Benedetta Petroni è nata e cresciuta in un paese di diecimila persone. Vuoi o non vuoi, in questi posti va sempre a finire che sai tutto delle vite degli altri. A lei è successa la stessa cosa: e dopo un po’ ci ha preso gusto.
Studia per catturare storie, lucidarle e restituirle ai legittimi proprietari. Le pubblica on e offline (Internazionale, minimaetmoralia, The Social Post, Arsenale della Piazza – Sermig). Viaggia ogni volta che può. Collabora con Fronte del Borgo, l’ufficio della Scuola Holden che si occupa di didattica gratuita, volontariato e contrasto alla dispersione scolastica. Il mezzo che predilige è il reportage narrativo: perché la dignità dell’esperienza resista al tempo.
Nei paesi di diecimila persone si sa tutto delle vite degli altri. Oggi Benedetta vive in città. Ma non si arrende.
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